Le cose
Discorso pronunciato
lunedì 27 novembre,
a Parma,
nella Sala Righi della Tep in via Baganza,
per l’attivo provinciale
dei delegati e pensionati attivisti della Cgil di Parma
(è un piccolo riassunto dei Malcontenti)
Buongiorno, vi ringrazio per l’invito.
Voglio di parlarvi di tre cose, ho tre idee, le uniche tre idee che mi sono venute negli ultimi tre anni, e ve le dico tutte e tre una dopo l’altra, ci metto un quarto d’ora.
La prima mi è venuta in mente una volta che sono andato a presentare un libro, a Bologna, in una libreria del centro, vicino a San Petronio.
Era un libro di un ragazzo che lavorava in televisione, e aveva scritto un romanzo sulla disintossicazione dalla PlayStation.
Era stata una presentazione poco, non so come dire, poco frequentata. C’erano solo cinque conoscenti di questo ragazzo in prima fila e in ultima fila tre signore tra cui una di una certa età che commentava ad alta voce.
Nella piazza su cui dava la libreria c’era un comizio, era un periodo di elezioni, c’era un palco con la musica e delle persone vestite da pagliacci da circo che giravano per la piazza regalando delle bandierine e dei palloncini, e a un certo punto la presentazione si era dovuta interrompere perché dal palco era arrivato, a volume altissimo, l’inno nazionale.
La cosa a cui mi aveva fatto pensare quel romanzo, e che avevo detto, era il fatto che per me, e per quelli come me, che erano nati negli anni sessanta, io ero nato nel 1963 (a sentirlo la signora in fondo aveva detto: Come è giovane, è giovane come l’acqua), per quella generazione lì, se così si può dire, che aveva vent’anni negli anni ottanta, il mondo era forse un po’ diverso da quello delle generazioni precedenti.
Era una cosa che avevo già scritto anche da un’altra parte, anni prima, e la ripetevo così, un po’ meccanicamente, tutte le volte che avevo l’occasione di ripeterla, e ogni tanto ci aggiungevo un pezzo.
Cominciava dicendo che quelli che erano nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che eran nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che eran nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che eran nati negli cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembrava che noi, avevo detto, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e l’unica cosa che potevamo fare era mettere delle crocette, come nei test.
E allora aveva anche senso, che proprio in quel periodo lì, negli anni ottanta, fossero comparsi in Italia i giochi elettronici, perché uno di vent’anni che passava sei o otto ore al giorno a giocare ai giochi elettronici, che negli anni cinquanta sarebbe stato un disadattato (Te sei un delinquente, gli avrebbero detto i suoi genitori), a partire dagli anni ottanta andava benissimo, perché rispondeva al compito precipuo della sua generazione, di stare tranquillo e non rompere troppo i maroni.
In quel periodo per radio c’era una pubblicità dove c’era una signora che diceva: Ahmed, ripeti con me: Mi sun chi per laurà. E c’era questo Ahmed che diceva: Mi sun chi per Laura. No, diceva la signora, non per Laura, per laurà. E Ahmed diceva: Per laurà. Bravo Ahmed, diceva la signora, vedi che è facile? E poi si sentiva una musichetta e poi la voce di uno speaker che diceva che era una campagna di un qualche ministero per non mi ricordo che scopi.
E a me, non so, mi era venuto in mente che nei romanzi stranieri del sette e dell’ottocento, una delle espressioni italiane che avevo trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che diceva: In italiano nel testo, era: Il dolce far niente.
Allora, non so come dire, avevo l’impressione che a noi, i casi erano due, o ci prendevano per degli altri, oppure ci stavano cambiando proprio i connotati.
In quel periodo, in biblioteca, nel bagno degli uomini, qualcuno aveva scritto sulla porta la traduzione di una frase che doveva essere stato una specie di manifesto dei situazionisti.
Non lavorate mai, c’era scritto con un pennarello nero, e di fianco un cerchio attraversato da una freccia piegata che doveva essere il simbolo dell’autonomia.
