Il non esserci al posto dell’esserci
Ci son delle mattine, delle volte, in Emilia, che c’è un’aria così limpida che ti sembra che il mondo non finisce mai, e in una mattina del genere, che ero in giro per Parma per raccogliere materiale per un libro che si dovrebbe intitolare Mo mama, sottotitolo Parma ai tempi del movimento cinque stelle, mi è suonato il telefono e ho risposto e era la rispettabilissima redazione del Foglio che mi chiedeva di scrivere sedicimila caratteri su Silvio Berlusconi.
Ero proprio sotto una statua che c’è in centro a Parma, la statua di uno che veder come è messo sembra che sia stato colpito alle spalle da un colpo d’arma da fuoco, è lì con la testa all’indietro, le mani allargate che artigliano il niente, è una statua che tutti quelli che vengono a Parma che la vedono si chiedon chi sia, è Filippo Corridoni, e a Parma, da sempre, lo chiamano l’inculato, ero lì sotto l’inculato e al rispettabilissimo redattore del Foglio che mi aveva chiesto di scrivere sedicimila caratteri su Silvio Berlusconi io avevo risposto che ci avrei provato ma dentro di me intanto avevo pensato che io, di Silvio Berlusconi, scriverne sedicimila caratteri, che per chi non si occupa di queste cose sono circa dieci pagine di un libro, cioè l’equivalente di un capitolo, io non sapevo come fare, a scrivere un capitolo su Silvio Berlusconi.
Che Silvio Berlusconi, che era ormai una trentina d’anni che era un personaggio pubblico, che se ne era parlato tanto, ecco io erano perlomeno una ventina d’anni che cercavo, se potevo, di non nominarlo.
Io, pensavo l’altro giorno a Parma, che dal 1999 avevo pubblicato ventiquattro libri, in questi ventiquattro libri credevo che solo una volta, fosse comparso il nome Berlusconi, e era comparso in un romanzo pubblicato nel 2008 da Feltrinelli e intitolato Mi compro una Gilera (dal finale del proverbio parmigiano «Putost che tor mojera, am compor na Gilera»), in una parte del romanzo in cui parlavo dell’ultimo atto di un trasloco da Parma a Bologna (in buona parte di questi ventiquattro libri si parla di traslochi che sono, prevalentemente, traslochi da Parma a Bologna o da Bologna a Parma).
Un mese a fa, – scrivevo in Mi compro una Gilera, – alla stazione di Bologna, sei e mezza di mattino, corro per prendere il treno, nel sottopassaggio della stazione, uno che arriva di corsa giù dalle scale si rivolge a un altro che arriva in senso inverso Ma è vero che è morto Berlusconi? gli chiede.
Sì, risponde l’altro, è vero.
Be’, dice quello, meglio lui di me.
Allora per me, quel giorno lì, il viaggio in treno e poi tutto il mattino, a chiudere l’appartamento a Parma, a pulire la cantina, a prendere giù le letture dei contatori, era morto Berlusconi. Tutti i pensieri Chissà il suo medico, che diceva che scampava fino a centoventi anni. Che figura. E adesso, Bondi, cosa fa? E il Milan?
Dopo, verso l’una, quando son ritornato a Bologna, non ne parlava nessuno Forse non è mica vero, ho pensato. Ma per me, quelle quattro ore lì, è stato vero, dormire poco succedon delle cose, le veglie della ragione producono abbagli, mi vien da pensare, e adesso, sarà una cosa che qualcuno magari l’ha anche già fatta, ma una storia degli abbagli, non sarebbe bella, da fare?
Quando Chruščëv, di ritorno dagli Stati Uniti che gli eran piaciuti i pop corn ha pensato di coltivare a gran turco una vasta zona del territorio sovietico senza considerare che lì il gran turco non ci cresceva, è seguito un anno di grande carestia. O quando Gorbacëv ha deciso di vietare gli alcolici in Russia che è stato l’inizio della fine dell’Unione Sovietica. O quando Paolo primo ha deciso di vietare in tutto l’impero i cappelli tondi dopo due mesi l’han fatto fuori. Non so, la storia degli abbagli, secondo me, delle teorie che si son rivelate tutte sballate, delle decisioni revocate poi subito immediatamente perché eran disastrose, forse qualcuno l’ha già fatta, se qualcuno l’ha già fatta ha fatto un bel lavoro, se non l’ha fatta nessuno quasi quasi la farei io, se avessi la competenza per farla invece non ce l’ho.
