Diari di sabato

domenica 19 Settembre 2010

[Metto qui sotto i diari del festival di Seneghe di sabato 4 settembre. (Ci sono molti refusi, credo. I diari di venerdì 3 e di domenica 5 si possono vedere qui)]

Diari seneghesi 2010 – 2
sabato 4 settembre

Buonasera. Si sente? Grazie.
Dunque io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, ho quarantasette anni, vivo a Bologna, di mestiere scrivo dei libri, questo è il quinto anno che mi chiamano a fare i diari, oggi è il secondo giorno e questo inizio è uguale all’inizio di ieri. Uguale identico. Solo che, a differenza di ieri, io oggi devo cominciare dicendo che io, questa edizione del festival, è la prima volta che non riesco a tener dietro a tutto, non so come mai, ho l’impressione che ci sia troppa roba ma non c’è troppa roba, c’è la stessa roba che c’era l’anno scorso, anzi forse meno, forse quest’anno sono più stanco perché quest’anno, a differenza degli anni scorsi, io non sono arrivato come faccio di solito al venerdì, o, al massimo, al giovedì, no, quest’anno sono arrivato di lunedì, perché dovevo fare anche se i seminari, li dovevo cominciare lunedì pomeriggio, lunedì pomeriggio non li abbiam fatti, dopo li dovevo cominciare martedì mattina alle nove e mezza, dopo martedì mattina alle nove e mezzo non li abbiam cominciati … lasciamo perdere.
Però, a pensarci, non è che mi sono ammazzato di lavoro, secondo dev’essere proprio come dicevo ieri che io, tra l’anno scorso e quest’anno, ho proprio avuto una specie di crollo, sono invecchiato, non so come dire, che era una cosa che me n’ero già accorto un paio di mesi fa, a dire il vero, una volta che ero andato in piscina con una bambina di cinque anni che chiameremo convenzionalmente la Battaglia, sono andato in piscina a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, e c’era un bagnino lì che staccava i biglietti, all’ingresso della piscina Martin Luther King di Casalecchio di Reno che mi ha guardato e mi ha detto, Scusi, glielo devo chiedere, ha più di sessant’anni? E io gli ho detto No, ne ho quarantasette. Ah, ha detto lui, peccato, se ne aveva di più aveva lo sconto.

Ecco, dev’esser per quello, che oggi ho fatto fatica a tener dietro a tutto e che come risultato di questa mancanza di energie alla fine questi diari non sono precisi e rigorosi com’è tradizione che siano, ammesso che siano stati così che non è bello, che io dica che i diari che faccio io sono precisi e rigorosi, ma non volevo dir quello, volevo dire che oggi son peggio del solito, ecco, che ci mancheranno proprio un po’ di pezzetti e probabilmente dipende da quello, che io ho avuto un crollo, o forse è per via del fatto che quest’anno, io, diversamente dagli altri, sono arrivato di lunedì, perché gli altri anni, i primi quattro anni prima di questo festival, io di solito arrivavo di venerdì, o, al massimo di giovedì, invece quest’anno sono arrivato al lunedì, che dovevo fare dei seminari, anche se è vero che non è che mi sono ammazzato di lavoro, a far questi seminari, forse è perché sono vecchio, o forse…

Cioè c’è anche il fatto che oggi, a dire il vero, è successa anche un’altra cosa. Che io faccio un po’ fatica a dirla perché, adesso io, cioè, è bello, girare per Seneghe, in questi giorni, che c’è la gente che mi ferma, che mi dà degli spunti per delle cose da metter nei diari, non lo so, ieri sera, per esempio, dopo che ho letto i diari di ieri, sono sceso dal palco, una signora mi ha fermato mi ha detto Paolo Nori, ma sa che noi chi siamo già visti ci siamo già conosciuti? Che io, non mi sembrava di averla mai vista mai conosciuta ma mi dispiaceva dirle di no allora le ho detto Eh. Sì sì, mi ha detto lei, io e lei ci siamo già conosciuti a Milano dai Cappuccini. Che io, non mi sembrava di esserci mai stato a Milano dai Cappuccini, ma vado in un sacco di posti magari c’ero stato non mi ricordavo e poi comunque mi dispiaceva dirle di no allora le ho detto Eh. Sì sì, mi ha detto lei, dai Cappuccini una cosa organizzata da Famiglia Crisitiana, si ricorda? Che io, una cosa organizzata da Famiglia Cristiana ero sicuro di non esserci mai stato, e mi dispiaceva, dirle di no, però gliel’ho detto, No, le ho detto, lei mi confonde con un qualcun altro.

