Un inizio

lunedì 12 Ottobre 2009

Non so perché i giapponesi mi odiano, mi aveva detto.
Era la prima volta che mi parlava.
Era un signore al quale avrei dato settantacinque anni, ne aveva ottantuno, avrei scoperto poi dopo, con delle mani grosse con delle dita enormi che sembrava che avessero ancora tutta la loro forza, delle dita che a guardarle veniva da pensare che dovevano aver sofferto molto di essere andate in pensione, era evidente che quel signore, a parte l’età, era in pensione, aveva un desiderio di parlare con gli altri che hanno solo i pensionati o le persone molto estroverse o quelle molto disturbate, avevo pensato.
La cosa più impressionante eran le dita: sembravano sporche di quello sporco che non viene mai via neanche con la pasta che hanno i meccanici per lavare le mani, era uno sporco di morchia che si era depositato da anni, ma non era quello, che faceva impressione, era il dispiacere: sembrava di sentire il dispiacere delle dita per non essere più impegnate tutto il giorno a girar dei cacciaviti e delle chiavi a tubo e dovere invece voltar dei giornali, prendere delle tazzine di caffè, portar delle borse della spesa, prendere in mano ogni tanto un volante, guidava ancora, Benito, si chiamava Benito.
Era il mese di aprile dell’anno 2009, e avevo fretta, come sempre, in quel periodo, era un periodo che mi era venuta la fretta tipica di quei periodi in cui sai che devi fare qualcosa e non vuoi fare niente.
Avevo cominciato, anzi, non che avessi cominciato, avevo vagheggiato l’inizio di un lavoro sulle brigate rosse, e poi avevo accettato tutti gli inviti che mi facevano per non dover cominciare davvero.
Venivo quel giorno dal meridione, dov’ero stato a fare una lettura, una di quelle col rimborso spese, dovevo andare quel giorno in una città dei fiori, a fare un’altra lettura, una di quelle senza rimborso spese, e il giorno dopo a Piacenza a presentare un libro di un mio amico che dovevo ancora leggere e del quale non avevo idea di quel che avrei potuto dire, e la mattina dopo c’era anche una riunione di quelle lunghe, tre ore e mezza, con la mia azionista, e dovevo anche fare una doccia, e cambiarmi la camicia, e farmi un caffè, e guardare il gatto se aveva tutto, acqua, crocchette, sabbia nella sua bacinella, e fargli due carezze, io e lui da soli, e poi di corsa a prendere l’autobus che mi avrebbe portato in stazione, e quando ero entrato dal portone del condominio avevo trovato l’ingresso minuscolo quasi completamente ostruito dalle spalle grandi di questo signore, spalle coperte da un panno grigio, panno di un cappotto tipo loden, e di un colore che andava di moda qualche decennio prima e che si chiamava fumo di Londra.