Io all’università, son laureato in lingue, non ho dato neanche un esame di storia. Piuttosto che mettere in piano di studio un esame di storia, ciò messo sette esami di filologia. Due romanze, due slave, due italiane e una germanica. Non lo so, come mai,
scrivevo dentro un romanzo che si intitolava Mi compro una Gilera, pensavo l’altro giorno a Parma in via D’Azeglio intanto che mi mordevo le labbra e mi dicevo «Ecco, vedi».
Che questa nuova pratica di mordermi le labbra era una pratica recente che chissà da cosa dipendeva, io tendevo a attribuirla ai miei ritardi, a tutti i miei ritardi e ai miei rimandi, se esiste la parola, e anche se non esiste, che mi mettevano in una condizione di scontetezza che era quella che mi serviva.
Certo che un capitolo su Berlusconi, cosa ci scrivo? avevo pensato passando davanti a Borgo Poi, di fianco all’Annunziata, che nella piazzetta c’erano degli immigrati seduti sul muretto che prendevano il sole e uno era steso per terra e un altro, un suo amico si vede, gli carezzava la pancia, e avevano un modo così naturale, di prendere il sole lì nel centro di Parma, che era bello, guardarli.
Berlusconi, – avevo pensato, – cosa si può mai dire, di Berlusconi?, e mi era venuta in mente una cosa che non c’entrava niente, un gruppo di scrittori che l’anno scorso si sentivano tagliati fuori, poco considerati e facevano delle riunioni che, tra le altre cose, dicevano che loro volevano incidere sulla realtà, che ne avevan parlato un po’ tutti, e a me, in quel periodo lì, un anno fa, tutti quelli che mi incontravano mi chiedevano, «Ma te, c’eri anche te, tra quelli che vogliono incidere sulla realtà?», e io rispondevo «No, non mi han mica invitato».
Ecco, mi è venuto in mente l’altro giorno a Parma in strada Imbriani, Berlusconi, c’è da dire, è uno che, forse, lui, da un certo punto di vista, un po’ ha inciso, sulla realtà.
Anche se quegli scrittori che si riunivano un anno fa senza invitarmi, e che forse si riuniscono ancora, loro non credo che avessero voluto incidere nel senso in cui aveva inciso Berlusconi, avevo pensato, e intanto che pensavo così avevo visto che dall’altra parte di strada Imbriani c’erano una ventina di persone che sembravano tutti degli immigrati, coi loro cappotti neri da immigrati, coi loro cappelli alti da immigrati, in fila per tre, che aspettavan di entrare dentro una porta che, guardavo l’insegna, era la mensa dei poveri, e, sarà stato il freddo, passavano da una gamba all’altra, sembravano vivi, sembrava una cosa che stava succedendo e Parma, quel giorno, mi sembrava, la facevano succedere gli immigrati, come se Parma fosse una città di immigrati, i parmigiani tutti chiusi in casa a difendere i loro privilegi, e gli immigrati fuori per strada a far succeder le cose, mi era sembrato a me l’altro giorno intanto che passavo davanti a un negozio che si chiamava Abissinian market e che davanti c’erano un signore anziano e una ragazza giovane, di evidenti origini africane, che parlavano tra loro in una lingua che io non capivo e a sentirli parlare mi dicevo tra me «Appunto».
E siccome ero diretto verso piazzale Picelli, mi veniva in mente quando, nel 1922, Parma era stata, così dicevano, l’unica città che aveva resistito, con successo, ai fascisti; i fascisti, guidati da Italo Balbo, durante la marci su Roma, avevano provato a conquistare Parma, ma quando avevan dovuto entrare nell’oltretorrente, il quartiere popolare di Parma, quello dove ero in quel momento lì, quello dove c’era la chiesa dell’Annunziata, e Strada Imbriani, e piazzale Picelli, i fascisti guidati da Balbo avevano provato a passare il ponte sul torrente Parma ma erano stati respinti dalle barricate degli arditi del popolo, guidati da Guido Picelli; avevano perso, dicevano, erano stati respinti.
