Due domande da Vanity Fair
– Che cosa significa per lei “viaggio” e questo suo modo di raccontare le città, ossia perché le racconta così?
Giorgio Manganelli una volta ha scritto che un viaggio non è fatto né dalla lunghezza né dalla durata, né dalle cosiddette meraviglie, cioè dai capolavori che può succedere di vedere. Un viaggio, secondo Manganelli, è fatto prima di tuTto da sé stesso. «È, – scrive Manganelli – uno spazio longilineo, dentro il quale, come in una fessura del pianeta, cadono immagini, profili, parole, suoni, monumenti e fili d’erba». Io, adesso, quest’anno, devo andare a Mosca tre giorni, da solo, per rivedere dei posti per i quali devo scrivere qualcosa per una guida del Touring, e sono già in smania da due mesi, all’idea di andare a Mosca, da solo, a vedere i fili d’erba degli Stagni dei Patriarchi, per cominciare.
– Ho letto tempo fa uno o due suoi racconti di città in cui è stato con sua figlia, soprannominata la Battaglia, ha voglia di regalarci un aneddoto di uno dei suoi viaggi con la Battaglia?
Il personaggio che parla dentro il libro a cui lei fa riferimento, che si intitola La piccola Battaglia portatile, non sono esattamente io, e la bambina, sua figlia, non è esattamente mia figlia, anche se un po’ credo di assomigliare a quel personaggio lì e credo che mia figlia un po’ assomigli alla Battaglia. La prima volta che l’io narrante di quel libro e sua figlia, la Battaglia, vanno in giro insieme, lui la racconta così:
«Allora, la Battaglia, la prima volta che siamo andati in giro insieme che dormivamo fuori in un albergo (era la prima volta che la Battaglia dormiva in un albergo in vita sua), è successo un paio di anni fa che siamo andati a Torino e quando siamo arrivati alla stazione di Torino Porta Nuova la Battaglia si è fermata davanti al tabellone delle partenze ha allargato le braccia ha detto «Che città meravigliosa». Quando poi siamo arrivati in albergo, a Torino, quella volta, mancava poco all’ora di pranzo io mi ero riposato un quarto d’ora lei intanto aveva ispezionato la stanza, ogni tanto mi portava a vedere una cosa che aveva trovato, le ciabatte di spugna, la cuffia per fare la doccia, il kit per cucire, e quando mi ero tirato su e le avevo chiesto «Andiamo a mangiare?», lei mi aveva riposto «Ma mangiamo qua, c’è anche il frigo».
Un’altra cosa, sempre da quel libro, che è successa in città, a Bologna, sulla via Emilia (un viaggio urbano, domestico, se così si può dire), lui la racconta così: «e mi era venuta in mente una volta che lei, eravamo in bicicletta, era ancora piccola, avrà avuto quattro anni, avevamo uno di quei seggiolini che si metton davanti, sul manubrio, io non la vedevo in faccia ma sentivo quel che diceva e a un certo punto l’ho sentita dire «Io non le voglio, le righe», e io, non capivo, quel che diceva, le ho chiesto «Che righe?», e lei mi ha detto «Le righe che ci son sulla faccia», e io ho capito che voleva dire le rughe e le ho detto «Ah, va bene, non c’è problema, ci son dei medici che ti addormentano, quando sei grande che cominciano a venirti le righe, ti taglian la faccia, ti cuciono che non si vede niente quando ti svegli hai una pelle liscissima che sei senza righe», le ho detto, e lei ha taciuto un po’ e poi alla fine mi ha detto «No, io le voglio, le righe».
[Dovrebbero essere uscite oggi, in occasione dell’uscita, domani, di Sei città, se non ho capito male]