È bello, c’è pieno di gente che mi ferma, che mi dà degli spunti, che mi chiede, perfino, di finire nei diari, per esempio stamattina, c’eran due ragazze che spazzavano la piazza lì per andare a Sa prenza de murones, Maria Rita e Giovanna, che mi hanno chiesto, Maria Rita, Paolo Nori, mi ha detto, dillo nei diari, che ci siamo anche noi che puliamo, mi ha detto Maria Rita, e io adesso l’ho detto e sono contento, che me l’abbiano chiesto, e di averlo potuto mettere nei diari, mi fa piacere questa cosa, è un segno di affetto e è il sengo che uno sta facendo una cosa che per qualcun altro ha anche un senso e adesso io credo che la cosa che sto per dire, succederà adesso che un po’ della gente, domani, per la cosa che devo dire, non mi dirà più niente, e mi dispiace anche per un altro motivo, che questo intralcio che ho avuto che mi ha impedito di fare i diari è una cosa che mi costringe a parlare di me, anziché del festival, che è una cosa che oggi mi ha rimproverato Flavio Soriga, che oggi mi ha detto Tu dici sempre e solo Io io io io io io io, mi ha detto Flavio, che quello lì però secondo me è una critica ingiusta e io gliel’ho detto, a Flavio, No, gli ho detto, io ieri non ho detto solo Io io io io io io, ho detto anche La matematica è scolpita nel granito. Che, lo dico per quelli che c’erano ieri, non è una cosa che ho detto io, è una cosa che ha detto Flavio Soriga, ed è una cosa che a prima vista può anche sembrare una stupidata, La matematica è scolpita nel granito, uno può chiedersi Che mischia vuol dire, invece è una cosa che, secondo me, a pensarci, segnatevelo, La matematica è scolpita nel granito, e sotto scriveteci Flavio Soriga, che se no magari qualcuno che ritrova il vostro taccuino, nel caso che lo perdiate, può pensare che l’abbiate scritta voi, vi consiglio di no, scriveteci sotto Flavio Soriga, e poi ogni tanto andate a rileggerla vedrete che, forse, non è mica detto che sia una minchiata così come sembra.

Quindi, come dicevo, il motivo per cui non sono stato così rigoroso come sono di solito, ammesso che di solito sia rigoroso, è una cosa che preferirei non dire anche perché io non sono qui per parlare delle cose che mi succedono a me, ma delle cose che succedono al festival, ma in questo caso, io mi sento come obbligato, a spiegare il motivo, perché mi imbarazza, ma non nel senso che, no no, assolutamente, in un altro senso, mica perché io dico che, no, no, no, rimpianti? Che rimpianti, no, per degli altri motivi che però è meglio che prima di tutto racconto un po’ quel che è successo ieri che se no Flavio mi dice che dico sempre IO io io io io io, La matematica è scolpita nel granito.