E più di dieci anni dopo, avevo pensato, quando ormai anche Parma era diventata fascista, e dopo che Balbo era diventato famoso per una trasvolata oceanica su un aeroplano, e in un’occasione che Balbo era tornato a Parma per fare un discorso o non so cosa, su un muro del lungoparma, visibilissima per tutti, era comparsa una grande scritta fatta con della vernice bianca che c’era scritto: «Balbo, t’è pasé l’Atlantic mo miga la Pärma», Balbo, hai passato l’Atlantico ma mica la Parma che a Parma il torrente Parma lo chiaman la Parma, come se era una femmina.
Chissà se quello lì, quello che aveva fatto quella scritta, il giorno prima di farla si era riunito con i suoi amici di Parma avevano fatto un’assemblea che si erano detti «Siam tagliati fuori, i giornali non ci chiamano a collaborare con loro, son tutti fascisti, noi vogliamo incidere sulla realtà come facciamo?».
Allora si era alzato uno aveva detto «Sai cosa facciamo? Scriviamo sui muri».
E avevano inciso anche loro, sulla realtà, come Berlusconi. E anche come Picelli.
E ero arrivato in piazzale Picelli e ero andato a vedere il busto di Picelli che era proprio così come mi avevano detto.
Che lì, in piazzale Picelli, avevan messo una pista per il pattinaggio, ma grande, che teneva metà della piazza, e insieme alla pista di pattinaggio c’eran delle baracche di legno dove non so cosa facevano, si mettevano i pattini, forse, e il retro di una di queste baracche finiva proprio contro il busto di Picelli.
Picelli, la faccia, guardava contro il retro di una baracca per togliersi le scarpe e mettersi i pattini, forse.
Allora la gente aveva protestato e il comune di Parma, un paio di assessori, avevano fatto un’ispezione, un bel mattino, e avevan deciso di fare così, di voltare il busto. Avevan preso un cacciavite, l’avevan svitato, l’avevan voltato.
Così adesso Picelli, che aveva organizzato gli arditi del popolo che nel 1922 avevan respinto i fascisti, guardava un angolo della piazza dove c’era uno di quei cassonetti gialli per raccogliere gli abiti usati, mi avevan detto, e io ero andato a controllare era vero.
Comunque io adesso però devo lo stesso parlare di Berlusconi, avevo pensato.
E mi ero incamminato verso un ortolano che quando ero arrivato però avevo visto che l’ortolana stava uscendo entrava in una panetteria. E nel suo negozio di ortolana non c’era rimasto nessuno e avevo aspettato tre minuti poi ero uscito ero entrato in panetteria e l’ortolana era lì che parlava col panettiere e, non ci si crede, stava dicendo «Altro che dire Berlusconi». E io le avevo fatto un segno le dicevo «Scusi, sa, avrei bisogno di due mele».
E lei mi avevo detto che arrivava subito, e io ero tornato nel suo negozio e dopo un minuto tornava anche lei e prendevo due mele renette e, quando pagavo, lei mi diceva «Mi scusi, sa, ma quando parliamo di una politica». E era anche lei un’immigrata, secondo me slava, e secondo me per quello non si era ancora stancata, avevo pensato intanto che uscivo su via D’Azeglio e mi incamminavo verso il parco ducale e pensavo che Berlusconi, che aveva inciso così tanto sulla realtà, secondo me oggi, la cosa più clamorosa che potrebbe fare, sarebbe abbracciare l’assenzialismo, sulle tracce del celebre scrittore Learco Pignagnoli.
Che come ha spiegato una volta Ugo Cornia,
Pignagnoli, è l’iniziatore riconosciuto dell’assenzialismo. L’assenzialismo, è un movimento che sceglie il non esserci come pratica. Perché il non esserci al posto dell’esserci? Il non esserci, è la pratica quotidiana di mancare a qualsiasi evento, anche eventi minimi di una mattina qualunque, essere assenti il più possibile a se stessi, agli altri e alle cose. Se nel corso di qualsiasi evento, anche dei più banali, qualcuno chiede «C’è Pignagnoli?» la risposta inevitabile è «No, Pignagnoli non c’è», perché Pignagnoli non c’è mai. Pignagnoli è sempre assente. Ma l’abilità, il sentire con fiuto qualsiasi situazione come situazione in cui mancare, o essere assenti, assume in Pignagnoli il valore della profezia, cioè il fatto di non esserci già prima degli altri, che invece ci saranno ancora, il che in pratica si realizzava nel non esserci di Pignagnoli per esempio a cavallo degli anni cinquanta negli stessi luoghi in cui tutti non volevano più esserci negli anni novanta, ma nel cinquanta solo Pignagnoli era assente e mancava. Di conseguenza, – scrive Cornia, – sapere dove adesso non è Pignagnoli, conoscere la miriade di eventi presso i quali Pignagnoli non è già a partire da oggi o non è stato negli anni appena trascorsi, potrebbe mostrarci luoghi o eventi ai quali vorremmo mancare nel 2030, ma oggi, per una carenza di fiuto, tutti accorriamo anche senza bisogno di esser pagati,
scrive Ugo Cornia, pensavo l’altro giorno a Parma, solo che dopo pensavo che Berlusconi, l’assenzialismo, non lo so, se gli piace.
