In questi giorni qui
L’anno scorso mi hanno chiamato i sindacati, la Cgil di Parma, per fare un discorso per il primo maggio, che poi, siccome è piovuto, il discorso non l’ho fatto, e mi è dispiaciuto, e credo che avrei detto, in quel discorso, che non l’avrei mai detto, che mi avrebbero chiamato i sindacati a parlar del lavoro in occasione del primo maggio, perché io, il lavoro, avrei detto, cerco di lavorare il meno possibile.
E avrei detto una cosa che avevo scritto anche in un libro, che qualche anno fa, forse tre anni fa, per radio c’era una pubblicità dove c’era una signora che diceva «Ahmed, ripeti con me: Mi sun chi per laurà». E c’era questo Ahmed che diceva «Mi sun chi per Laura». «No, – diceva la signora, – non per Laura, per laurà». E Ahmed diceva «Per laurà». «Bravo Ahmed, – diceva la signora, – vedi che è facile?». E poi si sentiva una musichetta e poi la voce di uno speaker che diceva che era una campagna di un qualche ministero per non mi ricordo che scopi.
E a me, non so, mi era venuto in mente che nei romanzi stranieri del sette e dell’ottocento, una delle espressioni italiane che avevo trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che diceva «In italiano nel testo», era: il dolce far niente.
Allora, non so come dire, avevo l’impressione che a noi, i casi erano due, o ci prendevano per degli altri, oppure ci stavano cambiando proprio i connotati.
E sempre in quel periodo lì, avrei detto, nella biblioteca sala borsa di Bologna, nel bagno degli uomini, qualcuno aveva scritto sulla porta la traduzione di una frase che doveva essere stato una specie di manifesto dei situazionisti.
«Non lavorate mai», c’era scritto con un pennarello nero, e di fianco un cerchio attraversato da una freccia piegata che doveva essere il simbolo dell’autonomia.
E sotto qualcun altro aveva scritto, sempre con un pennarello nero: «E chi ci ha mai pensato».
E avrei detto che io, quelle cose lì, il dolce far niente, e quella scritta sul bagno della sala borsa, le capisco, così come capisco un anarchico di Cremona che si lamentava degli anarchici che all’inizio del secolo nelle manifestazioni protestavano al grido di «Pane e lavoro», e diceva che era sufficiente chiedere Pane, «Pane e basta», dovevano gridare, secondo lui, e allo stesso modo mi sembra di capire una poesia di Nino Pedretti, che è un poeta romagnolo che ha scritto una poesia che si intitola I nomi delle strade che fa così: «Le strade sono
/ tutte di Mazzini, di Garibaldi, / son dei papi,
/ di quelli che scrivono, / che dan dei comandi, che fan la guerra.
/ E mai che ti capiti di vedere / via di uno che faceva i berretti
/ via di uno che stava sotto un ciliegio / via di uno che non ha fatto niente
/ perché andava a spasso / sopra una cavalla.
/ E pensare che il mondo / è fatto di gente come me
/ che mangia il radicchio / alla finestra
/ contenta di stare, d’estate, / a piedi nudi».
Ecco. Allora io volevo dire che a me, questi giorni di festa, Natale, Santo Stefano, primo dell’anno, Epifania (e anche primo maggio, c’è da dire) ecco io, in questi giorni qui, e in quel giorno lì, non so perché, mi vien da lavorare.
[uscito ieri su Libero]