La zona
Buongiorno, si sente?
Grazie.
Allora, io, a me un po’ mi dispiace, dir sempre le stesse cose, ma siccome la maggior parte di voi non sanno chi sono, io, non so cosa farci, mi devo presentare, un minimo, allora per presentarmi devo dire che mi chiamo Paolo Nori, che sono di Parma, e di mestiere scrivo dei libri, e ne traduco, anche, dal russo, perché ho studiato russo, e queste cose le dico spesso quando devo cominciare un discorso, le ho dette anche al cinema Kijow di Cracovia il 26 gennaio del 2010 che eravamo lì, con seicento studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori di Modena, come adesso, per una manifestazione che si chiamava Un treno per Auschwitz, come adesso, e era organizzata dalla Fondazione Fossoli, come questa.
E lì, nel 2010, al cinema Kijow di Cracovia, a guardarmi c’erano, tra gli altri, le mondine di Novi, e io avevo letto un discorso che si chiamava Noi e i governi che era un discorso sulla dittatura e sull’anarchia che cominciava dicendo «Buongiorno, si sente? Grazie. Allora, io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, e di mestiere scrivo dei libri, e ne traduco, anche, dal russo, perché ho studiato russo», e poi andava avanti, e una di loro, una delle mondine, alla fine, a Cracovia, nel 2010, non subito, il giorno dopo, mi aveva detto che all’inizio pensava che io fossi un deficiente, perché le sembrava che leggessi delle stupidate in un posto dove di stupidate era meglio non dirne, dopo alla fine, mi ha detto, ho capito anche l’inizio. E io ho pensato che non sapevo quel che le era sembrato alla fine, ma quel che le era sembrato all’inizio, che io ero un deficiente, secondo me aveva ragione, avevo pensato.
E in questo discorso, che è un discorso, devo dire, un po’ strano, e si intitola La zona, e il sottotitolo discorso sul mistero, io mi ero detto che già così sembrava una cosa un po’ da illusionista forse era meglio andare al sodo forse non era il caso di rimetterci dentro quella cosa con la quale iniziava il discorso del 2010, che iniziava con una premessa, e che era la cosa che quando l’ho letta le mondine avevan pensato che io ero un deficiente, che è una cosa che la leggo spesso, all’inizio dei discorsi, perché quando mi capita di far dei discorsi che dico che ho studiato russo, e in quasi tutti i discorsi che mi capita di fare lo dico, dopo alla fine c’è sempre qualcuno che mi chiede «Ma davvero, hai studiato russo?», «Ma come mai hai studiato russo?», allora io di solito rispondo in anticipo con un pezzetto di un romanzo che ho scritto con un mio amico che si chiama Marco Raffaini che ha studiato anche lui russo con me che è una cosa che stasera io ero indeciso se mettercela o non mettercela, dentro il discorso, come premessa, come specie di scivolo, ce la metto sempre, mi ero un po’ stufato, di mettercela, subito avevo pensato di non mettercela, ce la metto sempre, poi in un discorso che parla di mistero, cosa c’entra il fatto che ho studiato russo, ho pensato, non c’entra niente, anche se poi ho pensato che io, per come son fatto, per come mi conosco, secondo me io sono sicuro che qualche russo dentro il discorso poi dopo ci va a finire anche in un discorso che parla di mistero quindi tanto vale che lo dico subito, come mai ho stuidato russo, che poi ho pensato di non mettercela, ce la metto sempre, poi ho pensato che però, non so, perché non ce la vuoi mettere, hai paura di sembrare un deficiente? No, mi sono risposto, Allora se non hai paura, perché non ce la metti? mi sono chiesto, Va bene, mi sono risposto, ce la metto, e allora ce la metto, e quel che ci metto è un pezzetto di un romanzo che si intitola Storia della Russia e dell’Italia che è un romanzo epistolare cioè fatto di lettere che si scambiano due che si chiamano Mario e Learco e vi leggo l’inizio di una lettera che scrive Learco a Mario e che risponde a quella domanda lì come mai hai studiato russo che dopo così non vi viene la curiosità su come mai ho studiato russo che è una curiosità che di solito viene, e il pezzetto che metto qui come premessa è un pezzetto che mi rendo conto, non c’entra niente, però ce lo metto perché non voglio che voi pensiate che mi vergogno di esser deficiente, e il pezzetto con cui vorrei cominciare, che non è ancora l’inizio del discorso, è un’introduzione, una specie di scivolo, e fa così:
Caro Mario,
ero lì che stavo cominciando a scriverti, volevo dirti che non capisco il motivo del tuo pessimismo in un momento che Alvise ci sta risolvendo i problemi forse sottovaluti il target, ti avrei scritto, che a te le storie della Russia di Tano Cariddi di Toto Cutugno forse a te ti sembrano poco interessanti per via che quando facevamo l’università le hai raccontate e sentite raccontare tante di quelle volte, che quando facevamo l’università tutte le volte che andavamo da qualche parte che c’era della gente che non ci conosceva dopo di solito succedeva sempre che a un certo punto una qualche figa, attratta dal nostro magnetismo animale si avvicinava cercava di attaccare bottone E voi, cosa studiate? chiedeva, Studiamo russo, rispondevamo. Russo? diceva lei. Eh, russo. Ma dài, diceva la figa, ma che interessante, oh, chiamava la gente si rivolgeva anche agli altri, loro studiano russo! Russo? si giravano gli altri si fermavano nei loro discorsi, Ma dài, dicevano, Ma che interessante, Ma lo parlate, anche? Ma ci siete stati, in Russia? Ma non c’è freddo? Ma cosa si mangia? Che allora noi, ti avrei ricordato, se le prime volte questo interesse per la millenaria cultura russa era una cosa che ci faceva piacere, che c’era scappata anche qualche fiondata, che te, Pensa, dicevi, ci son quelli che vanno in Russia, per fiondare, a noi ci succede che grazie al fatto che siam stati in Russia fiondiamo in Italia, se le prime volte era anche piacevole, ti avrei ricordato, dopo però dopo due o tre anni di questo andiamo io mi sarei ricordato che ci eravamo un po’ rotti i maroni, di parlar sempre delle stesse cose, e che a un certo punto quando ci chiedevano Ma non c’è freddo? Freddo in Russia? rispondevamo, Ma cosa dici? Nella stagione delle piogge tirano i monsoni siberiani non c’è freddo c’è il clima continentale come in pianura padana con in più i monsoni siberiani, gli dicevamo. E che quando ci chiedevano cosa mangiano i russi noi, I bambini, rispondevamo, ti avrei ricordato, e che in generale erano buoni, dicevamo, te dicevi che soprattutto gli uzbechi e i georgiani, ti piacevano, A me piaccion di più gli armeni son più delicati, dicevo io. Solo, ti avrei detto poi dopo, la gente non si scoraggiava neanche dirgli che in Russia c’era caldo che si mangiavano i bambini, Ma davvero? dicevano, Ma che interessante. Allora mi sarei ricordato che gli ultimi anni quando alle feste le fighe, attratte dal nostro magnetismo animale si avvicinavano e ci chiedevano, Ma voi, cosa studiate? noi una volta avevamo anche detto, Noi non studiamo. Davvero? E cosa fate? Facciamo i facchini. I facchini? Eh, i facchini. Ma dài, aveva detto la figa quella volta lì, mi sarei ricordato, ma che interessante oh, aveva chiamato la gente si era rivolta anche agli altri, loro fanno i facchini! I facchini? Si eran girati gli altri si eran fermati nei loro discorsi, Ma dài, avevan detto, ma che interessante, Ma esistono ancora? Ma ci siete già stati, a far dei traslochi? Ma non c’è freddo? Ma cosa mangiano, i facchini? Allora poi dopo, ti avrei scritto poi dopo, abbiamo imparato le ultime feste degli ultimi tempi dell’università in Italia quando la figa, attratta dal nostro magnetismo animale si avvicinava ci chiedeva, Ma voi, cosa studiate? Economia e commercio, rispondevamo. Ah, scusate, diceva la figa.
Ecco.
Questa era la premessa che rende necessaria anche una piccola precisazione.
Perché questa cosa, come vi ho detto, io la leggo quasi sempre, quando vado in giro a leggere, e l’anno scorso l’ho letta al festival di Santarcangelo, dove leggevo una cosa tutti i giorni, e come prima cosa, prima di tutto, ho fatto come stasera, ho letto questo pezzetto e il giorno dopo gli organizzatori mi han detto che quando ho detto figa per la prima volta c’è stata una mamma che si è alzata ha preso per mano la sua bambina l’ha portata via.
