I diari

sabato 16 Luglio 2011

Ecco. Questo era il bis. Adesso cominciano i diari veri e propri.

Si sente? Grazie. Buonasera. Mi presento, mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, ho 48 anni, compiuti da poco, e mi hanno chiesto di fare i diari del festival di quest’anno, i fine settimana, e sono venuto e li ho fatti venerdì sabato e domenica scorsi e sono tornato per rifarli venerdì sabato e domenica questi, e comincio adesso.
Dunque, io, di solito, faccio così, che vado in giro e vedo quello che riesco a vedere, e sento quello che riesco a sentire, e prendo degli appunti e poi mi metto a scrivere, rileggo, metto a posto, e così avrei dovuto fare anche oggi, cioè arrivar stamattina, andare in giro, prendere appunti, scrivere, mettere a posto e poi venire qua a leggere, solo che oggi, ho pensato che facevo in un’altra maniera.
Perché a far così, non so, sabato scorso, per esempio, al mattino, c’è stato un convegno, al super cinema, sull’attore, che a me sarebbe piaciuto andarci, nei convegni di solito la gente dice delle cose che sono bellissime, da metter dentro nei diari, solo che io, sabato mattina, dovevo scrivere i diari da dire poi alla sera, perché al pomeriggio non avrei potuto scriverli perché avrei dovuto andare a vedere le cose da mettere poi nei diari del giorno dopo, cioè lì c’è un problema, non so se è chiaro, per me è abbsatanza chiaro perché ce l’ho avuto anche in altri festival che ci sono andato per scrivere i diari e il problema è nel fatto che, quelli che scrivono i diari, non han mica di tempo di vedere tutto quello che c’è, per via che devono scrivere i diari.
Dovrebbero essere quelli che non scrivono i diari, che han tempo di vedere tutto, a scrivere i diari, solo che se scrivessero i diari diventerebbero quelli che scrivono i diari, e allora saremmo daccapo, come si dice, e ci troviamo di fronte a un problema irresolubile, una specie di spread, è un periodo che va molto di moda la parola spread, che signfica scarto, nel senso di gradino, a Parma si dice Pèca, se andate a Parma e fate un ragionamento anche interessante che però ha un difetto vi dicono Sì, però a gh’è na pèca. Allora voi chiedetegli Che pèca? E loro ve lo spiegano.
Ecco questi qua, questi ragionamenti che si fanno di sera che si chiamano diari, per la loro natura, se così si può dire, e tra le altre cose anche per il fatto che quelli che tengono i diari, siccome devon scrivere i diari, non han mica tempo di vedere le cose che devono mettere dentro nei diari, questi ragionamenti che chiamiamo diari, è come se fossero tutti, per la loro natura, un po’ difettosi, pieni di pèche, allora io questa settimana ho pensato ad un modo di ridurne il difetto, la péca, e ho pensato che i diari di venerdì li scrivevo martedì e mercoledì a Bologna, così venerdì avevo tempo di vedere poi tutto, e ho fatto così, li ho scritti martedì e mercoledì in Emilia, i diari del terz’ultimo giorno di questo quarantunesimo festival del teatro di strada di Santarcangelo, che, di conseguenza, son dei diari un po’ in contumacia, se così si può dire.
Ecco, io, come ho detto la settimana scorsa, non sono un esperto di teatro, non sono uno spettatore abituale, non sono un abbonato, e i quindici spaettacoli circa, le quindici cose, diciamo, che ho visto lo scorso fine settimana m’han fatto abbastanza impressione e mi hanno anche sorpreso.
La cosa che io m’aspettavo, a venir qua, e che non c’è quasi stata, è una cosa che ho trovato tutti gli anni in un altro festival dove sono andato per cinque anni a far lo stesso mestiere di scrivere i diari, che è un festival di poesia che si chiama Cabudanne de sos Poetas e che si tiene a Seneghe, vicino a Oristano, il primo fine settimana di settembre, o, delle volte, come quest’anno, l’ultimo fine settimana di agosto, e io vi consiglio di andarci perché è un posto incredibile, dove questo paese sardo di duemila abitanti, per tre giorni, viene rivoluzionato, in un certo senso, dalla poesia, perché lì a Seneghe, tutti i giorni, ci son dei poeti che parlano, che leggono, nelle piazze del paese, e ci son sempre quattrocento, cinquecento, mille, millecinquecento persone, a seconda dei giorni e degli orari, che son lì ad ascoltare, e ascoltano un poeta, e buona parte di questi sono gli abitanti del paese, che sono delle persone che con la poesia non hanno normalmente nessun rapporto, eppure son lì e stanno a sentire, perché son delle persone curiose, e perché credono che quello che succede nel loro paese sia un po’ anche loro, perlomeno così mi immagino io a guardarli da fuori.
Ecco, qui, c’è da dire, a Santarcangelo, questa cosa non succede tanto, ma questo un po’ me l’immaginavo, perché Santarcangelo, il paese, nel senso, è più grande, di Seneghe, perché il festival, è più grande, perché c’è da molti più anni, perché viene molta più gente da fuori, anche dall’estero, e perché molte delle cose che si fanno qui non sono per strada, anche se questo di nome è il festival del teatro per strada, ma dentro i teatri o dentro degli spazi piccoli come le grotte municipali, o la sala del consiglio comunale, o il teatro della collegiata, o la discoteca in un armadio che possono contenere, al massimo, vado a occhio, rispettivamente quindici, ottanta, quaranta e due persone, per non parlare del super cinema, che uno si immagina Super cinema, terrà sei settecento persone, invece ne tiene sessanta settanta, per lo meno la sala che ho visto dove c’era una conferenza di un foniatra che, tra le altre cose, ha spiegato come mai Obama ha vinto le elezioni, e la riposta è, se ho capito bene, che le sue frasi, di Obama, le diceva in un modo che erano scandite tanto bene, e finivano così verso l’alto, come intonazione, che ha vinto per forza, che io quando ho sentito così ho provato a pensare a delle eccezioni a questa regola, ne ho trovate diverse, in Italia, negli ultimi decenni, un paio le ho anche scritte, poi ho avuto vergogna di quello che ho scritto le ho cancellate.
Dopo ho pensato a una poesia che non parla proprio delle frasi dei politici e della loro intonazione, ma parla in un certo senso della politica, in senso lato, ma anche in senso abbastanza stretto dal momento che la poesia è ambientata qui a Santarcangelo e si chiama Guerra e è una poesia di Raffaello Baldini e fa così:

