I clown
Alle 18 e 20 c’è un signore che si alza e dice «Tutte le volte che uno si siede, arriva qualcuno gli chiede di sedersi al suo posto». Avrà settant’anni, e un impermeabile nero sopra una maglietta bianca con il disegno di una donna che balla e sotto scritto: Rio de Janeiro. Ha la pancia gonfia, prominente, di una tondezza che colpisce. Ha lasciato il posto a un signore della sua età, un impermeabile chiaro, i capelli grigi, i baffi grigi, il bastone, che si volta e gli dice «Se le dà fastidio, torni qua». «No no», dice Rio de Janeiro, e fa per aprire un’altra sedia, di quelle pieghevoli, ma non la apre, è caduta la seduta ma le gambe son rimaste chiuse. La sedia non si sa perché resta in piedi, è appoggiata a qualcosa che dal mio posto non riesco a vedere. Mi passa davanti qualcuno, si spande nell’aria profumo di dopobarba. Si sente un colpo. Mi volto, Rio de Janeiro è per terra a gambe levate. Letteralmente a gambe levate, la schiena per terra e le gambe per aria. Sta fermo, i pugni stretti al petto, e non dice niente. Lo aiutano a alzarsi. «Vuole qualcosa da bere?» gli chiedono. «No no, – dice Rio de Janeiro, – sto bene, sto bene, son queste sedie. Si vede che non mi ha retto». La direttrice della libreria gli dice «Si sieda pure, ma non si dondoli». La mia vicina mi guarda mi dice «Noi siamo gli unici che sappiamo come sono andate le cose».
Alle 18 e 25 arriva Veltroni. Ha una giacca blu, una camicia azzurra, dei pantaloni grigi e un maglione di un colore che non saprei. Lo chiedo alla mia vicina, lei mi dice «Voi uomini queste cose non le sapete, si chiama Pavone. O Blu cobalto. Ma il nome che gli danno adesso è Pavone».
Ci sono 90 posti a sedere, quasi tutti occupati.
Di fianco a Veltroni e Pierdamiano Ori, che lo presenta, sul muro nudo di mattoni, si riconosce l’architettura della ex chiesa, coi tabernacoli scavati che uno si immagina che dentro ci fossero delle reliquie. Loro sono seduti più in alto, di noi, in quello che deve essere stato il pulpito. Alle loro spalle, al di là delle vetrate, si vede il mercato di via delle Peschierie vecchie, con la gente che passa e qualcuno ogni tanto ci guarda da fuori e sembra stupito.
Pierdamiano Ori spegne il cellulare. Veltroni è abbronzato. Pantaloni grigi, mocassini. Tra dieci anni sarà calvo, mi vien da pensare. Si comincia puntualissimi. Ori dice che il libro è una meditazione in versi, in prosa poetica. L’io narrante, quello che parla, è stato all’Heysel, alla finale di coppa dei campioni Juventus Liverpool dove son morte trentanove persone. C’è andato una settimana prima di sposarsi, solo che, siccome si vergognava di dire alla futura moglie che andava alla finale di coppa dei campioni, gli ha detto che andava a Londra a festeggiare l’addio al celibato. La mia vicina mi guarda. «Però», dice. «Eh», dico io.
Veltroni versa dell’acqua, che è contenuta in un termo nero, prima per Ori e poi per sé. Dopo Ori dà la parola a lui.
Lui dice che è contento di essere ospite di uno dei migliori librai del mondo, Romano Montroni, uno le cui giornate si sfogliano, non è che passino. Dice che leggerà il libro e sentirà dalla reazione del pubblico se andare avanti, e leggerlo magari tutto, o fermarsi. Si toglie la giacca. Senza giacca sembra un po’ più grasso. Ci son dei problemi con il leggio, che non sta in piedi bene. Montroni prova a aiutare Veltroni ma non ci riesce bene. Veltroni dice «Sarai anche uno dei librai più bravi del mondo, ma con i cavalletti». Chiama i leggii cavalletti. Comincia tenendo il libro in mano, e va avanti così.