Che allora io il secondo giorno mi sono sentito di dire che, essendo io di Parma, noi, a Parma, figa, cioè non intendiamo proprio la figa, no, non è una sineddoche, è un intercalare, noi figa lo usiamo come intercalare, non so, se c’è caldo, noi a Parma diciamo «Figa, che caldo», oppure, se c’è freddo, noi a Parma diciamo «Figa, che freddo», oppure se non c’è né caldo né freddo, noi a Parma diciamo «Figa, che tempo», e con questo finisce la precisazione che c’era dopo la premessa che veniva prima del discorso vero e proprio che comincia adesso e si intitola:
La zona
discorso sul mistero
da pronunciare a Cracovia
il 2 aprile del 2014
al centro conferenze Gose
nell’ambito della manifestazione
Un treno per Auschwitz
organizzata dalla Fondazione Fossoli
Buongiorno. Io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, di mestiere scrivo dei libri e questo è il settimo anno che la Fondazione Fossoli mi invitano a far questo viaggio e questo è il sesto discorso che faccio, e quest’anno è anche uscito un libretto che si intitola Si sente? e che raccoglie tre dei cinque discorsi che ho fatto qui in questi anni e lo sto andando a leggere e a presentare dove mi chiamano e la prima presentazione che ho fatto l’ho fatta in un liceo di Milano che ho parlato di Auschwitz e di Birkenau per un’ora e mezzo, più o meno, e dopo un’ora e mezzo che parlavo di Auschwitz e di Birkenau ho chiesto agli studenti se qualcuno aveva delle domande e un ragazzo ha alzato la mano e ha detto «Senta, io ho visto che lei è venuto qui a palarci di questo argomento complicato e, devo dire, non è molto preparato, vero?», e io gli ho detto «Secondo me hai ragione », e il motivo per cui secondo me aveva ragione che non ero molto preparato e non lo sono neanche adesso è un motivo, a parte che sono un po’ io, che sono così, impreparato, ma un po’ forse è anche per via del fatto che ci son degli argomenti, c’è un poeta russo che si chiama Kuz’ma Prutkov che uno dei suoi versi più noti è «Non si può abbracciare l’inabbracciabile», ecco, ci son degli argomenti, secondo me, che noi, per come siam fatti, per lo meno io, io ho delle braccia troppo corte, per Auschwitz e per Birkenau, non riesco a abbracciarli, sono inabbracciabili, per me, e l’unico modo che ho di raccontarli è un modo un po’, non so come dire, con dei trucchi, come se fossi un illusionista, e il fatto che il mestiere di scriver dei libri abbia a che fare con l’illusionismo è un’impressione che ho già avuto delle altre volte, per esempio quando stavo scrivendo un romanzo che si intitola si chiama Francesca questo romanzo che ho raccontato di una volta, qualche anno prima, prima ancora di laurearmi, che ero stato in provincia di Bergamo a fare un seminario di lingua russa.
È stato lì, – avevo scritto, – in questa villa del settecento, che ho conosciuto la figlia di Silvan il mago. La figlia di Silvan il mago mi diceva che vivere con un mago è una cosa impegnativa. Che i maghi, si vede, sono persone sensibili, così mi diceva la figlia di Silvan il mago. Che se te non gli presti attenzione, ai maghi, loro ci restano male, mi diceva la figlia di Silvan il mago. Che Silvan, al mattino, quanto tutta la famiglia di Silvan il mago era riunita per far colazione, lui entrava in cucina, Silvan il mago, con il suo bel sorriso da mago Ho inventato una magia nuova, diceva. Ve la faccio vedere? diceva. Allora, mi diceva la figlia di Silvan il mago, c’eran tutti i famigliari di Silvan che abbassavan a testa, sospiravano Che due maroni, dicevano piano tra i denti. Tutti i giorni una magia nuova, poveretti. Gli scrittori, – avevo scritto, – sono un po’ tutti come Silvan il mago, secondo me. Che io, i miei familiari, i primi tempi che scrivevo mi chiedevano di leggere i miei romanzi prima ancora che li finissi, dopo quando glieli davo li leggevano subito, mi telefonavano, Bello, quel romanzo lì, mi dicevano, Bellissimo, mi dicevano. Adesso, ne ho appena finito uno, di romanzi, gliel’ho dato a Emilio, sono già dieci giorni, non mi dice niente. Appena mi vede si mette a cantare Una vita da mediano, di Ligabue.
Ecco io, mi viene in mente adesso che c’è un signore, che si chiama Iosif Brodskij, e che era un poeta, in Unione Sovietica, e che l’hanno messo sotto processo, perché scriveva delle poesie senza essere iscritto all’unione degli scrittori, e l’hanno processato per parassitismo, e gli hanno chiesto «Ma lei, che non è iscritto all’Unione degli scrittori, chi gliel’ha detto che è un poeta? Chi l’ha fatta poeta?», e Brodskij, in tribunale, in Unione Sovietica, ha risposto «Forse è un dono divino», che è una risposta, come dire, nell’Unione Sovietica atea, in un tribunale, rimarchemole, mi vien da dire, che però non l’ha salvato, questa risposta, da una condanna, per parassitismo, a cinque anni in un campo di rieducazione nel nord, e questa forse è la prova, mi vien da dire, che i campi di rieducazione sovietici funzionavano, perché poi Brodskij ha vinto il premio Nobel per la letteratura, l’han rieducato bene, mi vien da dire, e dopo una volta Brodskij ha scritto che, secondo lui, gli strumenti dello scrittore sono «una valigia piena di trucchi», come Silvan il mago, in un certo senso, e, adesso non so, ma io, per parlare di Birekenau, e di Auschwitz, ma più di Birkenau, perché, come scrive un signore francese che si chiama Georges Didi-Huberman in un libro che si intitola Scorze, e che è uscito quest’anno per nottetempo, ad Auschwitz, vedrete anche voi, viene ricostruita l’Auschwitz immaginaria, quella che tutti abbiamo nella nostra testa, Auschwitz ad Auschwitz, scrive Didi-Huberman, «è dimenticata come luogo ideale e ricostruita come luogo fittizio», e a pensarci forse ha rgione che anche la scritta, quella famosa, Arbeit macht frei, è una copia, l’originale l’han tolto dopo che, qualche anno fa, l’avevan rubato, anche la forca che vedrete ad Auschwitz, dove vi diranno che è stato impiccato, il 16 aprile del 1947, l’ex comandante del campo, l’ufficiale delle ss Rudoph Höss, è una copia, l’originale, essendo di legno, è marcito, quella che vedrete, che vedremo, è una copia, e pensate a quelli che l’han costruito la forca, il giorno che l’han costruita, saran stati bene?, che umore avranno avuto? Ai loro famigliari, quando son tornati a casa, cosa avran detto? «Cos’hai fatto oggi?», «Ho fatto una forca», o il camino, il camino del forno crematorio di Auschwitz, che è un camino grandissimo e finto, anche quello, fatto dopo la guerra, per noi, per farci vedere un camino, perché quello originale quando avevano cominciato a funzionare i forni di Birkenau l’avevano demolito e il forno crematorio, ad Auschwitz, non funzionava più da forno crematorio ma da rifugio antiereo, e allora dopo la guerra han rifatto una forca e un camino e li han messi lì per noi, per confermarci l’idea di Auschwitz che abbiamo dentro la testa e che non c’è bisogno di venire ad Auschwitz per trovarla, si trova, come scrive Didi-Huberman, in tutti i luoghi del mondo, biblioteche cinema musei, invece Birkenau, scrive Didi-Hubermann, e a me mi sembra che abbia ragione, «è tutta un’altra cosa, qui i muri quasi non esistono più ma la scala di grandezza non mente e colpisce con una forza, di desolazione di terrore, inaudita», non la forza del museo, ma del sito archeologico, ed è qui, a Birkenau, che io ho sperimentato quello che Carlo Lucarelli chiama il mio punto di rottura ed è qui, a Birkenau, che a me è venuta in mente l’idea che Birkeau sia una zona, che adesso vi dico cosa vuol dire nella mia testa non subito, però, che se vi dico subito cosa penso che sia la zona in un discorso che si intitola La zona dopo cosa devo dire? Non devo più dir niente, invece questo discorso deve durare cinquanta minuti, siamo a malapena a dieci, facciamo una piccola pausa approfittiamo del fatto che abbiamo evocato Carlo Lucarelli che purtroppo, per un incidente che ha avuto che si è massacrato un ginocchio e un tendine non può esser con noi però in qualche modo è comunque presente io per esempio quando penso a lui mi ricordo una volta che era un periodo che avevo una fidanzata che si chiamava Francesca, che adesso è la mamma di mia figlia, che era un po’ comunista, Francesca, laureata in Storia dell’Unione Sovietica, e io la chiamavo Togliatti, quindi un po’ c’entra, anche, questa parentesi, con le dittature e i cambi di concentramento, ma non tantissimo, si parla anche di brigatisti, vedrete, che poi è un tema che credo riprenderemo anche alla fine però non è che parli tanto di brigatismo, questa parentesi anche quello, parla di Lucarelli ma anche quello non in modo diretto, in modo un po’ indiretto, e è un pezzetto che è stato scritto all’inizio del 2000, poche settimane prima che io pubblicassi il mio primo libro per Einaudi, e era un periodo che io non capivo bene cosa mi stava succedendo, ero un po’ confuso, forse non ha neanche tanto senso leggerlo in questo contesto, a Cracovia, però ormai cosa devo fare, ho pensato che ce lo metto, ce lo metto, e fa così:
