Il nuovo libro di Gianni Celati
A pensare a Gianni Celati, stamattina, mi è venuto in mente lo scienziato Robert Mayer, al quale Evgenij Zamjatin ha dedicato il racconto Il destino di un eretico, tradotto in italiano qualche anno fa (1988) da Sellerio per la cura di Gemma Gallo. E mi è venuta in mente un’etimologia dalla quale credevo derivasse la parola eretico, che era, nella mia memoria, una cosa del tipo: “Fuori dal solco”. Invece sono andato a guardare sul De Mauro, diceva: “Colui che sceglie”. Allora sono andato a guardar sul Battaglia, diceva: “Colui che sceglie”. Peccato. Se fosse stato: “Fuori dal solco”, avrei potuto dire che Celati, secondo me, ha tracciato, coi suoi libri, un proprio solco, ha percorso, in un certo senso, una strada che prima non c’era, e nel percorrere questa strada ha tirato fuori dei libri che, a leggerli, stanno su come per miracolo, con un incanto, per chi legge, e un’intelligenza, nello sguardo, e una misura, nella scrittura, e una musica, dentro, che li rendono memorabili.
Ecco, dal momento che l’etimologia di eretico che mi ricordavo probabilmente non è quella giusta, non so se posso dire tutte queste cose, comunque le dico lo stesso, anzi ormai le ho già dette, e dico anche che io, delle volte, quando ho scritto per esempio un breve romanzo intitolato Ente nazionale della cinematografia popolare, ho avuto l’impressione come di aver provato a inoltrarmi sulle tracce di Celati, o, meglio, di essermi seduto al suo posto dopo che lui aveva finito di mangiare, e di aver fatto su qualcosa con le briciole che aveva lasciato. Forse per questo, quando leggo qualcosa che ha scritto Celati e che io non capisco, mi viene sempre il dubbio di essere io, a non capire, a non essere stato abbastanza attento, a non aver letto abbastanza cose. Una cosa del genere mi è successa in questi ultimi giorni, quando ho letto Conversazioni del vento volatore, appena pubblicato da Quodlibet nella collana Compagnia Extra. È una raccolta “di vari scritti di Celati – dice la bandella, – sulla letteratura, sul vivere, su come gli è andata la vita, sul prendere appunti, sul fare documentari, sulla fantasia, sullo scrivere novelle e sul riscriverle eccetera”. In questo libretto, secondo me, ci son delle cose che mi sembra di capire e che mi sembran bellissime, come la citazione di Giacometti che si trova nell’Elogio della novella, a pagina 38: «Una volta andavo al Louvre e i quadri mi davano sempre l’impressione del sublime. Adesso vado al Louvre, e non posso fare a meno di guardare la gente che guarda le opere d’arte. Il sublime per me adesso sta nelle facce di quelli che guardano», o, nella parte intitolata Narrare come attività pratica, il riferimento ai lavori del linguista americano William Labov dai quali “vien fuori che i migliori narratori orali sono quelli meno colti, meno scolarizzati, appena uno va al college perde l’instinto narrativo, di modo che invece di raccontare vuole spiegare”. Ma ci sono anche delle cose che io, a capirle, faccio fatica, come la convinzione, reiterata, che le case editrici italiane siano popolate da dei delinquenti. “Sarebbe bello poter pensare, – si legge a pagina 144 – che un giorno ci sarà un processo alla corte dell’Aja, dove le anime di quei professionisti dell’editoria saranno imputate di genocidio letteraio, e massacro dell’antica tradizone dell’arte verbale nelle nostre terre”. E subito dopo, a pagina 145, Celati scrive che, dopo la pubblicazione di Boccalone, di Palandri (1978), nel quale “c’era ancora una lingua fresca e genuina /…/, subito dopo, la narrativa giovanile è stata una sorta di sbornia di americanismo, con anche l’imitazione dell’italo-americanese usato dai traduttori”. Cioè, dal 1978 ad oggi, la quasi totalità degli scrittori italiani (a parte Palandri e pochi altri) scriverebbero in una non-lingua: “La non lingua, – scrive Celati – nasce da libri che imitano le imitazioni di imitazioni di imitazioni di altri libri”. Ecco. Adesso, sui delinquenti, io sono quindici anni, più o meno, che ho a che fare con delle case editrici, e devo dire che mi sembra che l’inclinazione al delinquere sia, in questo settore, inferiore a quella che mi era sembrato di intravedere nel settore in cui lavoravo prima, che è l’edilizia. Ma forse mi sbaglio io. Quanto alla non lingua, io non so tanto di letteratura italiana, ma l’impressione che ho è che autori come Tiziano Scarpa, Matteo Galliazzo, Diego De Silva, Marco Franzoso, Giorgio Vasta, Christian Raimo, Paolo Colagrande, Bruno Tognolini, Milena Agus, Michela Murgia, per dire, possano anche non piacere (alcuni di loro, io, faccio fatica a leggerli), ma non credo si possa dire che, nelle cose che han scritto, manchi una coscienza linguistica o che ci sia una lingua che fa il verso alle traduzioni americane.
Dario Voltolini, qualche anno fa, aveva cominciato a mettere da parte le recensioni che cominciavano così: “Nella palude mefitica della letteratura italiana contemporanea, finalmente un libro che vale la pena di leggere”. Se non ricordo male, nei primi due anni ne aveva raccolte una ventina. E aveva concluso che, se in due anni c’erano venti libri che valeva la pena di leggere, la letteratura italiana contemporanea non era forse così mefitica e paludosa. Non voglio fare difese corporative, non conosco, e non credo lo conosca nessuno, oggi, il valore della letteratura italiana contemporanea, voglio solo dire che mi è dispiaciuto sentire, da un eretico come Gianni Celati, ripetere questo luogo comune, e che mi è venuto voglia di chiedergli: “Ma te, Tiziano Scarpa, Matteo Galliazzo, Diego De Silva, Marco Franzoso, Giorgio Vasta, Christian Raimo, Paolo Colagrande, Bruno Tognolini, Milena Agus e Michela Murgia, per dire, li hai letti?”.
[Dovrebbe essere uscito oggi su Libero]