Guerra

No, la burocrazia non c’entra niente, sono loro, ce l’hanno con me, sono nel libro nero, e so perché, è stato l’altr’anno, d’estate, da Fasùl, seduti fuori, parlavamo, che vogliono buttar giù le scuole, vogliono farle laggiù ai Mulini, sta’ buono, va’ là, sono cose che, e io lì m’è scappato detto, come ho detto? Di sopra ci vorrebbe una scopa e fare pulizia, ecco, una cosa così, e loro, figurarsi, l’hanno saputo il giorno dopo, hanno tante di quelle spie, e da allora sono segnato, non me ne passano una leggi, regolamenti, da diventare matto, che sono più di due anni ormai, ma loro, hai voglia, possono passare mille anni, non perdonano, questa, io, è una cambiale che gli ho firmato, e la devo pagare, però non mi conoscono loro a me, tutta la loro prepotenza, io ci piscio sopra, non dico per dire, piscio, davvero, la sera, quando non mi vedono, ma anche il pomeriggio, basta stare attenti, d’inverno, con quei freddi, certo, si fa meglio, la gente esce poco, d’estate invece stanno in giro fino a tardi, però d’estate c’è più soddisfazione, d’agosto, sotto il Voltone, che da lì passa l’assessore al Demanio, te lo do io il Demanio, perché la tengo da scoppiare e quando mi libero sono delle pisciate da cavallo, una puzza che non si resiste, te l’immagini, lì sotto, d’agosto, poi se è libeccio, è che non mi fermo, ho imparato da loro, non perdòno, e non vado a caso, è un tirassegno, perché ce n’è che pisciano in giro, ma pisciano e basta, negli angoli, nel muro di dietro del Ricovero, contro la pompa del distributore della Shell che è chiuso da anni, insomma dove s’è sempre pisciato, invece io, è tutt’un’altra cosa, è una guerra, piscio sotto l’arco, piscio dall’alto giù per le scale del Comune, che va che corre, piscio contro la porta a vetri della Pro Loco, nelle colonne del Credito, piscio sul palco della banda, ci sono delle notti, mi sveglio che mi scappa, ma non vado mica al cesso, mi alzo, arrivo in piazza, mi metto in piedi sulla fontana e ci piscio dentro, e la mattina dopo passo di lì, come niente, guardo, che bel getto, e rido, pisciate voi così.

