Il noto cantante sovietico Vladimiro
Quando ho comprato il libro di Anna Tonelli Falce e tortello (Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità 1945-2011) la libraia che me l’ha venduto mi ha detto «Guardi, purtroppo c’è la copertina più brutta che Laterza abbia mai fatto da sempre».
In copertina c’è un signore che si sta mettendo un grembiule rosso della festa dell’Unità sopra una giacca blu e una camicia azzurra di quelle che hanno i bottoni sul colletto, e credo si chiamino botton-down, camicie rese celebri, qualche anno fa, chissà perché, da Walter Veltroni.
Qui però i bottoni del colletto non sono abbottonati, quindi è una camicia in un certo senso botton-up e quel signore lì probabilmente non è Walter Veltroni, anche se di preciso non si capisce chi è, si vede solo un pezzo della faccia, il pezzo più in basso, la fine del naso e la bocca, e dalla bocca spunta il mozzicone di un sigaro che farebbe pensare a Bersani, forse quel pezzo di faccia lì è di Bersani, ma non importa.
La festa dell’Unità, la prima, sembra ci sia stata nel settembre del 1945 a Mariano Comense, e che, sull’Unità, sia stata chiamata «scampagnata».
Giuliana Gamberini, comunista bolognese, l’atmosfera di quegli anni la racconta così: «All’indomani della guerra di liberazione, noi giovani avevamo una grande voglia di vivere, cantare, parlare e soprattutto stare insieme. La felicità che noi tutti provavamo in quel momento è molto difficile da descrivere. Anche se il pensiero verso quegli amici, compagni, conoscenti che erano caduti per le nostre libertà era in noi sempre presente. Uscivamo dalle case, dalle cantine, dai rifugi come topi dalle fogne, eravamo rimasti nascosti per tanti mesi terrorizzati dalle SS tedesche e dalle brigate nere, che non ci pareva vero essere liberi, poter camminare per le strade, fermarsi a gruppi per discutere di ogni cosa che riguardava l’indomani, il futuro nostro e del nostro paese».
E il carattere politico delle feste è ribadito delle voci ufficiali del partito. Secondo M. Fincardi, la scampagnata dell’Unità è il luogo idale perché il «popolo possa misurare in un giorno di letizia la sua forza e continuare la sua lotta progressiva».
I «caratteri fondanti» della scampagnata del 1945 sono i seguenti: «coreografie, balli, cibo, canti, bandiere sport, lotteria»; alla prima scampagnata di Mariano Comense sembra abbiano partecipato 200.000 persone; un successo tale che la festa viene replicata nel 46 e nel 47 (quando viene definita, dall’Unità, un «festoso e sereno bivacco»).
L’anno successivo, a Roma, centomila persone sfilano in un corteo che dura cinque ore, e, tra queste, da Bologna, «Le ragazze più belle d’Italia».
In Emilia, per la lotteria, ci si interroga se mettere come primo premio «un grosso suino o uno strumento moderno come una cucina economica».
Ma, a leggere il libro della Tonelli, con l’andare del tempo non è che le feste dell’Unità siano proprio delle feste politiche; a Castenaso, in provincia di Bologna, nel 1949, l’oratore politico viene presentato in questo modo: «compagni e amici, adesso vi parlerà il compagno… ma non andate via perché sarà questione di 10 minuti poi riprenderemo la festa».
Al festival dell’unità di Rimini del 1966 non ci sono comizi, ma «concerti, spettacoli per bambini (con il mago Zurlì), stand gastronomici, mostra mercato del libro, ricco il programma di musica leggera che prevede Giorgio Gaber, Jonny Dorelli, Don Powell e Gianni Morandi. L’unica concessione spettacolar/ideologica: “la partecipazione del noto cantate sovietico Vladimiro”».
Le feste dell’unità, così come sono descritte nel libro della Tonelli, sembran bellissime, in quei primi decenni, le cose sembrano diventare più complicate, meno comprensibili, perlomeno per me, quando, all’inizo degli anni ottanta, il partito comunista comincia a rivolgersi a delle indagini di opinione, per capire come è la festa e come deve cambiare.
Nei risultati della prima indagine, commissionata all’Abacus nel 1984, si legge che «I visitatori sono sia giovani che anziani, sia uomini che donne, sia persone che fanno politica sia persone che non fanno politica, sia gente che ha molti soldi che gente che ha pochi soldi, sia gente che lavora che gente che non lavora, sia gente che ci va sempre che gente diversa che ci viene per caso, sia gente che viene per divertirsi che gente che viene per motivi politici».
Questi rislutati vengono commentati dai vertiti del partito (da D’Alema) in questo modo: «Dalle ricerche vengono una serie di indicazioni che noi poi cercheremo di tradurre in elementi più organici di riflessione per costruire una campagna politica intorno all’immagine del Partito comunista che ci consenta di allargare il consenso, la fiducia di strati che per noi sono fondamentali di lavoratori, di giovani, e di rivolgerci in modo più efficace a strati sociali nuovi e a gruppi sensibili a tematiche nuove».
Da lì, in un certo senso, il declino.
[uscito questa settimana su Libero]