E allora, perché?
Sono profondamente irritato. Frustrato, ecco. Depresso. Si chiude la campagna di presentazione dei candidati e nessuno mi ha chiesto di presentarmi.
Eppure mi dicono che i partiti, ansiosi di darsi una immagine e insieme di catturare le masse, vanno cercando candidati prestigiosi, capaci di affascinare rurali e grecisti. Debbo dedurne che non sono considerato prestigioso; che si suppone che la mia capacità di irretire le folle sia irrilevante; che non porto voti, al massimo un mezzo milione, che neanche basta a mettere assieme un senatore di mezza tacca; infine, mi si dice, con questo offensivo silenzio, che io non conferisco grazia e stile ad una lista, per quanto sciamannata e folta di rudi pregiudicati. In questi giorni, lo squillo del telefono sembrava ogni volta preannunciarmi una insistente, lusinghiera richiesta. «Abbiamo bisogno di lei», «Ci occorre un nome intemerato e di sicuro prestigio», «Le folle scandiscono il suo irto cognome». Niente. «Questi,» mi dicevo quando squillava il telefono, «questi son i repubblicani, no, i socialisti.» Era un tale che aveva sbagliato numero. Oh, m’ero preparato le mie risposte, distaccate e pungenti. Tenete presente che supponevo che tutti mi avrebbero invitato, eccetto la Volkspartei e la Liga veneta. Ai comunisti avrei replicato: «Troppo di destra». Ai liberali: «Troppo di sinistra». Ai democristiani: «Come Formigoni, deploro il vostro sfrenato laicismo». Ai socialisti: «Praticamente clericali». Ai repubblicani: «Ho anch’io i miei problemi di pinguedine», ai socialdemocratici: «Non amo i partiti di massa», ai verdi: «Amo i cibi adulterati», ai radicali: «Solo se mi corrompete», ai demoproletari: «Ho idee diverse sulla letteratura».
Niente, non è servito a niente. Mi rendo conto che la mia stima di me stesso è stata sfidata, che in realtà io sto perdendo la fiducia nel mio carisma. La società mi ha detto in faccia che il mio nome non dà suono, che le mie innumerevoli virtù sono una fola cui non credono neppure gli intimi, se ce ne sono. Eppure io sono l’intellettuale, animale strano e fascinoso. Non sarò Miranda Martino, ma canticchio quando mi faccio la barba; non suono il violino come Uto Ughi, ma sono un eccellente suonatore di compact; non sono un atleta come Rivera, ma ascolto sempre gli ultimi dieci minuti del “Calcio minuto per minuto”. Porto gli occhiali. Studio il tedesco. Snobbo la tv. Leggo Wodehouse in inglese. E allora, perché? Forse sono vittima di una congiura. Forse il mio nome paventa, terrorizza, mette in fuga. Sarà vero? In cuor mio ne dubito. La verità è questa: io sono uno sconfitto. Per confortarmi, per una settimana andrò in giro solo in tassì. Basterà?
[Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere, Milano, Leonardo 1989, pp. 157-158]