Allora, ieri, il primo incontro, era con Antoni Canu, che è un poeta di Alghero che non però è di Alghero è di un paese, Ozzieri, dove, come sapete meglio di me, si parla il sardo logudorese, non l’algherese, che è una lingua che ha molto in comune con il catalano, l’algherese, e lui, quando è arrivato ad Alghero, per sentirsi parte della città, si è messo a studiare l’algherese, e l’ha imparato così bene che non solo si è messo a scrivere delle poesie in algherese, si è messo anche a sognare, in algherese misto catalano, se così si può dire, e ieri ha raccontato che ha scritto una poesia che l’aveva cominciata e poi si era addormentato, prima di finirla, e poi si era svegliato verso le due di notte e si era reso conto che aveva sognato la continuazione della poesia, e allora l’ha scritta e una signora del pubblico, che poi è Maddalena, che è la mia padrona di casa, gli ha chiesto Ma scusi, ma lei in che lingua l’ha sognata, e lui ha risposto In algherese misto catalano, o qualcosa del genere, in algherese, o in catalano, adesso non lo so, ma ero stanchissimo perché avevo un pensiero, dovevo fare una cosa.
Dopo, lui, ha detto che lui, il suo mestiere, riparava le lavatrici, tecnico, distributore, le vendeva, le riparava, non lo so bene, e una volta, la Zanussi, quelli che fan le lavatrici, gli ha chiesto di scrivere una poesia sulle lavatrici, allora lui ha detto Eh, non è mica facile, e poi ci ha pensato tipo per due anni e poi l’ha scritta e l’ha pubblicata per la prima volta sul bollettino della Zanussi, ottomila copie, in catalano e in italiano, credo, e la poesia si intitolava Vibrazioni, e parlava della mente della lavatrice, la prima parte, e la seconda parte del frigorifero, e l’ultima parte, tradotta in italiano, è questa: il respiro del fluido che scorre nelle arterie di metallo, per evaporare come la nebbia e rinascere come l’onda del mare, e quel fluido che scorre nelle arterie di metallo per evaporare come la nebbia e rinascere come l’onda del mare è il freon. L’ha detto lui. E a me sembra una definizione del freno bellissima che io, adesso sto per traslocare, io adesso quando mi trasferisco a Casalecchio di Reno lo scrivo sul io frigorifero con le lettere adesive, forse.

Ecco. Questo è quello che posso dire, di Antoni Canu. Il resto, probabilmente ha detto anche delle altre cose, ma ieri è stata una giornata che dovevo fare una cosa che ci ho pensato tutto il giorno.

Dopo c’è stato Sandro Portelli che ha parlato di un paese americano del Kentuki che si chiama Harland dove è cominciata la musica. Cioè la musica americana, è cominciata lì, cioè la musica americana del ‘900, in quel paese lì piccolo di minatori dove Portelli ci ha scritto sopra un libro che sta per uscire che un libro che lui ha detto che ci lavora da quarant’anni e per favore quando finisce il tempo che ha a disposizione di fermarlo se no lui andava avanti tre giorni, a parlare di questa cosa. E ha messo su delle canzoni americane, alcune delle quali le aveva registrate lui a Harland e intanto che leggeva le traduceva in italiano e la prima cominciava così: Io odio il sistema capitalistico e adesso vi spiego perché. E dopo Portelli diceva Adesso sentirete la registrazione di un blus che è stato registrato il 15 novemrbe del 1953 a Oakland in Turner street al numero 31 alla presenza di dodici testimoni e diceva il nome di tutti i testimoni e poi faceva partire la canzone e poi diceva No, questa è un’altra canzone. E questa cosa è successa tre o quattro volte.

E dopo ha detto che una ragazza americana di Harland gli aveva raccontato dei suoi nonni di Harland, in quegli anni lì negli anni 30 eran dei minatori, c’eran le miniere di carbone, a Harland, e i suoi noni di quella ragazza erane comunisti e: A quei tempi essere comunisti non era una cosa così brutta come adesso, aveva detto quella ragazza americana a Portelli, ha detto Portelli.

E a me è venuto in mente una cosa che forse ho detto anche l’anno scorso, e forse anche l’anno prima, che è la quarta di copertina di un libro che ho scritto io che si intitola mi compro una Gilera, che è un titolo preso dal celebre proverbio parmigiano Putost che tor modera, am compor na Gilera, che significa, Piuttosto di sposarmi, mi compro una Gilera e la quarta di copertina fa così: “Avete mai fatto caso al fatto che oggi, in Italia, c’è pieno di gente che quarant’anni fa era atea e comunista adesso son diventati cattolici? Io, non lo so, se trovassi qualcuno che quarant’anni fa era cattolico e adesso è ateo e comunista, sarei curioso di andarci a cena insieme, con uno così, invece non esco mai di casa, praticamente.” 


Dopo c’è stato l’incontro con il poeta olandese Wilhelm Van Toorn, e nella piazza c’era un cane molto grande e molto affettuoso e nero e con due occhi di una dolcezza che si fa fatica a dirla e si chiama Max.

