Hofmann
[Qua sotto c’è un pezzo di Cani dell’inferno, di Daniele Benati (pagg. 64-65), romanzo che il 7 aprile sarà letto in pubblico da Daniele Benati in provincia di Reggio Emilia (vedi colonna pubblici discorsi), e siccome lui non legge quasi mai, in pubblico (ma anche se leggeva spesso, a pensarci), secondo me vale la pena di andarci]
Alla fine siamo arrivati a casa sua dove lei ci abitava con il marito professor Thompson che era quello che mi aveva invitato a cena come ho poi saputo, assieme al fatto che pure lei era una professoressa ricercatrice di nome Naomi. Ci siamo scambiati due o tre opinioni riguardo all’andamento del mondo in generale e io a tavola con loro ci stavo anche bene fino a quando non si è incominciato a parlare di un certo professor Hofmann. Non lo conosco, dicevo, chi è? Si parlava di un certo professor Hofmann. Chi è che non lo conosco? Eravamo a cena e lei ha detto a suo marito: Non avresti dovuto toccare questo argomento. Perché? ha detto lui, vuoi criticarmi? Vuoi come al solito rinfacciarmi il mio tradimento di tanti anni fa? Non ti è ancora passata? Non hai ancora superato questo cosiddetto trauma? A cosa sono serviti tanti anni di psicanalisi? A cosa sono serviti tanti soldi spesi? Vuoi ancora rinfacciarmi quella stupida scappatella? Vuoi criticarmi mentre sto discutendo d’altro?
Così parlava il professor Thomson mentre io e sua moglie Naomi stavamo zitti perché la cena era appena cominciata e questo era un argomento che si poteva afforntare anche più tardi o fra loro due a quattr’occhi. Ma capivo già che anche quella sera non sarei sfuggito alla domanda che sempre più spesso mi ero rivolto nella vita e cioè: Cosa ci faccio qui? Lei mi era piaciuta durante il viaggio con quel suo bel maglione d’angora così caldo e sensuale che trasmetteva la sensazione del calore femminile che può avvolgerti in ogni moento se tu sei la persona giusta. E quei suoi capelli soffici e delicati che le cadevano giù a ciocche scomposte. Mentre invece suo marito mi piaceva poco per la sua parlantina incessante che occupava tutta la serata. Tu mi hai criticato, s’è rimesso a dire con caparbietà, quello che hai detto era il segno di una critica nei miei confronti e della tua volontà di rinfacciarmi ancora una volta quella stupida scappatella che ho avuto l’ingenuità di fare anni fa.
Dovevamo parlare di Hofmann e invece si parlava della sua scappatella anche in seguito. Lei diceva: Ho detto semplicemente che non mi sembrava il caso di parlare di Hofmann, per prima cosa. Tu hai voluto criticarmi, diceva lui, c’era un’evidente intenzione di farmi pagare per quella scappatella che ti ho fatto, un’evidente intenzione di ferirmi come io forse ho ferito te. E dico forse perché nell’andamento di una copia nessuno è ancora riuscito a stabilire se il tradiemnto sia un male o non costituisca invece un toccasana. E perché non parliamo di Carl, allora? perché non parliamo di quando hai perso la testa per quello stronzo? Cosa dovrei dire io tutte le volte che penso che con quelal tua bocca che oggi bacio gli hai fatto la fellatio? Perché non parliamo di Carl?
Era una bella casa, però.