E sotto qualcun altro aveva scritto, sempre con un pennarello nero: E chi ci ha mai pensato.
Questa era la prima idea.
Dopo volevo leggervi un volantino che ho trovato appeso a un fermata dell’autobus, a Bologna, c’è stato un periodo che, a Bologna, il quartiere vicino allo stadio, era tappezzato da questi volantini, ce n’era uno ogni fermata dell’autobus e ogni cestino della spazzatura. E dicevano:
Teatro parrocchiale – S. M. Madre della Chiesa
Via Porrettana 121
Incontro con i cittadini sul tema:
LA SICUREZZA NEL TUO QUARTIERE
Giovedì 18 settembre – ore 15,30
LA PREVENZIONE
Fornendo consigli utili per non essere derubati
Con la presenza delle forze dell’ordine
Con la collaborazione del gruppo SanPaolo
Distribuzione e montaggio gratuito delle
CATENELLE ANTIBORSEGGIO
Realizzate con il contributo di
CARISBO L’ORTENSIA
PER PROMUOVERE
L’iniziativa realizzata dal comune
In collaborazione con Hera A. T. C.
Sulle assicurazioni Unibo e Unibo salute
Per gli anziani, vittime di furti e borseggi
Nell’occasione consigli utili per
RISPARMIARE
OMAGGIO:
3 LAMPADINE
A BASSO CONSUMO
E RIDUTTORI DI FLUSSO
Fino ad esaurimento scorte
La seconda idea, mi è venuta in mente quando ho saputo che a Parma, l’amministrazione comunale, avevan visto che erano stati stanziati dei fondi per le metropolitane, avevan deciso di farci una metropolitana.
Ecco io quando ho saputo questa cosa, a me è venuto in mente un mio amico, che faceva l’agricoltore, che mi aveva raccontato che dieci anni prima, c’eran dei finanziamenti europei per chi tirava su delle stalle, lui aveva tirato su una stalla, con le mucche e tutto. E cinque anni dopo, c’eran dei finanziamenti europei per chi chiudeva le stalle, lui aveva chiuso la stalla.
A me, queste cose avevan fatto tornare in mente il personaggio del Candido di Voltaire, Pangloss, che pensava che il mondo in cui viveva fosse il migliore dei mondi possibili: i nasi erano fatti per portar degli occhiali, e infatti c’eran gli occhiali; le gambe erano fatte per essere imbragate, e infatti c’eran le braghe; le pietre erano fatte per fare i castelli, e infatti c’erano i castelli. E le cose non potevano essere altrimenti.
Il nostro mondo, più di due secoli dopo, a pensarci, era ancora di più il migliore dei mondi possibili, e le cose non potevano essere altrimenti.
Le metropolitane eran fatte per usare i fondi per le metropolitane, e infatti c’erano i fondi per le metropolitane. Le università erano fatte per far lavorare i professori, e infatti i professori lavoravano. Gli spettacoli teatrali erano fatti per far sopravvivere le compagnie teatrali, e infatti le compagnie teatrali sopravvivevano. I giornali erano fatti per fare stampare le pubblicità, e infatti stampavano le pubblicità. Il codice della strada era fatto per far dar delle multe, e infatti di multe ne davano un’esagerazione.
Le stalle erano fatte per ricevere i finanziamenti della comunità europea, e infatti c’erano i finanziamenti della comunità europea; dopo qualche anno erano distrutte per ricevere altri finanziamenti della comunità europea, e infatti c’erano altri finanziamenti della comunità europea. I concerti erano fatti per battere i record di più spettatori, e infatti si battevano i record di più spettatori, e così via.
Questo, avevo pensato, da un lato comportava una certa sicurezza, per chi aveva una stalla, o non l’aveva più, o per chi aveva una compagnia teatrale, o per chi aveva una cattedra universitaria.
C’era stato un signore, che quando era giovane pensava che le donne avessero i manici, come le pentole, e cercava di prenderle per quei manici, che non trovava. E era disperato.
