La stessa cosa

venerdì 5 Dicembre 2014

pennacchi

Una ventina di anni fa, a San Pietroburgo, ho conosciuto degli studenti di architettura di Como che mi eran rimasti molto simpatici e che di me dicevano che ero un solipsista, che era una cosa che non sapevo valutare molto bene se era un insulto o cosa perché non ero sicurissimo di cosa volesse dire. Dopo, una volta tornato in Italia, avevo guardato sul dizionario e avevo trovato che un solipsista era uno che credeva che la realtà si potesse conoscere solo attraverso l’esperienza, e aveva pensato che avevano ragione gli studenti di architettura di Como, ero un solipsista. Solo che chissà che dizionario ero andato a guardare, perché a guardarci adesso, sul dizionario, salta fuori che il solipsismo è una «teoria che assume il principio dell’egoismo e dell’utile individuale come norma etica fondamentale» (Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro); quindi, semplificando, un solipsista sarebbe uno che è po’ un egoista, che è una definizione che, se l’avessi letta venti anni fa, credo che avrei pensato che avevano ragione gli studenti di architettura, ero un solipsista. Ecco, questa faccenda del solipsismo mi è tornata in mente dopo che ho letto Camerata Neandertal (si scrive senz’acca), di Antonio Pennacchi, appena uscito per Baldini & Castoldi che, quando l’ho finito, mi ha fatto venire in mente un libro che ho scritto io che si intitola La vergogna delle scarpe nuove che è un libro che è uscito una decina di anni fa ed è forse il romanzo più complicato che ho scritto, che racconta un piccolo, dolorosissimo dramma, una separazione, ma ha una struttura anti-drammatica, mi verrebbe da dire, dal momento che si tratta di un romanzo che è strutturato così: c’è un prologo di 90 pagine, un romanzo che dura una riga e mezzo (e che posso citare integralmente: «È una cosa talmente evidente che non c’è bisogno di scrivere niente») e un epilogo che dura 120 pagine. Ecco, quest’ultimo romanzo di Pennacchi comincia concentrandosi, se si può usare questa parola per la prosa di Pennacchi, che è tutta centrifuga, divagatoria, deconcentrata, si potrebbe dire, ma nelle prime 46 pagine mi sembra evidente che Pennacchi stia trattando (prevalentemente) un mistero che riguarda il cranio dell’uomo di Neandertal che è stato trovato nel 1939 in una grotta del Circeo, mistero al quale Pennacchi aveva già dedicato un libro, Le iene del Circeo, uscito per Laterza nel 2010.
Poi, arrivati pagina 46, proprio nel momento in cui il mistero, il problema storico irrisolto (le problème d’histoire irresolu) si sta per risolvere, Pennacchi apre una parentesi, parte per una tangente, e lo porta, questa tangente, e si chiude, questa parentesi, a pagina 220: 184 pagine di parentesi.
E poi ricomincia il romanzo da dove si era interrotto e continua fino a pagina 279, e intanto che leggevo io pensavo che quella lunga parentesi (dove si ritrovano, visti da un altro punto di vista, illuminati da un’altra luce, molti personaggi dei precedenti libri di Pennacchi, non solo delle Iene del Circeo, anche di Palude, del Fasciocomunista, di Mammut, di Canale Mussolini e della recente Storia di Karel, perfino), intanto che leggevo pensavo che la parentesi era il romanzo vero e proprio solo che poi, quando sono arrivato alla fine, dopo che ho finito le 105 pagine del romanzo vero e proprio e le 184 della partentesi, a me è sembrato che questo romanzo, questo Camerata Neandertal, fosse un romanzo d’amore, dell’amore di Pennacchi per il protagonista dell’inizio e della fine del libro, che è un uomo, un fascista che si chiama Ajmone Finestra e che è stato anche sindaco di Latina (dev’essere incredibile, amare l’ex sindaco di Latina, e mi sembra coraggiosissimo, Pennacchi, a fare un libro del genere) che nelle prime pagine del libro muore; è un libro per un morto, mi è venuto da pensare, e ho pensato che anche tutti i romanzi che ha scritto Pennacchi sono libri per i morti, che è una cosa che io, nel mio solipsismo, l’avevo pensata una decina di anni fa (era un periodo che mi succedevano un sacco di cose, una decina di anni fa), quando, a una presentazione di quella Vergogna delle scarpe nuove mi ero sentito dire che «io, più vado avanti, più ho l’impressione che i miei libri, ecco secondo me io, ma anche gli altri che scrivon romanzi, secondo me i romanzi in generale si scrivono per i morti. Io se non avessi avuto i miei morti, – mi ero sentito dire, – mio nonno, mia nonna, mio babbo, io probabilmente non avrei mai scritto niente e i libri che piacciono a me secondo me sono scritti per della gente che sa già tutto, non per informare, per informare, per i vivi, ci sono i giornali, i telegiornali, i radiogiornali, i romanzi, mi sembra, son per i morti, e io ormai più passa il tempo anche nei vivi, anche in me, – mi ero sentito dire, – io apprezzo la parte morta, di me, la mia mortalità, non la mia vitalità».
Ecco allora alla fine, nel mio solipsismo, se dovessi dire cos’è, questo Camerata Neandertal di Antonio Pennacchi, è vero che è un romanzo d’amore, ma è anche un catalogo dei suoi morti, di Antonio Pennacchi, che poi, forse, nel mio solipsismo, mi viene da dire che è la stessa cosa.

[uscito ieri su Libero]