E arrivavo poi al parco Ducale, mi sedevo su una panchina, non mi stava benissimo, nella mia testa, questo pezzo su Berlusconi, avevo pensato, mi sembrava di essere come il triangolista di Parma che era andato a Verona per un’opera di Wagner.
Che ci dev’essere un’opera di Wagner che dura tipo sei ore, come duran di solito le opere di Wagner, credo, ci dev’essere quest’opera che a un certo punto, dopo quattro ore e venti minuti di opera, è previsto un colpo di triangolo. E basta. Il triangolo in quell’opera lì deve fare solo quel colpo lì dopo quattro ore e venti minuti. Prima, niente; dopo, niente.
Allora una volta per la messa in scena di quest’opera di Wagner all’arena di Verona avevan chiamato un triangolista di Parma che era partito col suo triangolo nella sua custodia di pelle, aveva preso la sua bicicletta, era andato in stazione, aveva preso il suo treno Parma – Verona, aveva preso un taxi, era andato all’Arena, quando era stato all’Arena era andato in camerino, si era messo lo smoking, era sceso nella buca dell’orchestra, che poi lì all’Arena probabilmente di buche non ce n’è, ma non importa, aveva tirato fuori il suo triangolo dalla sua custodia, si era messo seduto, si era messo a aspettare che venisse il suo turno. E dopo quattro ore e venti minuti di opera, nel momento che toccava a lui dare il suo colpo di triangolo, si era distratto il suo colpo di triangolo non l’aveva dato. E niente, l’opera era andata avanti, era finita, lui aveva rimesso il suo triangolo nella sua custodia, si era alzato, era andato in camerino, si era cambiato, si era preso su, aveva preso il suo taxi, era andato in stazione, aveva ripreso il suo treno Verona – Parma, aveva ripreso la sua bicicletta, era andato a casa, e io, secondo me, che avevo quasi finito nella mia testa il mio pezzetto su Berlusconi senza praticamente aver detto niente, di Berlusconi, io più o meno ero messo nello stesso modo, avevo pensato l’altro giorno su una panchina nel parco Ducale di Parma.
Che però di alternative, avevo pensato, io non ne avevo, perché Berlusconi, nonostante fossero trent’anni che io ne sentivo parlare, non l’avevo mai visto, non avevo mai sentito il suo odore, non sapevo che spazio occupava il suo corpo, non sapevo il modo in cui camminava, non avevo mai sentito la sua voce com’era davvero, non avevo mai letto niente che aveva scritto lui, forse, o se l’avevo letto non me lo ricordavo, o avevo poi il dubbio che non l’avesse scritto davvero, non avevo idea di come fosse in una scala uno a uno, per me Berlusconi era tutto nel sentito dire, poteva essere quasi chiunque, o, forse, nessuno, o, forse, se dovessi descrivere la mia relazione con Berlusconi, ho pensato l’altro giorno al parco Ducale, forse la descrizione migliore è quella con la quale lo scrittore russo Daniil Charms ha descritto un uomo rosso di capelli, anche se Berlusconi magari non è rosso, ma non è importante, dal momento che la descrizione fa così:
C’era un uomo rosso di capelli, che non aveva occhi né orecchie. Non aveva nemmeno i capelli, tanto che lo dicevano rosso convenzionalmente. Parlare non poteva, dato che non aveva la bocca. Nemmeno il naso aveva. Non aveva neppure le mani e i piedi. E il ventre non aveva e la schiena non aveva e la spina dorsale non aveva, né aveva viscere di nessun tipo. Non c’era niente. Quindi non si capisce di chi si tratti. Meglio che di lui non parliamo più.
[uscito ieri sul Foglio]