La verità dell’epoca?

lunedì 30 Marzo 2009

di Patrik Ouředník

Il presente testo è stato letto dall’autore nel corso di un recente viaggio in Italia, con tappe a Pisa, Bologna, Reggio Emilia, Padova e Venezia (aprile-maggio 2008), in occasione della presentazione delle traduzioni italiane di Europeana (Palermo 2005) e Istante propizio, 1855 (Palermo 2007). Su desiderio dell’autore la versione francese è stata completata sulla base della versione ceca.

Diciamo che quello che mi interessa nella scrittura, in quella degli altri come nella mia, è quella che di solito viene definita “la verità dell’epoca”. Questo termine è, senz’altro, estremamente vago, perché in ogni epoca esistono e coesistono delle verità diverse, ogni epoca implica una moltitudine di verità. Il gioco consiste allora nel tentativo di racchiudere, di abbracciare questa moltitudine, questa pluralità di cose. Un autore ha a sua disposizione diversi mezzi, il più comune dei quali è il confronto dei destini, delle vite umane nell’ottica della microstoria.

Quanto a me, cerco di provare a applicare un principio un po’ diverso e di partire dalla premessa che è possibile prendere come sinonimo della “verità dell’epoca” la lingua di quest’epoca, vale a dire di cercare di realizzare la famosa polivocità bachtiniana, la polifonia polivoca della memoria, e collocarla in una specie di metalinguaggio. L’io narrante, che sia esplicito o meno, deve incorporare voci diversa dalla sua – ammesso che lui ne abbia una.

Come gli storici anche gli scrittori lavorano molto con i testi, – cronache, giornali, corrispondenze, diari dell’epoca e così via. A questi scritti ci si può avvicinare in due modi. Si può – e lo fanno gli storici – cercare prima di tutto (magari non soltanto, ma in via prioritaria) delle informazioni sugli avvenimenti, “su quel che è successo”, “su quel che è avvenuto”. Oppure – e questo è quello che mi interessa in primo luogo – noi possiamo cercare prima di tutto il modo in cui questo avvenimento è stato raccontato. In questa prospettiva non si tratta più di sapere chi ha vinto la battaglia di Solferino, ma di vedere come i cronisti l’hanno descritta. La “verità dell’epoca” sta in questa descrizione, e non nell’avvenimento in sé. Va da sé che questa descrizione dell’avvenimento, la si può concepire come sinonimo della forma. Va da sé anche che quel che noi chiamiamo il “contenuto” non ha alcuna esistenza reale. Il contenuto è un mucchio di sabbia, e se vogliamo trarre da questo mucchio di sabbia una realtà qualsiasi, dobbiamo prima di tutto mettere la sabbia nel secchiello, poi bagnarla con l’acqua, quindi metterla in una formina, per tirare fuori alla fine una figura di sabbia. È sempre la stessa sabbia, ma nel frattempo è diventato un’opera d’arte.

La vita umana è, in sé, di una banalità straziante. Personalmente credo molto alla banalità, ma esprimere la banalità in letteratura è una cosa piuttosto delicata. Perché? Perché, in modo piuttosto paradossale, la banalità è inverosimile finché non le diamo una forma. Da qui la necessità di portare sempre con sé il proprio secchiello.

Un altro denominatore comune dei miei tre libri (o perlomeno di alcuni di essi) è un certo parallelismo, una specie di compenetrazione tra realtà e finzione. La finzione è, a mio parere, uno dei sinonimi possibili della realtà. Non solo per quel che concerne la storia. Etimologicamente, la finzione è il modo di “trattare”, di “modellare” una cosa determinata, vale a dire la realtà. Ed è esattamente in una realtà trattata, modellata, che noi viviamo la nostra vita reale, che noi viviamo delle sensazioni reali, delle emozioni reali, o perlomeno di tanto siamo convinti, che è poi lo stesso.

Detto in un altro modo, di quel che si trova dentro i miei libri – a livello fattuale – cosa sia reale e cosa sia fittizio, non ha alcuna importanza. Quel che è importante, dal mio punto di vista, è che si possono trattare le due cose nello stesso modo. Così come la verità di un’epoca, anche la realtà di un’epoca moltiplica e inevitabilmente si appropria di una certa dose di finzione, così come la finzione necessariamente implica una certa dose di realtà.

In altri termini non è la storia in quanto tale quel che mi interessa, ma gli stereotipi prodotti dalla storia, quel che è reale e quel che è fittizio, e che dopo, una volta che la storia è passata, ci permettono di parlarne. E più si parla della storia, più si ha l’impressione di avere un’opinione. Muniti di questa opinione, andiamo al bar o in una birreria (dipende in quale parte del mondo ci troviamo) a proclamare la nostra opinione chiara e tonda. E allora qualcuno, al tavolo a fianco, si alza e ne proclama un’altra. Voi vi impadronite di una sedia e gli spaccate la testa. Lui, stordito, tira fuori un coltello e vi uccide. Noi abbiamo allora una certa probabilità – diciamo una su centomila – che la vostra morte assuma il ruolo del battito d’ali della farfalla e scuota la storia. In casi rari la storia mondiale, in altri la storia più o meno locale. E produrrà altri stereotipi, che produrranno altre opinioni e altre teste rotte.

