I posti dove andiamo
In realtà, i posti dove noi andiamo non sono mai i posti dove noi sapevamo di andare. Noi abbiamo programmato un viaggio in posto, arriviamo in un posto che ha lo stesso nome del posto che noi avevamo programmato di visitare, ma quel posto non ha assolutamente niente a che fare col posto che noi avevamo pensato. È un caso di omonimia. Qualunque posto dove noi andiamo è omonimo. Io ho vanamente lottato per farmi mandare nel Paraguay, sicuro che il Paraguay doveva essere una cosa deliziosa. Poi, incidentalmente, sono usciti degli stupendi articoli di Viola sulla “Repubblica” sul Paraguay e ho detto: “Hai visto che avevo ragione che il Paraguay è una chicca?”. Non so se li hai letti. Sono usciti tre articoli sul Paraguay, tra i più belli di Sandro Viola. Ecco, due anni che cerco di andare nel Paraguay o nell’Ecuador. A me piacciono questi posti che non sono centrali. Mi piacciono i posti periferici. Si possono chiamare i posti dove la storia non passa e che quindi sono posti dove si depositano degli strani, non saprei se sedimenti od escrementi, che hanno una certa loro qualità profetica. Per cui, tutto considerato, mi piacerebbe molto andare a New York dove non sono mai stato ma vuoi mettere andare in un paesino del Colorado! Ma neanche! In un paesino all’interno dell’Ecuador! Lì bisogna andare. Lì, tutto ciò che accade, non è stato in nessun modo occupato dall’usucapione della storia. Non ha mai patito l’usucapione della storia. Non è registrabile e quindi gode di una sua losca veridicità e libertà che altrove non puoi sperimentare. Io ho amato molto la Malesia perché è un nome, la Malesia è un paese adorabile e la sua adorabilità è strettamente legata alla sua scarsa verosimiglianza come esistenza. Mi piace molto la periferia. Io sono convinto che il vero centro sia periferico e che il centro ufficiale è una gibigianna giornalistica.
[Giorgio Manganelli, La penombra mentale, cit., p. 203]