Aspettare Francesca vedere il secchiaio pieno di piatti sporchi avevo deciso di mettermi a lavare i piatti fare una sorpresa a Francesca mi ero messo a lavare intanto che lavavo Pensa, avevo pensato, uno scrittore che tra poco lo pubblicano con Einaudi, guardalo qui a lavare i piatti. Che umiltà, avevo pensato, e poi mi ero fermato nel mio lavare, Ma sei deficiente? avevo pensato, e mi era tornato in mente uno scrittore russo che diceva che quando aveva diciotto diciannove anni, quando qualcuno gli parlava di cose poco interessanti lui diceva Ma che stupidata! Ma vale la pena di parlare di queste cose? diceva. E gli altri Be’, gli dicevano, sentiamo, cos’è che non è una stupidata? E lui Non lo so, rispondeva, ma c’è. È cominciato tutto da lì, diceva questo scrittore, mi era tornato in mente, e avevo finito poi di lavare ero andato a cercare quel libro di questo scrittore solo che i libri in casa nostra erano in uno stato, pietoso, avevo cercato nelle nostre due librerie dieci minuti senza trovare poi era tornata Francesca dovevamo partire. Dovevamo andare al Teatro occupato che c’era la presentazione di un libro ma anche a vedere la sede nuova che non c’eravamo mai stati allora eravamo partiti, eravamo saliti sull’autobus, ci eravamo seduti in due posti che avevamo trovato uno di fronte all’altro di fianco a me c’era una signora sessantenne bionda e truccata, di fianco a Francesca un signore sessantacinquenne grigio con la giacca sdrucita ma questo me n’ero accorto poi dopo, che io ero entrato nell’autobus avvolto in una nuvola di pensieri letterari molto intelligenti che mi ottundevano tutte le percezioni Slyšal? mi aveva detto Francesca a un certo momento, che Francesca lei ogni tanto quando siamo in ambienti affollati che non vogliamo che la gente capisce quello che ci diciamo l’uno con l’altro lei mi parla in russo che a lei le piacciono molto, queste attività poliziesche da agente segreto Slyšal? mi aveva chiesto, che vuol dire, in russo, Hai sentito? Net, le avevo risposto, ne slyšal, che vuol dire No, non ho sentito. Ta ženšina, mi aveva detto in russo Francesca, blondinka kotoraja sidit rjadom s toboj, mne sprosila Chotite li vy sidet’ rjadom s vašem otcom? Che significa Quella donna, la bionda che è seduta di fianco a te, mi ha chiesto Si vuole sedere vicino a suo padre? Eto ty, mi aveva detto Francesca, Ona dumaet, čto ty, moj otec. Che significa Sei tu, lei pensa che tu, sei mio padre. Ech, le avevo detto a Francesca, ponjal. Che significa, Eh, avevo capito. Ne nado povtorit’, le avevo detto, che significa Non c’è bisogno che me lo ripeti. No ne serdiš’sja, mi aveva detto Francesca, eto smešno, che significa Ma non arrabbiarti, è divertente. Dumaeš’? le avevo detto, mne ne kažetsja, smešno, Davvero? significa, A me non mi sembra, divertente. Che tra me e Francesca ci sono undici anni di differenza e io pensavo che si vedevano tutti, invece si vede se ne vedon di più, ma lasciamo perdere. Comunque poi Možet byt’, nam pora, avevo detto a Francesca, che significa Può darsi che dobbiam scendere. Che era una cosa che non c’era nessun bisogno di dirla in russo solo che io con Francesca quando cominciamo a parlare in russo entriam nella parte dopo smettere poi dopo è difficile andiamo avanti automaticamente per delle ore. Allora ci siamo alzati Kakaja ostanovka? le ho chiesto a Francesca Che fermata? significa, e lei Francesca mi ha guardato stava per rispondermi quello davanti a noi si è girato Gde vam nužno? ci ha chiesto in russo, che significa in russo Dove dovete andare? Francesca, sentire così che eravamo stati scoperti lei mi ricordo mi ha guardato con uno sguardo drammatico ma risoluto come se voleva dirmi che non avevamo altra scelta procedura kappa ventisette inghiottire la pillola di cianuro, voleva dire Francesca. Io, mi ricordo, non sapevo cosa dire cosa fare in che lingua parlare Al Teatro occupato, gli ho detto al ragazzo Allora scendete qui, ci ha detto lui, e è sceso anche lui la nostra stessa fermata ho cominciato a parlare con lui con Francesca che mi lanciava degli sguardi Non dargli confidenza non simpatizzare, voleva dire. Che lui a me mi sembrava uno normale anche gentile Siete qui di Bologna? chiedeva, No, si intrometteva Francesca gli rispondeva, Siamo umbri, diceva cercava di sviare le tracce e intanto entravamo al Teatro occupato ci dicevamo con lui che dopo la presentazione del libro prendevamo qualcosa insieme Io non capisco la confidenza che dài te agli estranei, mi diceva Francesca intanto che ci accomodavamo che ci preparavamo a seguire la presentazione di un libro al Teatro occupato. Il libro che presentavano era il libro di una brigatista che erano le sue memorie di brigatismo in Italia nel settantasette nel settantotto, e quella brigatista lì io pensavo di non conoscerla quando ha cominciato a parlare mi son ricordato che la conoscevo, ma dopo. Che prima ha cominciato a parlare un signore che presentava la brigatista in realtà più che presentare la brigatista parlava dei libri dei brigatisti in generale diceva delle cose anche interessanti soprattutto parlava di Oreste Scalzone. Oreste Scalzone, chi non si intende di storia di sociologia di antropologia di ribellismo Oreste Scalzone deve sapere che è stato un extraparlamentare molto ascoltato molto influente molto presente ora in esilio in Francia non ne so molto, di Oreste Scalzone, che io di storia di sociologia di antropologia di ribellismo a dire il vero io ne so poco comunque quel poco che so so che Oreste Scalzone è un antagonista in rifugio in Francia ancora molto presente nel dibattito sull’antagonismo italiano contemporaneo. Di questi libri di brigatismo io ne ho presentati parecchi, ha detto quello che ha parlato quella sera lì al Teatro occupato, ma devo dire che rispetto alle altre presentazioni di libri di questo genere, stasera c’è una novità. La novità, è che stasera non c’è da guardare nessun video di Oreste Scalzone. Che di solito quando c’è in Italia una presentazione di un libro di brigatismo di solito alla Gare de Lyon di Parigi al mattino alle sei di solito Oreste Scalzone consegna una videocassetta a un capotreno che gli organizzatori italiani delle presentazioni dei libri di brigatismo poi dopo gli tocca di andarla a prendere in una stazione italiana a delle ore improbabili alla sera anche tardi e poi chi viene a un dibattito o alla presentazione di un libro in Italia gli tocca poi dopo sorbirsi tre quarti d’ora di intervento in video di Oreste Scalzone invece stasera niente si vede che Oreste non l’ha saputo, che c’era questa presentazione, ha detto quello che ha parlato al Teatro occupato, che se lo sapeva state tranquilli che alle sei del mattino era alla Gare de Lyon a consegnare il suo video al capotreno adesso ci toccava sorbirci tre quarti d’ora di Oreste Scalzone. Invece stasera possiam cominciare direttamente parlando del libro, ha detto, e ha dato poi la parola alla brigatista. Che appena ha cominciato a parlare Io questa brigatista qua io me la ricordo, ho pensato, io mi ricordo che l’ho vista tre anni fa o quattro anni fa non mi ricordo l’ho vista comunque una volta a maggio inoltrato a Reggio Emilia che c’era un caldo che si crepava che in quell’occasione nel caldo emiliano c’era una manifestazione che c’erano degli scrittori esordienti o appena esorditi che leggevano i loro scritti davanti ai critici importanti e affermati e poi dopo i critici loro all’impronta dicevano il loro parere ultima di questi scrittori doveva leggere la brigatista. Questa brigatista, là a Reggio Emilia, mi ricordo, pensavo al Teatro occupato, in quell’occasione, prima di leggere, nel corso del pomeriggio, quando ha letto il primo, poi quando ha letto il secondo, poi quando ha letto il terzo, lei era la quarta, questa brigatista io mi ricordo quel pomeriggio c’ero seduto davanti questa brigatista lei diceva Mamma mia mamma mia mamma mia adesso tocca a me aiuto aiuto aiuto aiuto, mi ricordo, diceva, ho pensato al Teatro occupato. Mamma mia, dio dio dio dio dio dio dio mio, diceva la brigatista sottovoce prima di andare a leggere le sue paginette di esporsi alle critiche, mi ricordo, e quando poi alla fine era andata a leggere che aveva letto che i critici avevano incominciato a criticarla io mi ricordo che intanto che la criticavano lei guardava per terra era pallidissima tratteneva il fiato ancora un po’ muore soffocata, pensavo là a Reggio Emilia, mi