E Franco Loi leggeva una poesia di Van Toorn che, se non ho segnato male cominciava così: Io, assonnato, il mattino presto, le vedo andare in paese in biclietta, le mie figlie. E poi continuava e loro sparivano dietro il bosco, e lasciavano un riflesso che non si capiva se era il campanello, un raggio di sole o i loro capelli, e a me veniva in mente una bambina che chiameremo convenzionalmente la Battaglia che mi aveva telefonato ieri qeul giorno lì che poi era ieri dirmi che aveva imparato a andare in bicicletta e Van Toorn diceva che lui aveva voluto fermare quel momento che se no non sarebbe più tornato, e a me veniva da piangere e piangevo, e mi sembrava che quest’anno non avessi ancora pianto, a Seneghe, e piango tutti gli anni, e adesso avevo pianto anche quest’anno.
E mi ero ricordato di una sera, due anni fa,su questa piazza, che Bruno Tognolini aveva letto una filastrocca dove parlava un bambino, e la filastrocca si intitolava Filastrocca per la morte del nonno e faceva così:

Filastrocca per la morte del nonno

Caro nonno, son passati tanti giorni
Ho aspettato e ho capito che non torni
Ti hanno messo come un seme in un bell’orto
Ho guardato e ho capito che sei morto
Vorrei farti ritornare, ma non posso
Nel mio cuore il dolore ha fatto un fosso
In quel fosso come un seme ti ho sepolto
E per innaffiarti bene ho pianto molto
È venuta primavera e sei fiorito
Quando il pianto dei miei occhi era finito
Ora è maggio e oramai non piango più
Nel giardino son fioriti i gigli blu
E io ancora non ti vedo, però ora so perché
Non ti vedo perché sei dentro di me .

E dopo mi veniva da piangere ancora di più e allora andavo a casa perché a noi in Emilia ci hanno insegnato che farsi veder piangere, soprattutto i maschi, non si fa mica, e poi andavo a casa anche perché dovevo fare una cosa che era tutto il giorno che ci pensavo e la cosa era un articolo su un quotidiano che chiameremo convenzionalmente La marmaglia, che è un quotidiano al quale io avevo cominciato a collaborare nove mesi prima.

Avevo collaborato anche per un altro giornale, prima della Marmaglia, che era un giornale che chiameremo convenzionalmente La plebaglia, che era un giornale che politicamente era dietro la barricata opposta di un ipotetico campo di battaglia politico, rispetto alla Marmaglia, però il lavoro per La marmaglia me l’aveva procurato, in certo senso, proprio il fatto che avevo lavorato per La plebaglia, perché il direttore delle pagine culturali della Marmaglia aveva visto un mio articolo sulla Plebaglia e mi aveva scritto dicendomi che lui sapeva che io, politicamente, non la pensavo come La marmaglia, ma che a lui sarebbe molto piaciuto avere degli articoli come quello che avevo pubblicato sulla Plebaglia, e che se avessi voluto provare a collaborare con loro avrei verificato che avrei potuto scrivere quel che volevo. Voi vi chierete Cosa c’entra? Aspettate un attimo.
Io gli avevo risposto gli avevo scritto che era vero, che politicamente non la pensavo come La marmaglia, ma questo non mi sembrava un motivo per non scriverci sopra.

Quello che non gli avevo detto, perché non aveva senso dirglielo, dal momento che era una contraddizione anche mia, prima di tutto mia, avevo già collaborato anche con degli altri giornali, quello che non gli avevo detto era che a me, i giornalisti, non che avessi qualcosa contro i giornalisti, ma tutte le volte che pensavo ai giornalisti mi venivano in mente il gatto della Battaglia e Søren Kirkegaard.

La Battaglia aveva un gatto nero che si chiamava Pepe. Una volta mi aveva detto che Pepe di sera era molto più agitato che di giorno. Io le avevo detto: «Perché i gatti sono animali notturni».
«I bambini, invece, sono animali giornurni», mi aveva detto la Battaglia.

E Kirkegaard diceva che i giornalisti bisognava chiamarli notturni.

Ad ogni modo, a dispetto di tutte le contraddizioni possibili e immaginabili, nel mese di novembre dell’anno 2009, dieci mesi fa, avevo cominciato a collaborare con la Marmaglia, e avevo scritto un paio di articoli, di recensioni. All’inizio niente. Tutto taceva. Nessuno che mi diceva: «Ho letto la cosa che hai scritto sulla Marmaglia», come mi succedeva invece abbastanza spesso con La plebaglia. “Si vede che non le legge nessuno, le pagine culturali della Marmaglia”, avevo pensato.