Lo legge tutto. Quaranta minuti. Mi segno tre frasi, dell’inizio: «Una notte di stelle, bella come te, che dormi nuda e sembri una bambina»; «Come sono belli i tuoi capelli, li conosco tutti, a uno a uno»; «L’atomo che non può essere né creato, né distrutto: l’atomo, che può essere all’origine di tutto».
A metà della lettura guardo Rio de Janeiro. Sta dormendo, le braccia intrecciate intorno alla pancia.
A un certo punto, nel testo, si dice che Juventus Liverpool non è finita uno a zero, è finita 39 a zero per loro. Poco più avanti, si parla della maledizione dell’H, Heysel come Hillsborough, lo stadio dove, qualche anno dopo, sono morti novantasei tifosi del Liverpool. Tra i quali un bambino di dieci anni, si dice nel testo, con la sciarpa rossa. È finita in pareggio, si dice nel testo. Mi volto a guardare la gente. Il signore con il bastone ha appoggiato la mano sopra il bastone e la testa sopra la mano, sembra che dorma anche lui.
Sono seduto di fianco, molto laterale, con la faccia che quasi sbatte contro un espositore di libri e dvd, e il dvd che ho a una spanna dai miei occhi è Alla ricerca di Buster Keaton, di Kevin Brownlow, un documentario diviso in tre parti, che ho preso qualche mese fa, quando era uscito, e avevo cominciato a guardarlo all’una di notte, e avevo finito alle quattro, non ero riuscito a smettere.
Veltroni legge: «Vi amavo, assassini, perché eravate la città dei Beatles».
È calata la luce, fuori, e adesso si legge, oltre i vetri, un graffito sul muro proprio sulla testa di Veltroni, c’è scritto «Mach 2».
Va avanti e finisce. L’ultima frase è: «Buongiorno, amore mio».
Il titolo del libro mi sembra bellissimo: Quando cade l’acrobata, entrano i clown. Avevo creduto che Veltroni alludesse alla sua recente esperienza politica, invece dice che è una frase di Platini. Veltroni dice che lui i clown, e il circo, li ha sempre odiati, e cerca di mettere in ogni suo libro qualcosa contro il circo e contro i clown, della gente che dovrebbe far ridere e invece fa piangere. Mi torna in mente Buster Keaton, e il dvd su di lui che comincia, più o meno così: «Oggi lo definiscono un genio. È diventato l’idolo degli intellettuali. Ma Keaton non la pensava così. Diceva: “Se ti vesti in modo ridicolo come me non puoi essere un genio”». E mi vien da pensare che una cosa che un po’ fare ridere e un po’ fa piangere, come Buster Keaton, potrebbe essere una bella definizione della letteratura.
Parlano un po’ e poi finisce tutto. Siccome Ori non l’ha detto, Veltroni fa un segno come se firmasse, e Ori riprende il microfono e dice Veltroni è disponibile a firmare i libri.
La mia vicina si alza, scuote la testa e dice «Mi dispiace per lui. Sembra scritto da un bambino di sette anni». Vado fuori a fumare. Esce anche Ori. Un signore gli chiede «Ma le è piaciuto, il libro?». «Moltissimo» dice Ori. «Ah, – dice il signore. – Secondo me sono più belli i suoi. A me questo è sembrato un po’ infantile. Chiunque si intende un po’ di psicologia, lo sa che la violenza è un istinto che abbiamo tutti. E quella cosa là del pareggio, allora sei bestiale anche tu. No no, – dice quel signore a Ori, – ha delle turbe del sé, è un infantilone, è pericoloso lasciarlo parlare».
Torno dentro. Veltroni, là in alto, sta firmando degli autografi. C’è la fila. In basso, sotto il pulpito, C’è un signore che parla con Vitali, l’ex sindaco di Bologna. Mi avvicino facendo finta di guardare le copertine. «Lui, – dice quel signore, – dice che tu sei suo cugino». «Oh, senti, – dice Vitali, – io non lo conosco».
Venerdì 7 maggio 2010
Ore 18 e 30
Bologna
Libreria Coop Amabasciatori
Presentazione del libro di Walter Veltroni Quando cade l’acrobata, entrano i clown. Heysel, l’ultima partita, Torino, Einaudi 2010, 70 pp., 9 euro.
[Dovrebbe essere uscito oggi su Libero]