son ricordato al Teatro occupato. Che anche questa signora, pensavo al Teatro occupato, abituata a brigatare a fare delle rapine a vivere da clandestina a sovvertire l’ordine costituito, messa di fronte alla letteratura anche lei ha perso tutto il suo sangue freddo la sua calma il suo aplomb anni e anni di addestramento andati in fumo in dieci minuti. Che in quel momento lì la letteratura a me mi è sembrato che guardarla da fuori la letteratura è un canchero che uno che capisce che canchero è potrebbe anche smettere, ho pensato, di scrivere di occuparsi di letteratura, solo che la letteratura è un canchero così cancerogeno che anche se ti accorgi che è un canchero ormai è troppo tardi non c’è più niente da fare, mi è sembrato al Teatro occupato. Che mi era tornata in mente quella cosa che diceva Sartre che un cameriere non è uno che è, un cameriere, è uno che fa, il cameriere, che io Sartre non lo conosco bene non mi piace neanche tanto quello che ho letto ma questa cosa del cameriere mi sembra che la capisco che abbia ragione solo togliersi di dosso i vestiti interni da cameriere anche quando si è dentro nel ristorante, come si fa? avevo pensato. Poi mi era tornato in mente quello che diceva Foucault che noi siamo molto più liberi di quel che pensiamo che io Foucault lo conosco ancora meno di Sartre lo capisco anche poco ma questa cosa del fatto che siamo più liberi di quel che crediamo mi sembra che la capisco che abbia ragione solo comportarsi da liberi intanto che si è prigionieri, come si fa? avevo pensato al Teatro occupato, e intanto che pensavo così era già finita la presentazione non avevo sentito niente di quel libro lì. Che io con Francesca poi finita la presentazione ci eravamo alzati, ci era venuto incontro il ragazzo che ci aveva indicato la strada per arrivare ci eravam messi a bere una birra lui aveva cominciato a parlare di cosa faceva che lui traduceva dal russo, aveva studiato all’università di Bologna, aveva tradotto un libro sulla storia del Kgb Ma va’, diceva Francesca, Sì sì, diceva lui, ma niente di che, faceva il modesto. E voi, invece, chiedeva, cosa fate? Io faccio la pettinatrice, diceva Francesca, Ah, diceva lui, ma pensa. E tu, mi chiedeva, cosa fai? Io scrivo, gli dicevo. E cosa scrivi? mi chiedeva. Romanzi, gli dicevo. Ma, scusa, come ti chiami, tu, di cognome? Che mentre lui mi chiedeva così Ma scusa come ti chiami tu di cognome Francesca si appoggiava alla spalliera della sua seggiola si metteva fuori dall’orbita del traduttore non si faceva vedere da lui con il braccio mi faceva un segno deciso No, mi diceva col braccio Francesca, No, no, no e no. Eh, gli dicevo io al traduttore, Lucarelli, mi chiamo. Ah, mi diceva lui, sei famoso. Insomma, gli dicevo, sono famoso perché vado in televisione. Be’, mi diceva, io non ce l’ho, la televisione, però ti conosco lo stesso, di nome. Ah, be’, sì, gli dicevo io, forse hai ragione, sono abbastanza conosciuto, gli dicevo. Che dopo, quella sera lì, dopo che avevo detto che ero Lucarelli dopo che mi ero trasformato in un certo senso in Lucarelli quella sera lì io mi ricordo al Teatro occupato anche Francesca si è tranquillizzata si è lanciata in una manovra di controspionaggio ha cominciato a parlar dei miei libri dell’evoluzione mia letteraria a cominciare dai primi gialli pubblicati per Granata Press poi per Hobby & Work poi per Sellerio fino all’approdo alle grandi case editrici alla televisione alla collaborazione mia futura con Celentano Be’, mi ha chiesto il traduttore quando ha saputo che conoscevo Celentano, com’è, Celentano? Ma, gli ho detto io, è gentile, con un tono come se di queste cose io preferivo se non se ne parlava son stato bravo, non mi son dato arie son stato modesto simpatico gli ho fatto fare una figura bellissima, a Lucarelli, che alla fine quando ci siam separati il traduttore mi ha detto che avrebbe senz’altro comprato un mio libro mi ha chiesto quale gli consigliavo Indagine non autorizzata, è l’opera cui sono più affezionato, gli ho detto, e l’ho lasciato con questo consiglio siamo andati a aspettare l’autobus io con Francesca intanto che aspettavamo Pensa, ho pensato, uno scrittore che tra poco lo pubblicano con Einaudi che invece di parlare di sé parla di un suo collega gli fa vendere anche le copie che modestia, ho pensato.
Ecco. Finiva così. E niente. Volevo solo dire che è stato bellissimo, essere Lucarelli, e che se, nel corso di questo viaggio, volete che faccia Lucarelli, non far l’imitazione che non sono capace, ma mettermi nella condizione mentale di essere Lucarelli basta che me lo chiedete io lo faccio volentieri che si sta benissimo, a essere Lucarelli, devo dire. Tra l’altro con Lucarelli, io e Lucarelli siamo diventati tutti e due, come dire, babbi, o papà, papà, non ci avevo mai pensato, è una parola stranissima che il plurale di papà è papà, è una parola un po’ dadaista, papà, «Papà, papà», non sembra neanche una parola seria, comunque, quello che volevo dire, che una volta, proprio qui a Cracovia, Lucarelli sapeva che sarebbe diventato papà ma le sue bambine ancora non erano nate e io gli ho raccontato una cosa che era successa a me con mia figlia quando era nata, che i primi mesi, Togliatti l’allattava, e io ero un po’ geloso, di questa intimità che c’era tra mia figlia e Togliatti che poi è sua mamma e mi ricordo che le dicevo, a Togliatti, «Ma non sei stanca, ma non vuoi che l’allattiamo con il latte in polvere?», e lei Togliatti mi diceva «No, non sono stanca, non voglio che l’allattiamo con il latte in polvere», e io, la mia gelosia cresceva solo che poi una volta, quando è stato il momento di darle da mangiare qualcosa di solido, la prima volta che mia figlia ha mangiato una cosa solida, che non fosse il latte di sua mamma, mi ricordo che Togliatti mi aveva chiesto a me, di darle da mangiare, e io le avevo dato una mela grattugiata, e ero molto curioso e agitato, anche, un po’, di sapere se le sarebbe piaciuta, e mi ricordo che quando l’ha mangiata, che ho visto che le piaceva, ero molto contento, ma la cosa più strana, per me, era il fatto che a annusarla, mia figlia, sapeva di mela, avevo detto a Lucarelli e gli avevo consigliato di annusare le sua bambine dopo che gli avrebbe dato da mangiare la prima volta e qualche mese dopo, ero nella mia cucina, mi era arrivato un sms da Lucarelli che diceva «Vacco Mondo, è vero, san proprio di mela!», Cioè non diceva Vacco Mondo, diceva qualcosa del tipo «Cazzo, è vero, san proprio di mela!». Cioè non era proprio Cazzo, era una cosa del tipo «Figa, è vero, san proprio di mela», che Lucarelli è nato anche lui a Parma avrebbe potuto scrivere Figa anche se non aveva scritto proprio Figa ma insomma, una cosa del genere. Ma torniamo al discorso.
La zona, l’idea della Zona è un’idea che c’è in un libro di fantascienza dei Fratelli Strugackij, libro che si intitola Picnic sul ciglio della strada, che è un libro dal quale il regista Tarkovskij ha tratto un film che si chiama Stalker. Allora di zone, nel mondo, secondo i fratelli Strugackij, ce ne sarebbero sei, e disposte in un ordine geometrico singolare: tre in un emisfero, e tre nell’altro emisfero, e le une agli antipodi delle altre, se così si può dire, ma non secondo una linea che passi per un ipotetico centro della terra, ma seguendo delle linee che partissero da un immaginario punto di sparo. Cioè è come se una pistola enorme, a qualche centinaio di chilometri dalla superficie terrestre avesse sparato tre colpi e i fori di entrata e di uscita sul globo terrestre corrispondessero alla sei Zone. In queste zone succederebbero delle cose sovrannaturali, e pericolose, e utili molto, anche, tanto che l’energia del mondo descritto dai fratelli Strugackij verrebbe tutta dalla Zona. Cioè gli scienziati saprebbero come sfruttale la Zona per trarne energia, ma non saprebbero spiegare il fenomeno che determina questa resa energetica, se così si può dire, e non saprebbero spiegare, né prevedere, la maggior parte dei fenomeni che si verificano nella Zona, tanto che l’ingresso nella Zona sarebbe interdetto ai cittadini, e la Zona recintata da fili spinati e controllata da militari. Proprio per questo, nella Zona, ci sarebbe un traffico notevole di Stalker, o contrabbandieri, che cercano di recuperare nella Zona dei tesori da vendere ai collezionisti, o ai ricettatori, e soprattutto di arrivare a una fantomatica sfera dorata che avrebbe il potere di realizzare i desideri di chi riesce ad arrivarci davanti, e alcuni di questi Stalker, nel cercare di raggiungere la sfera dorata, essendo probabilmente venuti in contatto con materie sconosciute e letali, sono morti, e i loro corpi sono rimasti lì, nella Zona, monito per gli Stalker successivi.