Poi, nel mese di dicembre dell’anno 2009, nove mesi fa, mi era arrivata una mail che diceva: «Cabìb, qui la stanno sputtanando», e c’era un link a un blog dove si parlava di fatti che riguardavan la letteratura.
Su questo blog, avevo visto, in una discussione su uno dei libri che avevo recensito si diceva che io, che ero da sempre un collaboratore della Plebaglia, adesso collaboravo con La marmaglia, e che ci pubblicavo degli articoli uguali identici a quelli che avevo pubblicato anni prima sulla Plebaglia, e io avevo pensato: “Vedi, è vero che non li leggono, se no non dicevano che erano uguali identici”. E poi c’era qualcuno che diceva che io ero stato proprio bravo, a pubblicare sulla Marmaglia degli articoli uguali identici a quelli che avevo pubblicato anni prima sulla Plebaglia, e io avevo pensato: “Non sono uguali identici”. E poi c’era qualcuno che diceva: «Dio non voglia che Cabìb collabori con la Marmaglia», e io avevo pensato “Dio non voglia?”. E poi c’era qualcuno che si rivolgeva a quello che aveva scritto Dio non voglia e gli chiedeva: «Ma tu, non hai appena firmato un contratto con quella casa editrice là che il padrone di quella casa editrice là è quel signore là?». E Dio non voglia rispondeva: «Sì, ma sono casi diversi». E io avevo risposto a quello che mi aveva scritto «Cabìb, qui c’è qualcuno che la sta sputtanando», e gli avevo scritto: «Sa che non mi sembra? A me sembra invece una discussione molto interessante». Cabìn sono io che sembra che mi chiamo Paolo Nori ma non è una cosa sicura facciamo stasera mi chiamo convenzionalmente Bernardo Cabìb.

Voi vi chiedrete ancora cosa c’entra, aspettate ancora un attimo.

Gli ultimi giorni del mese di novembre dell’anno 2009, La marmaglia aveva pubblicato due pagine, le pagine della cultura, con richiamo in prima pagina, sulla questione culturale del giorno, l’attacco di un blog di intellettuali di sinistra a Bernardo Cabìb, che aveva avuto la sfrontatezza di decidere liberamente di collaborare a un giornale di destra, la Marmaglia, che gli aveva garantito di scrivere tutto quello che gli avrebbe dettato la sua testa. C’era anche una mia foto, era la mia foto che girava sopra ai giornali, ero davanti a un microfono, sul palco del teatro Valli di Reggio Emilia, che leggevo, con la mia testa pelata e le mia braccia che andavano da tutte le parti e una maglietta nera di un festival dove andavo tutti gli anni, il Cabudanne de sos poetas, il settembre dei poeti, a Seneghe, in Sardegna, con stampato in mezzo un simbolo che c’era sulle case del paese di Seneghe, in Sardegna, una specie di rosa stilizzata.

Dopo, nel mese di novembre dell’anno 2009, c’eran stati dei giorni che due o tre ore al giorno io le passavo al computer a rispondere a delle mail a della gente che mi chiedeva come mai collaboravo con la Marmaglia, o che mi diceva che non si sarebbe mai aspettata che io avrei collaborato con la Marmaglia, o che mi diceva che avevo fatto proprio bene a collaborare con la Marmaglia e che si sarebbe molto meravigliata se non avessi accettato di collaborare.
C’era stata una persona che mi aveva scritto una mail che diceva così: «A collaborare con la Marmaglia si va all’inferno». E io gli avevo risposto gli avevo scritto che qualche settimana prima, nella luce del mio tinello, alle cinque del pomeriggio, avevo appena finito di stirare, mi era venuto quel pensiero qua: “Figuriamoci se c’è l’inferno”. E lui mi aveva risposto mi aveva scritto: «Forse l’inferno non c’è, ma non è un buon motivo per cercare di meritarselo collaborando con la Marmaglia». E io gli avevo risposto gli avevo scritto: «Allora speriamo che non ci sia perché se c’è ci vado di sicuro». E lui mi aveva risposto mi aveva scritto: «Non preoccuparti che ci saranno anche i tuoi compagni di redazione, vi terrete compagnia». E io gli avevo risposto gli avevo scritto: «Pensa a noi, qualche volta, dal paradiso». E lui mi aveva risposto mi aveva scritto: «Touché».
Dopo, in quel novembre del 2009, mi aveva telefonato una giornalista della Plebaglia, che era la persona con la quale avevo a che fare, nella redazione della Plebaglia, e, in un certo senso, era anche una mia amica, avevam parlato una sacco di volte della Russia, aveva vissuto in Russia, e mi aveva detto: «Bernardo, ho visto le pagine della Marmaglia, e ho visto anche la tua foto, ma avevi una maglietta con la croce celtica, ma cos’è sucesso, sei diventato matto?».
«La croce celtica? – le avevo detto io. – Guarda che quella è una rosa; è il simbolo del festival dei poeti di Seneghe, – le avevo detto, – è una rosa».
«Ah, – m’aveva detto lei, – è una rosa? Mi era sembrata una croce celtica».