Ecco per loro, per quelli che erano dentro questo migliore dei mondi possibili e ricevevano i finanziamenti della comunità europea, o lavoravano a battere i record, era come se il mondo avesse i manici, e questa situazione produceva sicurezza, e l’impressione di un certo potere, magari, perfino; per gli altri, che erano, senza alcun dubbio, la maggioranza, il fatto di non trovare dove fossero i manici per i quali prendere il mondo produceva disperazione.
Questa è la seconda idea.
Poi vorrei raccontarvi una cosa che mi è successa una volta su un treno a Bologna.
Una volta son salito sul treno a Bologna per andare a Reggio Emilia. Sessanta chilometri, quaranta minuti di treno.
Prima che il treno partisse, il controllore aveva trovato una ragazza ucraìna senza biglietto, o con il biglietto non timbrato, non si era capito bene.
Nella carrozza, come succede in questi casi, si era manifestata un’istintiva simpatia per quella ragazza che magari non aveva soldi, che poi in fondo cos’erano, i cinque euro che costava il biglietto, e un’istintiva antipatia per il controllore e per il suo rigore incomprensibile e cieco.
Era anche una bella ragazza, e il controllore non me lo ricordo ma non credo che fosse un gran bel controllore. E la ragazza si era giustificata, in un italiano discreto, col fatto che le avevano spiegato male in biglietteria, o che aveva capito male lei, e si era rifiutata di pagare la multa e di far vedere i documenti, e alla minaccia del controllore di chiamare la forza pubblica, la ragazza aveva reagito dicendo: Lei chiami chi vuole, non è colpa mia, è colpa della vostra lingua di merda.
Questa espressione, la vostra lingua di merda, aveva spento tutti i rumori della carrozza e aveva determinato, nei passeggeri, la fine della benché minima simpatia per la ragazza ucraìna.
E a me era venuto in mente che noi, la lingua che parliamo, è come il nostro cielo; noi siamo tutti dentro la stessa lingua, così come siam tutti sotto lo stesso cielo, e sputare sulla lingua è come sputare nel cielo, ti ricade in faccia.
Questa è una cosa che mi era successa.
La terza idea mi è venuta in mente un po’ di tempo dopo in una libreria di Bologna. In quella libreria di Bologna, mi era successo di dire che io non guardavo la televisione, non leggevo i giornali e adesso da poco avevo anche smesso di sentire la radio.
E che questa cosa aveva prodotto degli effetti singolari, per esempio il fatto che l’ultima volta che era morto un papa, io di questa morte di papa, e del successivo convegno di cardinali per eleggerne un altro, l’avevo saputo per via che nel bar dove andavo a far colazione, sotto casa mia, a Bologna, eran diventati tutti dei vaticanisti.
Un bar che fino a pochi giorni prima era frequentato da bancari, studenti, pensionati, commercialisti, idraulici, sarti, professori di ginnastica, tabaccai, ortopedici, musicisti, impiegati comunali, bidelli, avvocati, fisioterapisti, garagisti e bibliotecari, tutto d’un tratto, dans l’espace d’un matin, come si dice, era diventato il bar dei vaticanisti. E discutevano fra loro, e si dividevano in fazioni, e c’erano i bene informati e i male informati, e c’era chi assicurava che il giorno successivo tutto sarebbe finito, e chi diceva che no, che per altri tre giorni niente fumata bianca, e era in tutto e per tutto quello che un mio amico chiamava la recita del pensare, e per un momento sembrava che radio, e giornali, e televisioni servissero a quello, a permettere alla gente di abbandonarsi a questa generale recita del pensare e per un attimo uno se lo dimenticava, che invece servivano per vendere la pubblicità.
E mi era venuto in mente il discorso che Blok aveva fatto in occasione di non so più che anniversario della morte di Puškin, causata dal duello di Puškin con D’Anthès, quando Blok aveva detto che Puškin non era morto per il proiettile di D’Anthès, era morto per mancanza d’aria.
Ecco, avevo detto in quella libreria, a Bologna, noi c’è il rischio che finiamo così, che moriam soffocati.