Che voi, mi rendo conto, potreste chiedermi Ma cos’è, di preciso, questa zona, che non si capisce molto bene, e io potrei rispondervi che non si sa bene, o meglio che io non lo so bene, che posso dire soltanto che, dopo che ho letto il romanzo dei fratelli Strugackij, la Zona per me sono stati i campi di lavoro sovietici descritti da Sergei Dovlatov nel suo romanzo Regime speciale, che nell’originale si intitola Zona, così si chiamavano, in gergo, i lager controllati dall’esercito; dopo che ho letto questo romanzo la Zona per me è stata il campo di concentramento di Birkenau quando mi han raccontato che a Birkenau, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dei civili entravano abusivamente nel campo e scavavano delle buche per cercare i tesori sepolti degli ebrei, e trovavano invece delle bottiglie con dentro delle testimonianze di quelli che erano morti, i cosiddetti rotoli di Auschwitz; e dopo che ho letto questo romanzo le zone sono, nella mia testa, i cosiddetti centri di identificazione e espulsione che sono dei posto che quando ci penso mi viene in mente una targa che c’è in stazione a Pistoia, targa che ricorda la seconda guerra modiale e i cui estensori auspicano che il mondo, dopo il sacrificio della seconda guerra mondiale, sia un mondo senza fili spinati.
E poi mi ricordo, quando penso alla zona, di una volta, qualche estate fa, che con una mia amica eravamo andati in un sala teatrale, a Castel Maggiore, in provincia di Bologna, che era un posto, le case tutte nuove, i balconi rotondi, gli autobloccanti, i dipinti sui muri, non graffiti, fatti bene, come dei graffiti comunali, una ballerina, rossa, una chiave di violino, verde, una colonna, blu, con la sagoma di una mascherina, da teatro, quella che ride, bianca, e lì di fianco, in bianco, la scritta Sala teatrale Biagi D’Antona, era anche domenica, domenica le cose, delle volte, è come se non avessero lo scheletro e dopo dentro, mi avevano invitato a parlare dei film che mi piacevano, e veder dei pezzi, Oblomov, Vogliamo vivere, Di madre in figlia, Total Balalajka show e Stalker, e il giornalista mi chiedeva Cosa le piace in Stalker? e io dicevo Non lo so, però l’ultima volta che l’ho visto, quando son lì, nella zona, quell’area proibita, contaminata, forse, forse radioattiva, che c’è la stanza dove dicono che si realizzino i tuoi desideri, ecco io questa cosa, che nella vita me l’han detta, delle volte, Se potessi realizzare un tuo desiderio, cosa desidereresti? ecco questa cosa qui, che nella vita se te lo chiede uno ti vien da pensare che è infantile, e che è rimasto indietro come la coda del maiale, io l’ultima volta che ho visto Stalker, quando sono arrivato lì io ci ho pensato per davvero, a qual era il mio più grande desiderio: Tarkovskij col suo film è riuscito a far di questa cosa puerile e infantile e indietro come la coda del maiale una cosa vera, e acuta, avrei voluto dire, che ti scavava dentro, che superava tutti gli schermi che avevi nella testa e ti toccava dentro, avrei voluto dire, e questa, forse, è l’arte, avrei voluto dire, e è più vera di quello che è vero, la realtà, ma non l’avevo detto, perché quel giornalista mi aveva chiesto E cosa aveva desiderato?, e io avevo risposto Non ve lo dico, e avevam parlato d’altro, e poi alla fine, quando ero andato a fare la pipì, mi era venuto in mente un libro che ha scritto un mio amico che è un vostro concittadino, si chiama Ugo Cornia, e il libro si intitola Sulla felicità a oltranza, e parla, in sostanza, anche se non è bene riassumere i libri, ma, per capirci, Ugo in quel libro lì parla di quando nel giro di pochi mesi gli sono morti il babbo e la mamma, e quel che racconta il libro, in sostanza, è il bene che Ugo voleva a suo babbo e a sua mamma, e quella cosa lì, nella vita, se un tuo amico ti venisse vicino e ti dicesse “Io voglio tanto bene a mio babbo e a mia mamma”, tu lo guarderesti e gli diresti “Eh”, invece, a legger questa cosa dentro il libro, che non c’è scritta, ma c’è, a te, intanto che lo leggi, ti viene in mente il bene che tu vuoi o hai voluto a tuo babbo e a tua mamma, quel libro lì ti scava dentro, e ti tocca, e questa cosa, in sostanza, è l’arte, avevo pensato, e poi avevo pensato che l’avrei potevo anche dire, quel che avevo desiderato, e quel che avevo desiderato era di esser buono, di esser buono, come quand’ero piccolo, e indietro anch’io come la coda del maiale e poi, in macchina, quando la mia amica mi aveva detto Era molto bravo, quel giornalista, io avevo detto Eh, è vero, e intanto avevo pensato E io, non ero bravo?
Ecco. Adesso io, devo dire, avendo parlato della zona, le pochissime cose che avevo da dire quest’anno io praticamente le ho dette, potrei fermarmi qui, solo che avevo preso l’impegno di parlare di 50 minuti non siamo neanche a mezz’ora, un altro paio di cose le devo dire e la prima viene da un’obiezione che mi hanno fatto una volta che sono andato a Parma a presentare quel libretto con i discorsi che ho fatto gli anni scorsi qua a Cracovia che una delle cose che mi hanno rimproverato, che è una cosa che non mi sarei mai aspettato, è il fatto che io, venendo qua a Birkenau io sarei a favore dello stato di Israele, che io, lo stato di Israele, devo dire, ma anche lo stato italiano, cioè io, gli stati, secondo me, c’è un pittore di Reggio Emilia che dice che stato è un participio passato e che da uno stato non può venire niente di buono e che le cose buone che la gente fa, e ce ne sono, nessuna di queste viene dalle cose ufficiali che derivano dallo stato, vengono tutte da cose personali, che derivano dalle persone, e io, secondo me ha ragione, e Auschwitz e Birkenau, nella mia testa, non hanno tanto a che fare con lo stato di Israele, né con lo stato Polacco, e a Auschwitz e a Birkenau, io, quando ci sono stato, io ci son state delle cose che, fisicamente, erano così pesanti che son stato costretto a voltare le spalle, fisicamente, a voltarmi, ma ci son state anche delle cose che mi han riempito gli occhi per esempio a Birkenau, durante la cerimonia ufficiale, il 27 gennaio del 2009, i primi che si sono avvicinati al monumento che c’è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci–dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco–azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva in mano, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici al posto delle foto dei presidenti della repubblica, secondo me, e quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, israeliani, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l’Italia non era rappresentata), quando si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po’ da cow boy, e uno dei due aveva sul cappello un cordino grigio che gli cadeva sulla schiena, e aveva il pizzetto, e il codino, e un’aria un po’ da puttaniere, e ci si immaginava una Mercedes un po’ impolverata che l’aspettava fuori, e a vedere la proprietà con la quale quello lì stava lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarlo, e faceva una figura molto più bella del console d’Israele, faccio per dire, e la cosa che mi vien da pensare è che Birkenau è un posto dove si ribaltano le gerarchie, che quello che conta di più, a Birkenau, è quello che nel mondo di fuori vale meno, non i tesori degli ebrei, ma delle bottiglie con dentro dei fogli di quaderno con gli appunti degli ultimi della terra, non il console israeliano, faccio per dire, ma il rappresentante del popolo rom con pizzetto e codino e cappello da cow boy con un cordino grigio che gli cade sulle spalle e una mercedes blu un po’ impolverata che l’aspetta fuori, e quella cosa lì, che succede a Birkenau, non finisce i suoi effetti a Birkenau, per chi la vede, ma uno che viene infettato da quella cosa lì, secondo me, dopo l’infezione, quella contaminazione lì radioattiva, l’impressione che ho è che gli rimane anche fuori, e non solo in Polonia, anche in Italia e, secondo me, l’ho scritto anche in quel libro lì che sto andando a presentare in giro che mi dicono che non sono molto preparato che il valore di questo viaggio, per quel che capisco io, non è di mettere in circolo ogni anno 600 persone che possono contraddire quelli che, eventualmente, neghino quel che è successo qui in Polonia 70 anni fa, secondo me il valore di questo viaggio è che ci son 600 persone che quando tornano in Italia hanno più strumenti per capire quel che succede in Italia adesso.
