Due cittadini

domenica 15 Febbraio 2009

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E delle altre accuse arriveranno all’autore da parte dei cosiddetti patrioti, i quali siedono tranquilli in un angolo e si occupano di cose del tutto secondarie, e mettono da parte i loro piccoli capitali, costruendo la propria fortuna a spese di altri: ma appena succede qualcosa che, secondo loro, è offensivo per la patria, appena appare un qualche libro in cui si dice una qualche amara verità, si mettono a correre in tutti gli angoli, come ragni che abbiano visto che nella ragnatela è rimasta impigliata una mosca e alzano d’un tratto un grido: «Vi sembra bene mettere queste cose in piazza, farle sapere? Le cose che son scritte qui, son cose nostre, vi sembra forse bene? Cosa diranno gli stranieri? È forse divertente sentir che gli altri ci giudicano male? Penseranno che non ce ne importa? Penseranno che non siamo patrioti?». A queste sagge osservazioni, soprattutto a proposito del parere degli stranieri, confesso che non si può rispondere niente. O forse, ecco che cosa. Vivevano in un angolo remoto della Russia due cittadini. Uno era un padre di famiglia, che si chiamava Kifa Mokievič, un uomo d’indole mite, che tirava avanti così come veniva. Della famiglia sua non si occupava: la sua esistenza era orientata piuttosto verso il polo meditativo e assorta nel seguente problema filosofico, come lo chiamava: «Ecco, per esempio, una bestia, — diceva, camminando per la stanza, — una bestia nasce nuda. Perché proprio nuda? Perché non come un uccello, perché non viene fuori da un uovo? No, veramente, succede così: capirai sempre meno la natura, man mano che ti ci addentri». Così pensava il cittadino Kifa Mokevič. Ma non è questa ancora la cosa importante. L’altro cittadino era Mokij Kifovič, suo figlio carnale. Era quel che in Russia chiamano un bogatyr, e mentre il padre si occupava di come nascono le bestie, la sua natura ventenne a spalle larghe premeva e si voleva scatenare. Non sapeva far nulla con delicatezza: finiva sempre che a qualcuno faceva male un braccio, a un altro, là, spuntava un bernoccolo sul naso. In casa e nelle vicinanze tutti, dalla serva al cane di guardia, correvano via quando lo avvistavano; anche il suo proprio letto, nella sua camera, l’aveva fatto a pezzi. Era così, Mokij Kifovič e, tra l’altro, era di animo buono. Ma non è questa la cosa importante. La cosa importante ecco qual è. «Scusa, babbino, padron nostro, Kifa Mokievič, — diceva al padre la sua e l’altrui servitù, — ma che roba è questo Mokij Kifovič? Non dà requie a nessuno, è così fastidioso!» — «Sì, è birichino, è birichino, — diceva di solito a questo punto il padre, — ma cosa si può fare? Battersi con lui è troppo tardi, e poi tutti mi accuserebbero di essere crudele; e poi è uno che ha dell’amor proprio, a rimproverarlo davanti a un altro metterebbe giudizio, ma cosa volete, far le cose in pubblico, tutta la città lo verrebbe a sapere, gli darebbero proprio del cane. Pensano forse che non mi faccia male? Forse che io non sono il padre? Visto che mi occupo di filosofia, e delle volte non ho tempo, allora non sarei il padre? Ah, no ve’, sono il padre! Sono il padre, il diavolo ti porti, il padre! A me Mokij Kifovič mi si siede qua, sul cuore! — Qui Kifa Mokievič si picchiava molto forte col pugno sul petto e si infervorava proprio. — Se poi deve rimanere un cane, almeno che non lo sappiano da me, che non sia io, a tradirlo». E, mostrato un tale sentimento paterno, lasciava che Mokij Kifovič continuasse con le sue imprese da bogatyr e quanto a lui si rivolgeva di nuovo al suo oggetto preferito, rivolgendosi all’improvviso una domanda del genere: «Ma se un elefante nascesse da un uovo, bisognerebbe che il guscio, per forza, avesse uno spessore enorme, che non lo fori neanche con un cannone, bisognerebbe inventare qualche nuova arma da fuoco». Così stavano al mondo i due abitanti di quel pacifico angolino che in un modo inaspettato, come da una finestrella, si sono affacciati alla fine del nostro poema e si sono affacciati per rispondere modestamente all’accusa di alcuni ardenti patrioti che intanto si occupano tranquillamente di una qualche filosofia o di accumular dei denari a spese della patria così teneramente amata, precoccupati non di non fare il male, ma solo che non si dica che fanno il male.

[Nikolaj Gogol’, Anime morte, parte prima, capitolo undici]