Poi, nel mese di Febbraio del 2010, ho incontrato a Bologna uno scrittore che conosco che chiameremo convenzionalmente Tiziano Ferro che mi ha chiesto, la prima cosa che mi ha chiesto Hanno smesso di romperti le balle, con la Marmaglia? e ho gli ho detto Un po’ hanno smesso, e mi è venuto in mente che in quei giorni mi avevano fatto un’intervista e alla fine dell’intervista mi avevano fatto una domanda sulla questione della Marmaglia: mi avevano chiesto se io mi spiegavo come mai, in Italia, succedeva che il contesto, cioè il posto dove andavan le cose, deformava il testo, cioè le cose, in un modo che una maglietta col simbolo del Cabudanne de sos poetas di Seneghe, una rosa, diventava una maglietta con una croce celtica, e io avevo risposto che non me lo spiegavo, e che a me sembrava che se noi ci fossimo disposti su due schieramenti, come due eserciti dietro due barricate, l’una contro l’altra, avremmo potuto farci un’idea molto chiara di come stavan le cose: chi era di qua era buono, chi era di là era cattivo. Ecco io avevo l’impressione che, su molte cose, noi fossimo così, schierati dietro quelle barricate anche se le barricate le avevan tolte da un po’, ma noi eravam lì, dietro quelle barricate immaginarie con un’immaginaria divisa e non ci veniva neanche il dubbio che stare al mondo non era come fare il militare, che non fosse obbligatorio prendere ordini da nessuno, che si potessero fare dei passi avanti, dei passi indietro, di lato, dei giri, quel che si voleva, senza aspettare gli ordini dei superiori.

Comunque, per chiudere questa lunga parentesi, devo dire che ultimamente io continuo a pubblicare sulla Marmaglia e che il pezzo che ho scritto tra ieri e oggi per la marmaglia e che sarà pubblicato sulla Marmaglia di domani lo leggo alla fine dei diari che son quasi finiti ma devo dire ancora due cose.

La prima, che c’è stato anche Errico Bonanno, ieri, e voi l’avete sentito stasera, per chi non c’è stato ieri, ieri è stato uguale a oggi, più o meno. n è un giudizio, ognuno la pensa come vuole.

L’altra cosa, ce ne sono altre due, c’è stata la gara di poesia, che io, non capisco niente, cioè come atmosfera è anche bella, però io non capisco niente, cosa posso dire, se uno non capisce niente è meglio che tace, no?