Che è una cosa che, uno può anche pensare che sia facile, be’, se uno pensa che sia facile, liberissimo, però la pensiamo diversamente, perché a me sembra che sia così difficile, stare al mondo, mi sembra che abbiamo così bisogno, di cose che ci aiutino a capire, perché, non so, per esempio, non c’entra niente, ma siamo già oltre la metà, ancora due cose che non c’entrano niente una corta e una lunga e poi abbiam finito e la corta è una poesia di Raffaello Baldini, che si intitola in due, e che fa così:
In due
Lo dico sempre anch’io, in due è il massimo, per stare insieme, se vuoi stare insieme, in dieci, in venti, come fai a stare insieme? La gente invece gli piace d’essere in tanti, Eravamo una trentina, senza contare i bambini, e sono contenti, Stiamo insieme, che non vuol dir niente, starai attaccato, non insieme, più siete e peggio è, stare insieme è un’altra cosa, non te n’accorgi? No, non se n’accorgono, per loro, essere in pochi è come non esserci, loro hanno bisogno d’essere in molti, in cento, in mille, in diecimila, in centomila, che io, ci sono stato anch’io, per San Martino, alla festa della Pieve, mangiare, bere, canti, ridi, urli, perché devi urlare, è tutto un urlìo, se no non ti senti, e per loro è allegria, che era un casino, e io lì zitto in mezzo, cosa vuoi che ti dica, mi pareva, ma davvero, d’essere solo, invece in due, tu e lei, la sera, in casa, che a un certo momento spegni la televisione, chiacchieri un po’, lei va di là, torna, sorpresa! due gelati, vuoi crema o cioccolato? poi ogni tanto si esce, si va nei posti, a mangiar fuori, al cinema, il cinema è una roba, come da bambini le favole, si sta lì tutti a sedere, zitti, incantati, se ti viene delle volte da dir qualcosa, dietro c’è sempre uno che protesta: ssst! silenzio! poi, Fine, si accendono le luci, è come svegliarsi, ti alzi, e basta un niente, che le tieni il cappotto, che se l’infila, che la stringi, non molto, solo sentirla.
Ecco, si può provare a andar da quella parte lì, in due, verso l’incanto, però, anche solo in due, è così difficile, cioè ci sono, quei momenti lì, di incanto, ma quanti sono, nella vita di ciascuno di noi, son così pochi, dobbiamo imparare tante di quelle cose che di posti come Birkenau, di zone che ci infettino, ne abbiamo così bisogno, di posti che ci infettino, di qualcosa di inspiegabile che ci spinga da una qualche parte, mi viene in mente una canzone che cantan le mondine, «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo», che a me è una canzone che mi commuove.
Sebben che siamo donne paura non abbiamo, è bellissimo e difficilissimo, mi vien da dire, esser delle donne, e è bellissimo e difficilissimo, essere degli uomini, e è bellissimo e difficilissimo essere insieme, in due, e è bellissimo e difficilissimo essere vivi, secondo me, e ho quasi finito, manca ancora una cosa che è un discorso, un discorso dentro un discorso, e è un discorso che mi hanno chiesto di fare qualche mese fa, il 14 settembre del 2013, a Roma, alla città dell’altra economia, dentro la festa della rivista Left, che è una rivista che vendono insieme all’Unità, e questo discorso doveva essere un’introduzione a un dibattito che si intitolava Le cose cambiano, cambiandole, e era un dibattito a cui hanno partecipato Pippo Civati, Giulio Cavalli, Adriano Zaccagnini,
Mirko Tutino, Paola Natalicchio e Giovanni Tizian che son dei politici italiani contemporanei che però poi, quando si son messi poi dopo a parlare, delle cose che avevo detto io, che avevo provato a ragionare, coi miei strumenti minimi, su come si fa a cambiare le cose, delle cose che ho detto io e delle domande che mi han fatto, loro poi non ne hanno tenuto minimamente conto, si son messi a parlare delle alleanze con l’UDC che sono cose delle quali io non so niente ma che non mi sembrano strumenti potentissimi, per cambiare le cose, le alleanze con l’UDC, e neanche quelle con SEL, con tutto il rispetto per l’UDC e per SEL, ci mancherebbe, solo che secondo me, non so come dire, bisogna andare da un’altra parte, in un’altra direzione, che è la cosa che provavo a dire in quel discorso di qualche mese che si intitola Una regola con il quale finisco e prima di cominciarlo voglio solo dire che prevedo già un’obiezione che giustamente potreste muovere che è: ma cosa c’entra, quel discorso lì, con Auschwitz e con Birkenau, che io, secondo me, già due anni fa io qui ho fatto un discorso sulla vergogna che si intitolava La svizzera che era un monologo di un meccanico di biciclette in pensione che Auchwitz e Birkenau non erano praticamente mai citati che un gruppetto di ragazzi il giorno dopo mi han preso da parte mi han detto «Scolti, noi abbiam sentito, ieri, quel discorso che ha fatto, ci è anche piaciuto, solo che, volevamo chiederle, ma cosa c’entra?», che io all’epoca gli avevo risposto «Non lo so», e se dopo che finisco di leggere Un regola vi viene da farmi la stessa domanda «Ma cosa c’entra?» la mia risposta è la stessa «Non lo so», e l’unica giustificazione che posso addurre, io due anni fa ero senza nessuna giustificazione e me ne compiacevo, anche, quest’anno mi viene da dire che una giustificazione ce l’ho, a finire con una cosa che probabilmente non c’entra, che è un fatto di equilibrio, di armonia, in un certo, cioè che io ho cominciato con una cosa che non c’entrava, il fatto che ho studiato russo, ci ho messo in mezzo una cosa che non c’entrava, il fatto che son stato Lucarelli, se finissi con una cosa che c’entra non starebbe tanto bene, secondo me, stonerebbe, e allora tanto vale metterci
Una regola
discorso sul cambiamento delle cose
pronunciato il 14 settembre del 2013
alla città dell’altra economia di Roma
nell’ambito della festa della rivista Left
Buongiorno.
Grazie dell’invito. Io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, abito a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, e scrivo dei libri, dei romanzi, prevalentemente, ma anche dei discorsi, e oggi mi hanno chiesto di scrivere un piccolo discorso che abbia come tema il tema di questo incontro che chiude la festa di Left, che è Le cose si cambiano, cambiandole.
Ecco, Left è una rivista politica, quelli che parteciperanno al dibattito son tutte persone che, in diversi modi, sono tutti, come di dice, attivi in politica, e noi siamo abituati a pensare che la politica sia il posto dove, per antonomasia, si cambian le cose, e mi vengono in mente due cose, mia nonna, che, quando io mi son laureato a lei le sembrava una cosa così grande, il fatto che mi fossi laureato, le sembrava che io fossi diventato così bravo, laureandomi, che mi diceva che senz’altro sarei andato in parlamento e io le dicevo No nonna, farò poi dell’altro, e infatti è andata così, ho poi fatto dell’altro, e la seconda cosa che mi viene in mente è Pietro Nenni, che, come si sa, quando i socialisti sono entrati per la prima volta al governo e gli hanno chiesto cosa succedeva nella stanza dei bottoni lui ha detto che, entrando al governo, lui si era accorto che, nella stanza dei bottoni, non c’eran bottoni e io, adesso, una cosa che vorrei chiedere, a quelli che parteciperanno al dibattito dopo, cioè Pippo Civati, Giulio Cavalli, Adriano Zaccagnini,
Mirko Tutino, Paola Natalicchio, Giovanni Tizian, che ciascuno dal suo punto di osservazione ne sanno molto più di me, volevo chiedergli se ce li hanno messi, i bottoni, nella stanza dei bottoni, perché io, l’impressione che ho, di politica io ne so molto poco ma se il motivo per cui vale la pena di fare politica è cambiare le cose, io vorrei capire in che senso vi sembra che si possano cambiare le cose.
Allora, io, come ho detto, ne capisco poco, ma per quel poco che ne capisco, un grande libro politico è un libro di Tolstoj che si intitola Che fare? e è un libro che racconta cosa succede a Tolstoj quando si accorge che al mondo ci sono un sacco di poveri, e si mette in testa di provare a aiutarli.
Comincia a dargli dei soldi, ma si accorge che questi soldi, loro, li bevono, in Russia bevono, hanno questa abitudine che bevono e le cose, dopo un po’, Tolstoj, si accorge che non sono cambiate e allora, non se la prende con le cose, né se la prende con quelli che bevono, ma a un certo momento si chiede, dentro il suo libro:
Chi sono io, io che voglio aiutare gli uomini? Voglio aiutarli, e mi alzo a mezzogiorno, dopo un’interminabile partita di whist, infiacchito, molle, bisognoso dei servigi e dell’aiuto di centinaia di persone; e vengo ad aiutare – chi poi? Uomini che si alzano alle cinque; che dormono su tavole, che mangiano pane e cavoli, che sanno arare, falciare, immanicare la scure, squadrare, aggiogare cucire; uomini che per padronanza di sé, per forza, per abilità, per temperanza, valgono cento volte più di me, e io voglio aiutarli! Cosa altro, se non vergogna, posso provare quando entro in rapporto con loro? Tutta la mia vita passa così: mangio, parlo, ascolto; mangio, scrivo e leggo, cioè ancora parlo e ascolto; mangio, gioco, mangio, di nuovo parlo, e ascolto, mangio e di nuovo vado a dormire, e così ogni giorno, e non posso e non so fare altro. E perché possa permettermi di fare tutto questo, occorre che dalla mattina alla sera lavorino per me il portiere, l’inserviente, la cuciniera, il cuoco, il lacchè, il cocchiere, la lavandaia; per non parlare degli operai necessari a produrre gli oggetti di cui questi cocchieri, cuochi, lacchè hanno bisogno per lavorare per me: martelli, botti, spazzole, vasellame, legname, carne di bue. Ognuno di loro lavora duramente tutto il giorno e tutti i giorni perché io possa parlare, mangiare, dormire; e proprio io, questo individuo gramo, ho immaginato di poter aiutare gli altri, quegli stessi uomini che mi nutrono.
