Egregi numeri
“Egregi numeri! Recentemente gli archeologi hanno ritrovato un libro del ventesimo secolo. In esso l’ironico autore racconta la storia del selvaggio e del barometro. Il selvaggio notò che ogni volta che il barometro si fermava su ‘pioggia’ effettivamente pioveva. E poiché il selvaggio voleva la pioggia, egli fece di tutto per smuovere nel senso voluto il mercurio finché il livello segnò ‘pioggia’ (sul palcoscenico comparve un selvaggio con le penne in testa che cercava di tirar fuori il mercurio e tutti risero). Voi ridete, ma non vi pare che fosse più degno di riso l’uomo europeo di quell’epoca? Così come il selvaggio, l’europeo voleva la ‘pioggia’, una pioggia con la minuscola, una pioggia algebrica, ma se ne stava davanti al barometro impotente come un pulcino bagnato. Il selvaggio almeno era più coraggioso ed energico e aveva una sua logica, sia pure selvaggia; egli era in grado di capire che c’era un legame tra effetto e causa. Tirando fuori il mercurio egli seppe fare il primo passo su quella grande strada sulla quale… ”
Qui (ripeto: scrivo senza nascondere nulla) qui per qualche tempo io divenni come impermeabile alle correnti tonificanti che fuoriuscivano dall’altoparlante. Ad un tratto mi sembrò di essere venuto inutilmente (ma come avrei potuto non farlo dal momento che ero stato convocato?); mi sembrò che tutto fosse vuoto, vuoto come una conchiglia. E riuscii a concentrare con fatica la mia attenzione solo quando il fonolettore passò al tema fondamentale: la nostra musica, la composizione matematica (la matematica-causa, la musica-effetto), alla descrizione del musicometro scoperto di recente.
“Girando semplicemente questa maniglia, chiunque di voi può produrre tre sonate all’ora. Quanta fatica costava ciò ai vostri antenati. Essi potevano creare soltanto arrivando a degli attacchi di ‘ispirazione’, una forma sconosciuta di epilessia. Ed eccovi una divertentissima illustrazione di ciò che riuscivano a fare – la musica di Skrjabin del ventesimo secolo. Questa cassetta nera (sul palcoscenico si aprì il sipario e si vide il loro antichissimo strumento) – questa cassetta nera la chiamavano pianoforte…”
[Evgenij Zamjatin, Noi, traduzione di Barbara Delfino, Milano, Lupetti 2007, pp. 16-17]