Ecco. Volevo dir quello.
Poi volevo dire anche un’altra cosa, che ho cominciato forse a dirla ma non ho finito, vale a dire che io, quando son venuto qua, mi sarei aspettato che mi succedesse una cosa che mi è successa tutti gli anni, a Seneghe, quando andavo a Seneghe, a quel festival di Poesia lì Cabudanne de sos poetas del quale parlavo prima, poco fa, due minuti fa, che è una cosa che anche quella è difficile da dire, ma più o meno, è questa qua: succedeva sempre, a Seneghe, tutti gli anni, un paio di volte, delle volte una delle volte tre, che la piazza, quella piazza lì dove c’erano quattrocento, cinquecento, millecinquecento persone, c’era un momento, un attimo, cinque secondi, tre secondi, venti secondi, un minuto, che non eravamo cinquecento persone, settecento persone, novecento persone, eraamo, non so come dire, una cosa sola: quelle cinquecento persone erano state trasformate, dalle parole di un poeta, o di una cantante, o di un prete, in una bestia che trattiene il fiato.
Ecco, quella cosa lì, quel potere lì, di agire sul modo in cui batte il cuore alle persone, di cambiare la qualità dell’aria, è uno dei poteri della parola e dell’arte, mi sembra. Cioè un’opera d’arte, banalizzo, ti tocca in un punto dove tu sei indifeso.
C’è un racconto di Pirandello, famoso, dove c’è un minatore che si chiama Ciàula, giovane, analfabeta, ignorante, forse neanche tanto intelligente, che lavora sempre di notte e una notte il lavoro in miniera, per un motivo che non mi ricordo, si ferma, e Ciàula esce dalla miniera prima dell’alba, c’è ancora scuro, e all’improvviso vede la luna, e scoppia a piangere, senza nessun motivo, cioè il motivo è che ha scoperto la luna, e il racconto si intitola, come sapete, Ciàula scopre la luna.
Ecco, secondo me, l’arte è la scoperta della luna, e la cosa incredibile, della mia esperienza, là, a Seneghe, è che ci son stati dei momenti che, in millecinquecento, contemporaneamente, scoprivamo la luna.
Ecco io, questa, cosa, questo stupore, per me, io, qui, l’ho provato, l’ho provato due volte, nei tre giorni di festival che ho visto, però sono state due scoperte private, la prima è stata con un video di Ulla Von Brandeburg che c’ero solo io, a guardarlo, quindi era impossibile che fosse una cosa collettiva, l’altra volta nelle grotte municipali a sentire il dittico di Elena Sartori e Marina Otsadam e io se gli altri quindici che erano con me provavano la cosa che provavo io non lo so, ero voltato verso una parete delle grotte municipali e non li vedevo.
Allora la prima cosa che mi chiedo è se è vera la mia impressione, cioè se il teatro è diventata una cosa intima, personale, che è un po’ strano, perché nella mia testa il teatro dovrebbe poprio essere quello, la scoperta della luna di cento, duecento, quattrocento, millecinquecento persone contemporaneamente. Io ne so poco, forse mi sbaglio, ma insomma, io mi aspettavo una cosa del genere non l’ho trovata.
La seconda cosa che mi viene da dire viene da una cosa di Sonia Bergamasco, che ha fatto un discorso, nella sala del consiglio comunale, che durava sette minuti, ed era un discorso sulla politica, cioè lei faceva finta di essere una politica che parlava del Valle occupato, del bisogno della cultura, della cultura come l’acqua, bene pubblico, e lei parlava e beveva dell’acqua e le veniva il singhiozzo e poi si metteva anche a cantare.
Ecco, Sonia Bergamasco, io penso che sia bravissima, canta anche benissimo, e il discorso era anche, da un certo punto di vista, condivisibile, e io, che ero lì, intanto che l’asoltavo pernsavo che era bravissima, ma avevo costantemente la consapevolezza del fatto che stavo vedendo una specie spettacolo teatrale, ero continuamente nei miei panni, non ero trasformato in nessuna bestia, non ero trasformato in niente, c’è una poesia di un poeta russo che mi piace molto, si chiama Velimir Chlebnikov, che dice che i poeti son dei licantropi, ma dei licantropi come li si intende in Russia, che possono trasformarsi in tutto, non solo in lupi, ma in ogni cosa animata o inanimata, anche in un sasso, anche nella luna. Ecco, secondo me, per me, quando sento le poesie di Baldini, per dire, io non ho il tempo di pensare che è bravo, io sono dentro quella follia lì di quel personaggio lì, e mi chiedo cosa vuole dire, e alla fine mi accorgo che…
Non so, l’occupazione del Valle. Io, per carità, ne so pochissimo, però, secondo me, l’atteggiamento di uno che scrive, o ceh fa teatro, nei confronti della politica, mi vien la tentazione di dire che dovrebbe essere come l’atteggiamento del protagonista della poesia di Baldini, cioè di psciarci sopra, che forse è un atteggiamento un po’ estremo, e forse non è tanto rispettoso, e il rispetto è sempre meglio, del disprezzo, freniamo un attimo, provo a girarla in una altro modo.
Allora, proviamo a chiederci: Abbiamo bisogno della cultura? Certo che ne abbiamo bisogno, se siamo qui, potremmo vivere senza libri, noi che siamo qui, senza spettacoli teatrali? Cioè, da un certo punto di vista, potremmo. Cioè se da domani noi fossimo obbligati, se ci mettessero in galera, per esempio, tutti noi che siamo qui, adesso è un’ipotesi un po’ azzardata, quanti saremo, cento, centrocinquanta, perché dovrebbero metterci in galera, poprio noi, ma facciamo l’ipotesi che ci mettono in galera, poprio noi, tutti noi, e in isolamento, che ci danno solo da mangiare e da bere e ci lasciano senza libri, senza spettacoli teatrali, per due anni, sopravviveremmo? Secondo me sopravviveremmo. Ma, prima di tutto, io, la prima cosa che mi viene in mente, a pensare a un’ipotesi del genere, è Lo straniero, di Camus, quando sta per esser ucciso, che è stato condannato a morte, e pensa, in galera, che se lo facessero vivere, anche dentro un tronco cavo, per gli anni che gli rimangono, lui vivrebbe, e vivrebbe bene, godendo del paesaggio di nuvole e dei rari uccelli che passerebbero sul suo tronco cavo. E la seconda cosa che mi viene in mente è una poesia di quel poeta russo che mi piace tanto che si chiama Chlebnikov e la poesia dice:

