Il mondo delle cose

domenica 9 Maggio 2010

zadoorian

Per dei motivi che sarebbe troppo lungo e poco interessante raccontare, mi trovo a scrivere del libro di Michael Zadoorian Il mondo delle cose (Marcos y Marcos 2010, tr. dall’inglese di Michele Foschini e Gioia Guerzoni, pp. 269, euro 16,50) un mese circa dopo averlo letto, che è una cosa che non mi era mai successo di fare. Quando l’ho ripreso in mano, pensavo che non mi sarei ricordato tanto, del libro, e mi sono molto sorpreso quando mi sono accorto che di alcuni di questi racconti (è un libro di racconti tutti ambientati a Detroit), in particolare di Cicatrici di guerra e del Campo dei misteri, io mi ricordavo esattamente il momento in cui li avevo letti, con dei dettagli che mi hanno fatto tornare in mente il primo libro da grandi che ho letto nella mia vita.
Il primo libro da grandi che ho letto nella mia vita è stato Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, e fino a pochi anni fa io ero convinto che Harper Lee fosse un uomo, invece due o tre anni fa ho visto una sua foto sul sito di Feltrinelli ho scoperto che era una donna.
Per me, mi ricordo, era stata una grande sorpresa, scoprire che dentro quelle trecento e passa pagine fitte fitte senza neanche una figura c’erano tante di quelle storie e di quelle figure che a disegnarle tutte ci sarebbe voluta una vita. E di quei momenti, che leggevo Harper Lee, io mi ricordo benissimo, mi ricordo la sedia arancione dov’ero seduto, mi ricordo il cantar di mia nonna dalla cucina, mi ricordo mio babbo che passava con un secchio di calce, mi ricordo perfino la luce che c’era nell’aria e a ripensarci era stano, il fatto che, concentrato sul libro, io non ero fuori dal mondo, ero dentro, nel mondo: era come se il libro vivificasse quello che c’era intorno, e questa sensazione, e questa memoria visiva, io ce l’ho per tutti i libri che mi hanno molto colpito, Delitto e castigo di Dostoevskij, Poesie di Chlebnikov, Mosca Petuški di Erofeev, Casi di Charms, Il serpente di Malerba, A colpi d’ascia di Bernhard.
Be’, quando ho riaperto Il mondo delle cose di Zadoorian, mi sono accorto che del momento in cui leggevo Cicatrici di guerra, che racconta di un vecchio americano che decide di restituire un cimelio di guerra, una bandiera giapponese, alla famiglia del soldato morto al quale l’aveva sottratta alla fine della seconda guerra mondiale, io mi ricordavo tutto: mi ricordavo l’autobus su cui ero seduto, mi ricordavo la testa bionda, gonfia di permanente, della signora davanti, mi ricordavo il caos di passanti alla fermata in via Ugo Bassi, mi ricordavo la visita che avevo fatto con mia figlia da H&M tra la lettura della prima e della seconda parte, mi ricordavo l’autobus del ritorno e la folla di gente che era salita in via Lame e un uomo che si lamentava che l’autista prendeva tutti i semafori rossi.
C’è da dire, per completezza d’informazione, che mi ricordavo anche i miei occhiali, Il mondo delle cose è stato il primo libro che ho letto con gli occhiali, e può essere anche questo ad aver reso questa lettura una lettura memorabile. Ma quando ho poi letto Il campo dei misteri, qualche giorno dopo, su un interregionale che da Bologna mi portava a Reggio Emilia, agli occhiali ormai ero praticamente abituato, eppure delle cose che c’erano intorno mi ricordo tutto anche di quelle, mi ricordo il posto dov’ero seduto, mi ricordo il modo in cui cadeva la luce sui lavori dell’alta velocità alla mia destra, mi ricordo la ragazza seduta davanti a me che diceva al suo vicino che lei: “No social life”.
È un libro, questo di Zadoorian, che mi ha fatto venire in mente La fondazione, il monologo teatrale postumo di Raffaello Baldini, il cui protagonista è uno che non butta via niente, uno che “tiene da conto”. Ecco Zadoorian, mi sembra, tiene da conto, mette da parte e conserva dei momenti, degli oggetti e dei personaggi appartenente marginali e in realtà memorabili, come il protagonista del racconto East side, che “Percorse il marciapiede davanti alla vetrina, senza staccare gli occhi dalle parrucche, lasciando che si fondessero l’una nell’altra. Gli piaceva quell’effetto. A un certo punto, una donna anziana uscì dal negozio. Lui guardò la sua testa, il nido nero che spuntava in cima. La donna lo fissò, pavoneggiandosi. Era orgogliosa della sua parrucca. «Bella parrucca» le disse, con un cenno della testa. «Ma non si dice» sibilò la signora, con le labbra tirate sui denti finti”.

[Dovrebbe essere uscito oggi su Libero]