Non è straordinario che io non abbia aiutato nessuno e che abbia provato vergogna; la cosa più straordinaria è che mi possa essere venuta in mente un’idea tanto assurda
scriveva Tolstoj nel 1886 e a me vien da pensare, ogni volta che penso a questo passaggio, che se lui, Tolstoj, che era Tolstoj, sapeva di non esser capace di fare niente, a me mi viene da chiedermi, come possiamo noi, che non siamo Tolstoj, pensare di essere capaci di fare qualcosa? Io, parlo per me, mi sento ridicolo, a pensare così, e mi viene da chiedermi Non siamo tutti ridicoli, noi, se pensiamo di esser capaci di fare qualcosa?
Cioè che magari siam capaci, di farla, io per esempio, nel mio piccolo, recentemente, una cosa che ho fatto, un paio di anni fa, ho smesso di fumare, e ho smesso poco dopo che sono state emanate, come si dice, le leggi antifumo, ma se mi chiedo perché ho smesso, mi vien da pensare che non ho smesso per le leggi antifumo, né perché hanno aumentato il prezzo delle sigarette, ho smesso perché me l’ha chiesto mia figlia, e me l’ha chiesto in un modo che ho capito che, questa cosa che fumavo, la faceva star male, e la cosa che mi vien da pensare è che quelli che mi governano, quelli che schiacciano i miei bottoni, ha molti più bottoni mia figlia, del parlamento, o della corte costituzionale, è molto più importante, per guidare il mio comportamento, per indicarmi una strada, la testa di mia figlia, che la testa di Enrico Letta, o di Giorgio Napoletano e di Laura Boldrini, con tutto il rispetto per Enrico Letta e anche per gli altri, e allora la cosa che mi viene da chiedermi, in una situazione del genere, non credete che la vostra capacità di cambiare le cose sia indipendente dal fatto che voi, con ruoli diversi, siete nelle istituzioni?
Mi viene in mente quel passo di Guerra e Pace di Tolstoj, dove Pierre Bezuchov, il protagonista, è stato catturato dai francesi nel corso della campagna napoleonica, e è lì, di notte, nel recinto dei prigionieri, prigioniero dei francesi, i francesi hanno in mano tutta la sua bottoniera, sono arbitri della sua vita e della sua morte, come si dice, e lui è lì, che guarda il cielo stellato e, tutto d’un tratto, scoppia a ridere. E ride forte, e a lungo. E ride per questo pensiero, che gli è venuto: Ma la mia anima immortale, come fanno a tenerla prigioniera? Che è una bella domanda, mi sembra, dopo la quale andare avanti è difficile ma io ci vado lo stesso.
Allora io, adesso, in questi ultimi mesi, mi sono occupato un po’ di politica che adesso ci sono un sacco di politi nuovi e una cosa, devo dire, che non mi convince è l’atteggiamento generale, di alcuni dei politici nuovi, perché questi politici nuovi, in sostanza, quello che dicono, mi sembra, è che loro son diversi, dagli altri, cioè dai politici vecchi, solo che anche gli altri, quelli vecchi, dicono di essere diversi dagli altri, sia dai nuovi che dai vecchi altri da loro,
allora dei politici veramente nuovi, mi sembra, quello che dovrebbero dire è che loro sono uguali, agli altri; non li voterebbe nessuno, però, probabilmente e si perderebbe così l’unica occasione di votare veramente il nuovo, la gente ha tanta voglia di nuovo, ma a parte quello, che pazienza, la cosa che mi convince meno, in questo fatto di proporre se stessi come diversi dagli altri, come: bravi, in sostanza, è che, necessariamente, questo fatto consiste nell’essere soddisfatti di sé e a me mi vien da pensare a una frase di Čechov, alla fine di un racconto che si intitola Uva spina, che è un racconto dove il protagonista è contento del pessimo vino che fa dall’uva spina e questo, scrive Čechov, è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza. A me, ho studiato russo, e mi piacciono i russi, e capisco Turgenev quando dice: «L’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di avere di se stesso una pessima opinione», e io, in una cosa del genere, mi ci trovo, e per uno che è soddisfatto di sé ho un’istintiva diffidenza, mentre per uno che ha, di sé, una pessima opinione, ho un istintivo rispetto.
Un paio di anni fa un mio amico che lavora alla galleria d’arte moderna di Modena mi ha chiesto un testo per una mostra che facevano loro sul sacro e io ho cominciato un po’ a ragionare sul sacro e ho pensato che quello che manca, nelle nostre, come dire, vite, si fa fatica anche a pronunciarle, queste parole, La mia vita, per non parlare della morte, La mia morte, La morte di mio babbo, e anche La morte, da sola, ecco io ho pensato che quello che manca, forse, a parte le autorità, che son sparite, non ci sono più, c’è stato un momento che ci sono state, forse, oggi non c’è più nessuna autorità, a parte quello, che quello lo sappiamo, oggi, forse, quello che manca, mi è venuto da pensare, è il sacro, quel che abbiamo di sacro, ma non quello che c’è dentro la testa, che lì ciascuno ha la propria testa, che per uno è la patria, per uno è la famiglia, per uno è la legge, per uno è la libertà, per uno è Dio, quanto spazio prende Dio, nei miei discorsi, io non parlavo dei discorsi, parlavo delle vite, dei nostri momenti, quando il mondo, si fa fatica a pronunciarla, questa parola, Mondo, quando il mondo ti dà una botta, come se ti dicesse che esiste, come se ti tirasse fuori dai tuoi pensieri, come se ti tirasse la giacca, se tu avessi una giacca, e ti si manifestasse, nel senso che è lì, e c’era anche prima, e tu te l’eri scordato, e ti accorgi che suona, il rumore delle sfere, che delle volte si va a nascondere in cose minuscole, in momenti che non l’avresti mai detto, come quando stendi il bucato, e poi esci e torni a casa e senti odore di sapone di Marsiglia, o come quando hai un computer nuovo e stai caricando il programma di scrittura, o come quando sei in giro, in centro, con tua figlia, e ti volti a vedere se è dietro di te e la vedi e ti vien da pensare “Ma com’è bella”, o come quando firmi un contratto di allacciamento del gas, o quando vedi che gli alberi sono diversi e pensi L’autunno ha cambiato il giardino. Tutte le volte che ti svegli che hai fame. Quando senti qualcuno che sta attento a quello che dice. Quando ti rammendi le tasche della giacca. Quando si beve il primo vino dell’anno, hai vent’anni, e sembra un succo di frutta, sì e no cinque gradi. Quando stai per lasciare l’appartamento nel quale hai abitato tre anni, fai l’ultimo giro e trovi il mozzicone di candela che avevi usato il primo giorno che c’eri entrato, che non ti avevano ancora attaccato la corrente. Quando stai stendendo i panni e ti sorprendi a cantare. Quando sei in giro, al mattino, per il centro, e tutti i posti in cui devi andare sono ancora chiusi, e entri in un bar, e ti ci fermi mezz’ora, e ci trovi una folla di pensionati che gira intorno ai quotidiani come i bambini, con la bella stagione, intorno alle altalene dei giardini pubblici. Quanto tuo babbo ti chiama Ligera, hai tre anni, e tu pensi che voglia dire cravatta, e sei contento che tuo babbo scherza con te. Quando esci da lavorare, hai sedici anni, hai fatto otto ore in un prosciuttificio, e adesso vai a casa, e se così contento che ti strapperesti i capelli. Quando sei a letto, e sei stanco, e dici alla tua gatta, che ha quattordici anni, Vieni qui, e la gatta vien lì. Quando sei sulle spalle di tuo nonno, e fate una gara di corsa, e tu e tuo nonno vincete, e tu eri il più piccolo e non vincevi mai. Quando su per una salita, sull’appennino, è notte, hai ventisei anni, sei a piedi, per mano a una ragazza, e voltate l’angolo della strada e c’è un mare di lucciole, e non è normale, tutte queste lucciole, dev’esser successo qualcosa. Quando tagli il pane, certe volte. Quando sei da solo, e ti apparecchi. Quando parli e ti sembra di sentire la voce di tuo babbo, che è morto da undici anni.
