I mobili

martedì 13 Dicembre 2016

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Quando entriamo nello spazio linguistico della filosofia constatiamo subito che questo spazio è già stipato di mobili. Qui c’è un grosso armadio di nome Heidegger, lì troviamo un divano di nome Kant e là invece c’è tutta una cucina attrezzata di nome Hegel. Ciò significa che gli altri filosofi, per me, non sono delle figure paterne, ma piuttosto dei mobili che si possono utilizzare – oppure no. Ad esempio, ci si può rinchiudere nell’armadio-Heidegger e sistemarsi lì per tuta l’eternità – in perenne estasi di fronte al carattere meravigliosamente scomodo di questo armadio, tanto che obbliga a restare sempre vigili. Ma ci si può anche stendere sul divano-Kant e godersi un salutare sono professorale-etc. Detto questo, esistono però dei mobili contro cui si urta costantemente nel momento in cui ci si vuole muovere liberamente nello spazio linguistico della filosofia. Qualunque sia il movimento linguistico o di pensiero che si intraprende, si è costretti a constatare che c’è qualcosa, appeso o a terra, che impedisce di procedere con spensieratezza. Per me questi mobili sono per l’appunto Kierkegaard, Husserl e Wittgenstein. Per gli altri ci sono altri nomi – e i mobili sono disposti in un altro modo.

[Boris Groys, Politica dell’immortalità. Arte e desiderio nel tardo capitalismo, traduzione di Eleonora Florio, Sesto San Giovanni, Mimesis 2016, p. 17]