Ma da un altro punto di vista, avevo detto, noi vivevamo davvero nel migliore dei mondi possibili, dove i festival servivano per gli assessorati alla cultura, e difatti c’erano gli assessorati alla cultura, dove le automobili servivano all’industria automobilistica, e difatti c’era l’industria automobilistica, dove l’architettura serviva per l’ordine degli architetti, e difatti c’era l’ordine degli architetti, dove i cavalcavia servivano per tirare i sassi sopra le macchine in autostrada, e difatti tiravano i sassi sopra le macchine in autostrada, e andava tutto benissimo, tranne tirare i sassi sopra le macchine, in autostrada, che si entrava in conflitto con l’industria automobilistica, e difatti c’era l’industria automobilistica, andava tutto benissimo bastava non dare fastidio, e a Bologna avevano vietato le manifestazioni in centro per non disturbare lo shopping, che era importante, bisognava far shopping e non rompere troppo i maroni, e poi sarebbe andato tutto bene, fino a esaurimento scorte.
E una ragazza, alla fine, mentre stavo uscendo, mora, sui venticinque anni, con due labbra spesse, carnose, da cantante di liscio, mi aveva detto: Posso chiederle una cosa?
Prego, le avevo detto io.
Senta, mi aveva detto lei, anch’io per un certo periodo avevo provato a fare così: non leggere i giornali, non guardare la televisione, non sentire la radio. Ma poi mi hanno molto criticata e allora ho smesso. Come fai, mi dicevano, a sapere le cose? E io volevo chiederle: Come si fa, poi, a sapere le cose?
E io le avevo risposto: Te le dicono gli altri. Non fanno altro che raccontarti le cose.
Ecco, mi viene in mente un’altra volta, nel gennaio del 2009, c’era in ballo la questione Alitalia, io sono andato a cena a Parma con la mia famiglia, compiva gli anni mio fratello grande, e in questa cena, i primi venti minuti, i miei due fratelli e mia mamma han parlato solo di trasporti aerei, e ne parlavano con dei termini da specialisti che io a un certo momento ho guardato mia mamma le ho detto Mamma, te non hai mai preso un aereo in vita tua, cos’è successo, hai fatto un corso?
C’è un saggio bellissimo di uno studioso russo che si chiama Bachtin, il saggio si intitola La parola nel romanzo ed è pubblicato da Einaudi in un volume intitolato Estetica e romanzo, dove Bachtin dice che noi, le cose che diciamo, il 50 per cento non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo. Quel saggio è degli anni 50, e adesso, secondo me, 60 anni dopo, per me, perlomeno, quella percentuale lì è salita al 98 per cento, e i giorni che mi viene un pensiero mio che l’ho pensato io sono giorni da segnare sul calendario, noi siam veramente, mi sembra, tutti impastati di sonno, non sappiamo neanche distinguere dentro la testa quel che abbiam pensato noi e quello che abbiamo sentito dire dagli altri siamo messi male un bel po’.
Questa era la terza idea.
Poi, prima di concludere, voglio raccontarvi una cosa che mi è successa una volta che ero andato a Padova, a fare una lettura, e a un certo punto nel mio scompartimento era montata una ragazza, avrà avuto poco meno di trent’anni, e appena seduta si era rivolta a una sua coetanea, che era montata con lei e si era seduta di fronte a lei, e le aveva detto: Allora, ti racconto quella cosa là.
E aveva cominciato a spiegare quello che bisogna fare quando uno ti punta contro un coltello. Faceva i gesti e tutto, gesticolava molto. Poi, finito di spiegare cosa bisogna fare quando uno ti punta contro un coltello, si era messa a spiegare cosa bisogna fare quando uno ti vuole strangolare.
E la ragazza che aveva ascoltato aveva detto, alla fine: Be’, io insegno alle medie, può essermi utile.
Questa è una cosa che mi è successa un paio di anni fa, andando a Padova in treno.
Ecco. Quello che volevo dire, che, secondo me, quello che penso io, che si possono fare le cose. Le cose si possono fare. Si possono fare le cose. Le cose si possono fare. Si possono fare.
Grazie.