Ecco. Quelle cose lì, secondo me, che sono le cose che mi parlano a me, sono tutte cose che mi parlano della mia debolezza e io, non ne so niente, ma ho l’impressione che un modo bello di cambiare le cose sarebbe bene che non partisse dalla presunzione che noi siamo bravi, ma dalla consapevolezza che siamo deboli, difettosi, insignificanti, e io ho l’impressione, magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che la nostra debolezza, la nostra insignificanza, i nostri difetti, siano le cose più importanti che abbiamo e che abbiamo bisogno di quelle, non abbiamo bisogno di supereroi, e mi viene in mente una cosa che ha scritto lo scrittore americano Kurt Vonnegut che una volta ha scritto: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. Ed era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe», ha scritto Vonnegut, e io, probabilmente sono io, che me ne intendo poco, ma uno che le cose si propone di cambiarle dall’alto della sua infallibilità, o della sua superiorità morale, io, mi rendo conto che probabilmente sono io, ma io, se si parla per esempio di trasporto pubblico, a me piace la Russia, e se penso alla Russia che ho conosciuto io, mi viene in mente una volta che dovevo prendere un filobus, a San Pietroburgo, sulla prospettiva grande dell’isola Vasilevskij, sarà stato il 1996, pioveva, sono entrato sul filobus, era pieno, dappertutto, tranne un tondo di un metro di diametro che era vuoto perché in alto, sul soffitto, se così si può dire, c’era un buco. Allora loro cos’hanno fatto, i russi, hanno fatto un buco anche sotto, sul pavimento. E l‘acqua passava. E il filobus andava. E questa per me era la Russia e, con tutti i suoi difetti, era bellissima, e c’è uno scrittore russo che si chiama Sergej Dovlatov che una volta ha scritto:
«Purtroppo non ci sono dati statistici certi su quali siano, in russo, le parole più o meno usate. Cioè tutti sanno, chiaramente, che la parola «merluzzo», per esempio, è significativamente più usata della parola, per dire, «sterletto», e la parola «vodka», diciamo, è più usuale di parole come «nettare» o «ambrosia». Ma di dati certi, ripeto, a questo proposito, non ne esistono. E è un peccato.
Se dati di questo genere esistessero, ci accorgeremmo che, per esempio, l’espressione «è un lavoro fatto coi piedi» è una delle espressioni più usate, in Unione Sovietica».
Ecco, a me un mondo fatto coi piedi così, non so perché, ma mi piace, mi sembra un mondo consonante con i miei difetti, se così si può dire, e, se dovessi indicare, con tutta la mia insipienza, una regola, una direzione verso la quale muoversi, non saprei indicarla e ne prenderei a prestito una che ha individuato sempre Kurt Vonnegut, quando ha incontrato Joe. «Joe, – ha scritto Kurt Vonnegut, – un giovane di Pittsburgh, un giorno mi si è presentato con una semplice richiesta: «Per favore, mi dica che prima o poi finirà tutto bene».
«Benvenuto sulla Terra, giovanotto», gli ho risposto io. «Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pianeta rotondo, umido e affollato. Bene che vada, Joe, tu hai un centinaio di anni da vivere da queste parti. E di regola io ne conosco una sola: Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!».
E Tolstoj, in un saggio del 1903, intitolato Agli uomini politici, in quel saggio lì Tolstoj scrive
Poiché gli uomini che detenevano il potere si sono sempre lasciati depravare da tale loro potere e hanno perciò impiegato quest’ultimo non tanto per il bene comune, quanto piuttosto per il loro bene personale, è sempre avvenuto che il nuovo potere finisse per essere tale e quale al precedente, e spesso ancora più ingiusto.
e
Se il potere deve esser distrutto, ciò non potrà avvenire in nessun caso mediante un ricorso alla forza, giacché un potere che distrugga un potere rimane pur sempre un potere, ma ciò potrà avvenire unicamente grazie al chiarirsi, negli uomini, della consapevolezza del fatto che il potere stesso sia inutile e dannoso, e che gli uomini non debbano né sottomettervisi, né prendervi parte.
E dopo conclude, Tolstoj, che
vi è un solo mezzo di influire sulla vita degli uomini, perché divenga buona: vivere noi stessi una vita buona. E perciò anche l’attività di quanti desiderano contribuire all’instaurarsi di una vita buona tra gli uomini può e deve concentrarsi unicamente nell’interiore perfezionamento di sé, nel concretare ciò che nel Vangelo è espresso con le parole «Siate prefetti come lo è il Padre vostro che è nei Cieli».
Ecco.
Che è un discorso, se non lo facessero Vonnegut e Tolstoj, imbarazzante, cioè son quelle cose lì di quando sei piccolo, essere buoni, c’è da avere vergogna, ma l’impressione che ho io, non ne capsico tanto, ma mi avete invitato, portate pazienza, l’impressione che ho io è che molta parte del discorso politico di questi ultimi trent’anni, sia consistito, da qualsiasi parte venisse, in un discorso sui nemici, sull’elevare i propri nemici al rango di supereroi negativi, per così dire; onnipotenti che frenano il progresso per i propri interessi e perché sono cattivi e che hanno la colpa del fatto che le cose van male.
Mi ricordo quando avevo vent’anni, o poco più, c’era una rivista che si chiamava Cuore, che faceva un concorso tra i suoi lettori sulla cosa più bella del mondo, e mi ricordo che prima in classifica era spesso la morte di Andreotti. E la cosa all’epoca, a me, mi faceva ridere.
E quando Andreotti è morto, quest’anno, io ho pensato a com’ero coglione, quando avevo vent’anni.
E una volta, a un convegno, cinque anni fa, avevo di fianco a me un sindacalista, e dopo che avevamo sentito una decina di interventi in cui, in ogni intervento, si parlava del presidente del consiglio di allora come dell’origine e della spiegazione di tutti i mali, questo sindacalista, segretario del sindacato più a sinistra che si possa immaginare, si è voltato verso di me mi ha detto Io quello lì, cioè il presidente del consiglio di allora, spero che muoia, ma mica per lui, perché così almeno la smetteremo di giustificare tutto quello che non riusciamo a fare con il fatto che c’è quello lì.
E voglio finire con una pagina di un libro di Anna Laura Braghetti, una brigatista che ha partecipato al rapimento di Moro e ha ucciso Vittorio Bachelet:
Ai funerali di Vittorio Bachelet – scrive la Braghetti, – la famiglia perdonò gli assassini, pregò per me. Adolfo Bachelet prese a girare per le carceri e a intrattenersi con i detenuti politici. Fu così che incontrò Francesca, e le chiese di me. Mi raccontava spesso dei figli e delle figlie dell’uomo che io ho assassinato, ma la domanda “Perché proprio mio fratello?” non era un ingombro fra noi. Da lui ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile. Quando si ammalò, trascorsi molto tempo con lui, e verso la fine mi disse: «io muoio, ma non ti lascio sola, perché per te c’è sempre mio fratello Paolo»”. Don Paolo è il cappellano della città universitaria.
Non sono andata ai funerali di Adolfo. Lo desideravo, ma in quella chiesa sarebbero potute esserci persone cui non posso imporre la mia presenza, per le quali io sono un insulto. Ho mandato una lettera senza firma per ringraziare Adolfo di avermi indicato la via della riconciliazione, mi hanno detto che è stata letta. Molti devono aver capito da chi proveniva. Ho poi telefonato a suo fratello, che ha voluto vedermi e mi ha regalato una statua della Madonna. L’ho affidata alla mamma di Francesca Mambro, perché con lei mi sembra al sicuro.
Mia madre è stata travolta da un’automobile sulle strisce pedonali mentre andava a prendere l’autobus. Era impiegata alle Poste. Aveva appena affidato me e mio fratello, usciti dall’asilo, a mio padre. Facevano in modo di non lavorare negli stessi orari perché uno di loro potesse sempre stare con noi. Fui io a girarmi indietro, mentre già trotterellavamo verso casa, e la vidi riversa sulla strada. Dissi a papà che la mamma era caduta, e mi sembrava che la sua testa fosse in una posizione strana. L’hanno portata all’ospedale ma è stato completamente inutile. Si chiamava Gina.
Recentemente sono stata invitata a parlare in Campidoglio a un convengo sul carcere organizzato dalla Caritas, e fra gli altri relatori c’era anche il figlio di Vittorio Bachelet. Ci siamo conosciuti. Mi ha parlato e mi ha detto che bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato. Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene .
Ecco, a me, questa pagina, ricorda quella poesia di Mariangela Gualtieri che a un certo punto dice: «Benedico ogni centimetro d’Amore ogni minima scheggia d’Amore ogni venatura o mulinello d’Amore ogni tavolo e letto d’Amore l’Amore benedico che d’ognuno di noi alla catena fa carne che risplende Amore che sei il mio destino insegnami che tutto fallirà se non mi inchino alla tua benedizione.».
[Il testo della Braghetti è preso da Anna Laura Braghetti, Paola Tavella, Il prigioniero, Milano, Feltrinelli 2003, pp. 133-134, il testo della Gualtieri da Mariangela Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino, Einaudi 2003, p. 97]