Poco, mi serve,
una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo,
e queste nuvole.

Ecco, io, non so voi, se mi mettessero in galera, per due anni, in isolamento, senza poter legger dei libri, io sopravviverei anche, e soprattutto, forse, grazie ai libri che ho letto, e che mi hanno cambiato la testa, e che hanno cambiato il mio modo di ragionare, e che sono qui dentro, nella gabbia toracica, e che nessuno li può tirar fuori, e così credo sia anche per voi, e, di conseguenza, il ragionamento della Bergamasco può essere condivisibile, la cultura è necessaria, siamo d’accordo, ci è necessaria, a noi che siamo qui è necessaria.
Solo che il problema, la pecca, sta nel fatto che, quella protesta, il Valle occupato, adesso io ne so pochissimo, non dovrei parlare di questa cosa ma ne parlo lo stesso, son talmente coglione che ne parlo lo stesso, cioè io, se fossi un attore, o anche se non lo fossi, essendo uno che scrive dei libri, e delle opere teatrali, ho scritto anche una commedia musicale, una volta, cioè io mi chiedo, ha senso che io mi rivolga al governo per dirgli Datemi dei soldi che io sono imporante son necessario? Cioè, nel momento in cui il governo, io di soldi, dal governo, io ho l’impressione di dargliene, più che di prenderne, mi hanno appena detto che devo pagare cinquemila euro, quest’anno, per un fondo pensione che mi garantirà, tra vent’anni, una pensione da fame, sulla quale non conto e che rifiuterei volentieri, ma non si può, bisogna pagare, poi la pensione se voglio la rifiuto ma intanto, adesso, non ci son santi, bisogna pagare, e va bene, paghiamo, almeno ho l’impressione di esser uno che gieli dà, invece di prenderne, ma ammettiamo, non so, che io fossi un cantante lirico, anzi no, che io fossi quello che sono e che la mia attività avesse, come principale finanziatore, il governo, e che il governo avesse deciso di non finanziare più i miei libri, io cosa farei? Ecco, non lo so. Però mi viene in mente una cosa. Mi viene in mente quando, nella Leningrado assediata dai nazisti c’è stata, il 5 marzo del 1942, la prima della settima sinfonia di Šostakovič, che per me quella cosa lì vuole dire: “Voi ci assediate? Voi pensate di ridurci alla fame? E noi ci mettiamo i nostri vestiti migliori, e andiamo nel nostro migliore teatro a sentire eseguire dai nostri migliori musicisti l’ultima sinfonia del nostro migliore compositore”.
Ecco secondo me, noi viviamo in un’epoca, non la scegliamo noi, l’epoca in cui viviamo, e poi le epoce magari son tutte ugali, noi viviamo in un’epoca che, dal punto di vista della storia, se guardiamo la gente che dovrebbe fare la storia, i presidenti, i direttori, i capi, se leggiamo i discorsi che vanno a finir sui giornali, i discorsi ufficiali, se sentiamo le loro parole, le loro idee, io non so voi, io non mi ricordo un’idea, una parola, ho provato anche a pensare, mi è venuto in mente Yes we can. Ma cosa vuol dire? Yes we can cosa? No, io se devo cercar delle parole, non le trovo lì’, dove stanno quelli che dovrebbero fare la storia, le trovo dove c’è della gente che non conta niente, e meno conta, mi sembra, e più contano le loro parole, che anche gli artisti, i registi, gli scrittori, gli attori, i cantanti, quelli famosi, quelli che in un dato momento tutti dicono che sono fondamentali, gli autori che tu li trovi citati da tutte le parti, in tutti i giornali, in tutte le conversazioni, gli autori ai quali si abbeverano tutti, se così si può dire, gli autori che sono sulla bocca di tutti, gli autori che in un dato momento sono alla moda, se te