La statua del dolore
Nel 1940 ormai non scrivevo quasi più nulla i me, e sempre più spesso scrivevo di Anna Andreevna. Ed ero portata a farlo perché lei stessa, le sue parole, le sue azioni, la sua testa, le sue spalle e i gesti delle sue mani possedevano la perfezione che di solito in questo mondo appartiene soltanto alle grandi opere d’arte. Il destino della Achmatova, – qualcosa di più grande della sua stessa personalità – stava allora scolpendo, sotto i miei occhi, da quella donna famosa e abbandonata, forte e indifesa, la statua del dolore, della solitudine, della superbia e del coraggio. Le vecchie poesie della Achmotova le sapevo a memoria fin da bambina, ma quelle nuove, insieme al gesto delle mani che bruciavano il foglietto nel posacenere, insieme al profilo dal naso aquilino disegnato con precisione da un’ombra azzurra sulla bianca parete di un carcere di transito, entravano ora nella mia vita con la stessa irrevocabile naturalezza con cui già da tempo erano entrati i ponti di Leningrado, Sant’Isacco, il Giardino d’Estate o i Lungoneva.
[Lidija Čukovskaja, Incontri con Anna Achmatova. 1938-1941, traduzione di Giovanna Moracci, Milano, Adelphi 1990, p. 21]