Goffman

martedì 20 Luglio 2010

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Ad ogni presidente in carica dell’American Sociological Association viene concesso di tenere prigioniero per un’ora il più largo pubblico di colleghi che la sociologia possa offrire. Per un’ora, quindi, entro la cerchia di queste mura, uno sfoggio di oratoria viene messo in atto. Un sociologo che avete selezionato da una lista molto ristretta si pone al centro di questa vasta arena dell’Hilton Hotel parlando di un suo argomento prediletto (questo ci ricorda che ciò che è sociologicamente interessante riguardo all’Amleto è che ogni anno nessuna scuola secondaria nel mondo anglosassone ha problemi a trovare qualche pagliaccio che lo interpreti).
In ogni caso, sembra che i presidenti delle società scientifiche sian abbastanza ben conosciuti rispetto a qualche tema da essere eletti in virtù di esso. Assumendo la carica, trovano anche un podio, insieme all’incoraggiamento a dimostrare che sono davvero ossessionati da ciò da cui i collegi, eleggendoli, li ritenevano già ossessionati. L’elezione li lascia liberi di offrirne una versione autentica; e, privi di ogni riserbo, si mettono a farlo. Infatti i presidenti dell’Associazione sono indotti a ritenere che sono rappresentativi di qualcosa e che questo qualcosa è proprio ciò di cui la loro comunità intellettuale ha bisogno. Preparando e poi pronunciando il loro discorso, sono portati a ritenere di essere temporaneamente i guardiani della loro disciplina. Per quanto ampia possa essere la sala, il loro ego si gonfia fino a riempirla. Neppure l’oggetto della disciplina pone dei limiti. Quali che siano i temi del dibattito pubblico del momento, si sostiene che la disciplina ha una specifica rilevanza per essi. Inoltre, l’occasione sembra rendere i presidenti pericolosamente a loro agio con se stessi. Infervorati dalla celebrazione, si esibiscono senza freni, infarcendo il discorso che hanno preparato con considerazioni parentetiche, obiter dicta, digressioni morali e politiche e altri esempi della proprie credenze. insomma, ancora una volta possiamo cogliere in flagrante un aspetto tipico delle alte cariche: l’indulgere all’autocompiacimento in pubblico. Si ritiene che questa messa in scena aggiunga polpa all’osso, consentendo di paragonare l’immagine che un lettore ha di una persona con l’impressione dal vivo creata dal fatto che le parole provengono da un corpo, invece che da una pagina. In realtà, ciò che questa messa in scena mette in pericolo sono le ultime illusioni che i lettori avevano sulla loro professione.
Tuttavia, consolatevi, amici miei: sebbene ancora una volta dobbiate fungere da testimoni della passione del podio, la nostra è una disciplina e un modello di analisi per i quali le cerimonie sono dei dati oltre che dei doveri, per i quali i discorsi offrono una condotta da osservare oltre che una opinione da considerare. Anzi, si potrebbe sostenere che ciò che è interessante per tutti noi qui riuniti (come noi tutti sappiamo) non è ciò che dirò io, ma ciò che state facendo voi ascoltandomi mentre lo dico.
Ma credo che voi ed io non dovremmo criticare troppo le occasioni rituali. Qualche infedele potrebbe stare in ascolto e andarsene a diffondere irriverenza e disincanto all’esterno. E se questo succede troppo spesso, perderemmo perfino quei pochi lavori che noi sociologi riusciamo ad ottenere.
Avrete capito da questo preambolo che trovo le allocuzioni presidenziali imbarazzanti. È vero. Ma certo questo non mi dà il diritto di commentare troppo a lungo il mio disagio. Ritenere che l’abuso del tempo altrui possa essere eliminato con ammissioni che ne fanno perdere ancora di più è una malattia del self caratteristica degli oratori. Sono quindi a disagio nel soffermarmi sul mio imbarazzo. Ma evidentemente non sono a disagio commentando il mio disagio nel soffermarmi sul mio imbarazzo. Anche se è probabile che voi lo siate.

[Erving Goffman, L’ordine dell’interazione, cit., pp. 39-41]