ci vai accanto li trovi indeboliti, smunti, sbranati, fatti a pezzi, debilitati, ridotti in pillole e ammalati, anche, febbricitanti, anemici, respirano male, mangiano troppo, fan poco moto, c’è pieno di gente che li porta in giro, in palmo di mano, e allora poi loro diventano pigri, han poco fiato, fanno fatica a fare le scale, e parlano male, riescono a dire ormai solo quelle due o tre cose che ripetono così, a pappagallo, sembran dei deficienti ma magari non sono dei deficienti, magari è solo un momento difficile, bisogna avere pazienza, aspettare una ventina d’anni, o anche quaranta, e poi andarci accanto e allora lì sì, che uno si rende conto di cosa hanno da dire, che ormai gli è passata la sbornia, gli son passati anche i postumi, sono lì sobri che ti dicon le cose direttamente senza in mezzo tanta ermeneutica e magari son stati anche un po’ male che non fa mica male, star male.
C’è l’inizio di una poesia di Chlebnikov, quel poeta di prima, che dice Le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore.
Ecco, Chlebnikov, non è stato fortunato, con le ragazze, sembra, non è stato fortunato coi critici, sicuramente, non è stato fortunato con gli amici, secondo me, ma ha fatto una vita, secondo me, senza premi, senza riconoscimenti, che a legger le sue poesie, oggi, non si può fare a meno di portarle con sé nella gabbia toracica.
A un grande scrittore del novecento, Robert Walser, una volta un suo ammiratore che si chiamava Carl Seelig gli ha detto che la sua opera sarebbe forse durata quanto quella di Gottfried Keller, e Walser, a sentire così, si è fermato come se avesse messo radici nella terra, ha guardato, serissimo, Seelig, e gli ha detto che, se aveva a cuore la sua amicizia, non doveva mai più azzardarsi a fargli dei compliemti del genere. Lui, Robert Walser, era una nullità, e voleva essere dimenticato.
Ecco. Adesso forse, questa di Walser, è una posizione quasi da santo, e è bellissima, secondo me, e mi vengono in mente due cose, una cosa di Čechov, che ho letto tanti anni fa, che lui diceva che bisogna esser puliti, nel corpo e nei vesitii, e possibilmente vestirsi di bianco, e una cosa che ho letto in un saggio di Pavel Florenskij sui pittori di icone, che prima di mettersi a dipingere si dovevan lavare, poi si dovevan mettere un vestito bianco, e poi si potevano mettere a dipingere, ecco, non so se si capisce, se non si capisce pazienza, ma di fronte a quella cosa che bisogna fare, di scoprire la luna, di di farsi sasso, lupo, albero, bosco, un mancato finanziamento, cos’è?
Cosa dobbiamo fare, se il governo ci dice, a quelli che fanno teatro, che compongono musica, scrivon dei libri, io non ti do più soldi, cosa dobbiamo rispondere? A me, la risposta che mi verrebbe spontanea, sarebbe, io credo: Ah sì? E allora io sai cosa faccio? Mi lavo, mi metto il mio migliore vestito, e di spettacoli teatrali, e di opere musicali, e di romanzi, ne scrivo e ne faccio il doppio di quelli che ho fatto l’anno scorso, e ancora più belli, se ci riesco. E te, che in questo momento particolore sei presidente di qualcosa e sei nella condizione che ti sembra di potere decidere quel che è importante e quel che non è importante, e tutti pensano che le tue decisioni siano fondamentali, e tutti ti corrono dietro e tutti ti citano, e sei su tutti i giornali e in tutte le conversazioni, e sei un uomo alla moda, e tutti sorridono alle tue battute, e tutti si abbeverano alla tua eloquenza, se così si può dire, non ti piscio sopra, ti dico solo che mi dispiace per te.

[Diari di Santarcangelo di venerdì 15]