La filosofia dei fatti

sabato 30 Luglio 2011

“Il metodo della scienza consiste nel passare al setaccio la visione comune del mondo, e, riservandosi una cernita assai ben delineata dei suoi frammenti, dichiarare il resto oltre i confini del proprio ambito e perciò oltre la legge, o, per lo meno, oltre la propria legge”, scrive, nel 1918, Pavel Florenskij, in un saggio appena uscito in italiano per quodilibet (Stupore e dialettica, a cura di Natalino Valentini e tradotto da Claudia Zocchetti).
La filosofia, invece, scrive Florenskij (e con lei la visione comune del mondo) “non ha né un pensiero preciso, né un preciso punto di vista. Mescolando tutti gli oggetti e tutti i possibili punti di vista, sostituendoli arbitrariamente l’uno con l’altro e arbitrariamente passando dall’uno all’altro senza ravvisare la propria volubilità e indeterminatezza, il pensiero comune possiede, sì, la pienezza dell’universalità, ma in tale sua pienezza non v’è ordine, non v’è forma, e perciò non v’è chiarezza”.
Queste note di Florenskij mi son tornate in mente quando ho letto Reality, libretto dello scrittore polacco Mariusz Szczygieł recentemente pubblicato da Nottetempo per la traduzione di Marietta Borejczuk. Si tratta di quattro pezzetti, quattro brevi racconti che forse non sono dei veri e propri racconti.
Il primo tratta di una casalinga polacca, Janina Turek, che che dal 1943 al 2000, per 57 anni, ha registrato, su più di 700 quaderni, tutti i giorni, senza saltare un giorno “quante telefonate aveva ricevuto e da parte di chi (38.196); quante volte aveva telefonato a qualcuno (6257 volte); dove e chi aveva incontrato per caso e salutato con un “buongiorno” (23.397); quanti appuntamenti aveva fissato (1922); quanti regali aveva fatto, a chi e di che genere (5817); quanti regali aveva ricevuto (10.868); quante volte aveva giocato a bridge (1500); quante volte aveva giocato a domino (19); quante volte era andata a teatro (110); quanti programmi televisivi aveva visto (70.042), e via discorrendo”.
Il secondo di questi non racconti è la storia di un foglio che Szczygieł trova incastrato in una fessura tra le gambe di un tavolo e la parete del Caffè Nowy Świat di Varsavia; su questo foglio ci sono 21 nomi di donne nate tutte tra il 1929 e il 1936, e il non racconto racconta gli sforzi fatti da Szczygieł per capire cos’hanno in comune queste ventuno persone.
Il terzo parla del rettore dell’Accademia di Tecnica Mineraria e Siderurgica di Cracovia che fa installare, su una panchina dei corridoi dell’accademia, panchina sulla quale ha visto seduta, per la prima volta, decenni prima, quella che poi sarebbe diventata sua moglia, una statua in bronzo della moglie seduta su quella panchina. L’autore della statua, in scala 1:1, lo scultore Bradyna, dichiara: “In Polonia, quello che tuttora va per la maggiore è il ritratto tombale, ma è un’usanza destinata a tramontare”.
L’ultimo non racconto tratta della corrispondenza tra due ex compagne del Politecnico, Tereza e Henryka, le quali, per cinquantadue anni, si son scritte una lettera alla settimana. Szczygieł ha fatto una scelta di questa corrispondenza: le prime lettere sembrano banali: Tereza e Henryka sembrano mosse da preoccupazioni comuni, per lo più parlano male dei mariti; poi nella seconda metà del non racconto, cioè della loro corrispondeza, cioè delle loro vite, succedono tre cose, una dopo l’altra, che cambian colore al tutto, e una di queste fa scrivere a Tereza “Sono imbottita di tranquillanti. Tu sai cosa provo. Per non pensare, me ne sto qui a fare dei cruciverba assurdi e a leggere gialli uno più stupido dell’altro”.
Io non so come si possa chiamare questo genere di letteratura praticato da Szczygieł; forse non-fiction, cioè l’equivalente, forse, di quella che Viktor Šklovskij chiamava, nel 1927, literatura fakta, letteratura del fatto. Sicuramente è una letteratura diversa dalla letteratura di finzione, dalla ficiton, cioè dalla maggior parte dei racconti e dei romanzi che siamo abituati a leggere, dove, sembra abbia detto una volta Čechov, “se c’è un chiodo, a quel chiodo qualcuno si deve impiccare”.
Ecco, diversamente dalla letteratura di finzione, che sembra, come la scienza, fare “una cernita assai ben delineata dei frammenti del mondo, dichiarando il resto (i chiodi ai quali non si impicca nessuno) oltre i confini del proprio ambito”, la letteratura del fatto di Szczygieł, come la filosofia, ci racconta le storie della maggior parte dei chiodi, che sono, occorre riconoscerlo, quelli ai quali non si impicca nessuno; non l’eccezione, la regola; non persone eccezionali, ma persone normali. E fa effetto, vedere come la regola possa provocare il nostro stupore, e alla fine a me viene in mente l’opera numero 13 delle Opere complete complete di Learco Pignagnoli, che è un’opera, bisogna dire, che mi viene in mente spessissimo, e che fa così: “Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano”.

[Questa cosa avrebbe dovuto uscire su Libero e invece la metto qui senza che sia uscita su Libero perché non scrivo più su Libero (trallallà)]