La funzione della letteratura non consiste, credo, nel rompere questo circolo vizioso – avvenimento, interpretazione dell’avvenimento che genera l’avvenimento successivo – ma semplicemente nel metterlo in evidenza, nel metterlo in scena. Ciascuno di noi si chiede di tanto in tanto quale sia la storia nella quale, di fatto, egli vive, e quale sia la sua storia personale dentro la storia collettiva.

Dal che deriva un altro problema che riguarda la letteratura nel caso in cui essa intenda rispettare la pluralità di verità, la pluralità dei destini umani – il problema della gerarchia delle cose, o più esattamente il valore dato a una verità a dispetto di un’altra.

Roland Barthes, nel suo seminario intitolato La preparazione del romanzo si chiedeva quale forma di espressione fosse la più adatta alla rappresentazione del mondo, e metteva in opposizione in particolare due forme, o due media, il libro e l’album. Il principio del libro consiste nell’inglobare, abbracciare le cose in una struttura più o meno premeditata, in una architettura che inevitabilmente comporta già una gerarchia. Il principio dell’album – perlomeno dell’album tradizionale di famiglia, nella maggior parte dei casi plurigenerazionale – è la rottura, la dispersione: il solo elemento che dà alla cosa un cemento è la volontà di salvaguardare un istante, una miniatura della vita, senza che questa miniatura della vita sia considerata superiore o inferiore a un’altra. Così considerato, l’album di famiglia è forse la sola forma di testimonianza che sfugge al principio gerarchizzante, o perlomeno ne rappresenta il livello più basso.

Temo che la letteratura non possa arrivare a questo livello di orizzontalità delle cose, la costruzione di un libro è di per sé inevitabilmente verticale. Ma, da un altro punto di vista, niente impedisce alla letteratura di aspirare a questo obiettivo.

Di tanto in tanto a questo proposito mi capita di leggere, in commenti che riguardano i miei libri, il termine “relativismo”: Ouředník relativizza questo o quello. Se si prende questa parola nella sua accezione originale, scolastica, che troviamo nell’aggettivo “relativo”, vale a dire la denominazione di qualcosa che vale, che è vero solo in rapporto, in relazione con un’altra cosa, in questo caso sottoscrivo questo concetto senza esitazioni. Nessun avvenimento, nessuna vita umana è comprensibile, intelligibile, e tanto meno concepibile, fuori da un dato contesto– e il contesto è qualche cosa di eminementemente mobile e fuggevole. Cosa che, detta così, sembra molto banale, ma non è forse inutile di tanto in tanto ricordare delle cose banali.

Il problema è che la società non può fondarsi su delle basi mobili. La società ha bisogno di una storia collettiva chiaramente formulata, e, di conseguenza, di verità assolute – possiamo chiamarle univoche, nazionali, sovranazionali, sovratemporali, universali, morali e così via. Detto in un altro modo, abbiamo da un lato uno schema in cui tutto è fuggevole, e dall’altro la necessità di produrre un certo numero di illusioni grazie alle quali è possibile raggiungere un linguaggio comune – che si serve, è chiaro, degli stereotipi di cui parlavo prima.

E rieccoci al punto di partenza.

In ogni caso, la verità, intesa in quanto verità sociale, non può non essere stereotipata nella misura in cui ella voglia avvicinarsi il più possibile alla generalizzazione, all’universalità. E se si dice spesso che la letteratura rappresenta una protesta contro la cancellazione delle cose, della memoria, bisognerebbe sempre aggiungere: e contro la generalizzazione concettuale che fa che sparire la singola esperienza di vita, così come la memoria.

Vista da un angolo del genere, la letteratura è un’illusione al quadrato: col pretesto di dimostrare il carattere illusorio di questa o quella (superiore) verità sociale, produce essa stessa l’illusione di un’altra verità più giusta e più nobile.

Se la letteratura deve realmente avere una funzione (a parte l’intrattenimento e, eventualmente, lo stimolo intellettuale), gli attribuirei allora il ruolo dall’abbazia di Thélème di Rabelais, vale a dire di uno spazio in cui è dolce soccombere alle illusioni in compagnia di persone che la pensano come noi. Se noi proclamiamo questo progetto eminementemente elitario come universale, otterremo, di fatto, l’utopia anarchica, – vale a dire un mondo in cui le verità non coesistono più verticalmente ma orizzontalmente, e ciò nonostante pacificamente.

Se, un giorno, questo mondo arrivasse, allora la letteratura perderebbe la sua ragion d’essere. Non si può avere tutto, un mondo senza conflitti e la letteratura.

[Traduzione dal francese di Paolo Nori e dal ceco di Alessandro Catalano – esamizdat.it]