Poi ce n’è un’altra, anzi ce ne son due, la prima è che di sera, alla lettura della buonanotte, c’è stato Vasco Brondi che io mi sono accorto ieri sera che lui ha due occhi, guardateli, gli occhi che ha, ero seduto proprio davanti a lui, si vedevan benissimo, se incontrate Vasco Brondi chiedetegli Ti puoi fermare, un attimo? e vi sedete sotto di lui e dopo vedete, che occhi.
E io devo dire che io l’ho sentito tutto, Vasco Brondi, e che ero vicinissimo, c’ero proprio sotto, e non mi sono sorpreso del fatto che a me piace molto, Vasco Brondi, lì lo sapevo, mi piace, mi è piaciuto ieri e piaceva anche prima, ma la cosa che mi ha sorpreso son due, la prima, è che alla fine ha fatto una canzone di Leo Ferrè che io, per esempio, l’avevo sentito una volta, Leo Ferrè, a Parma, trent’anni fa, al Palasport, be’ io l’avevo trovato insopportabile, sarà stata una brutta serata non lo so, invece la canzone di ieri di Vasco Brondi, anche se era di Ferrè, be’, non sembrava neanche di Ferrè, sembrava bella, e questa non è una gran cosa, è anche normale, l’altra cosa, invece, che io ero proprio lì sotto, e Vasco urlava anche, un po’, Vasco è uno che urla, anche, quando canta, e anche quando legge, be’, ieri sera, lì, io non è che ho ascoltato proprio, son partito anche con dei pensieri e mi sono accorto che si riesce a pensare benissimo, sotto Vasco Brondi, quando urla, e la cosa alla quale pensavo ieri sera era questa: La matematica è scritta nel granito. Ecco. Poi volevo raccontare un’altra cosa che mi han detto ieri sera, che parla di un asino e di un campanile, ma la racconto domani. Stasera finisco leggendo il pezzo della Marmaglia che esce domani e che per il momento non ha titolo, lo metterà la redazione della Marmaglia, possiamo intitolarlo Nella piazza dei balli di Seneghe, e fa così.

Nella piazza dei balli di Seneghe, il selciato disegna una rosa. Al centro di questa rosa, una volta all’anno, il martedì grasso, l’otto marzo quest’anno, si siede un fisarmonicista e comincia a suonare, e suona una musica che, a Seneghe, si suona solo una volta all’anno. E i seneghesi si mettono a ballare lungo le linee tracciate dai bordi dei petali di questa rosa, e ballano un ballo che si balla solo una volta l’anno, il martedì grasso, l’otto marzo quest’anno. E ogni tanto succede uno scandalo. Una donna, invitata da un uomo, viene abbandonata in mezzo alla piazza. Questo succede il martedì grasso, l’otto marzo quest’anno.
In questi giorni, il primo fine settimana di settembre, venerdì tre, sabato quattro e domenica cinque, quest’anno, quella rosa è il simbolo del settembre dei poeti, il Cabudanne de sos poetas, un festival di poesia che per me, che ci vengo da cinque anni, raccontare è difficilissimo.
Perché è vero che qui sono passate, in questi anni, alcune tra le voci più importanti della poesia italiana contemporanea, Franco Loi, Mariangela Gualtieri, Davide Rondoni, Antonella Anedda, Franco Marcoaldi, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Elisa Biagini, Silvia Bre, Flavio Santi, Ivano Ferrari, Anna Cristina Serra, Maurizio Cucchi, Gabriele Frasca, Laura Pugno, Milo De Angelis, Erri De Luca, è vero che sono venuti Giovanni Lindo Ferretti, Cristina Donà, Lella Costa, Emidio Clementi, Paolo Fresu, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Vasco Brondi, è vero.
Ma la particolarità del festival, il motivo per cui vale la pena di venire qua, a Seneghe, nel Montiferru, vicino a Oristano, in questi giorni di settembre, quest’anno, o l’anno prossimo, o l’anno dopo, quando volete, a me sembra sia un altro, o meglio, anche un altro, non solo per sentire Ivano Ferrari, o Fanco Loi, o Antonella Anedda, o Valentino Zeichen, o Valerio Magrelli, o Silvia Bre, o Mariangela Gualtieri, cioè anche per sentire loro, e anche per sentire la gara a chitarra, che è una gara tra cantanti sardi, che hanno una serietà che sembran degli avvocati, e anche per sentire gli improvvisatori campidanesi, che sono ancora più seri dei cantanti della gara a chitarra, sembran dei notai, e anche per sentire i cori a tenores, che sono ancora più seri degli improvvisatori campidanesi, sembrano degli ambasciatori, e anche per sentire gli innumerevoli poeti dialettali e stranieri che si sono succeduti sui palchi delle piazze e dei vicoli di Seneghe, e anche per vedere la piazza sempre piena, e piena per metà degli abitanti del paese, che si dice all’inizio fossero diffidenti e che poi siano andati, alla fine della seconda edizione, dagli organizzatori a dire «Se avete dei problemi, facciamo una colletta, il festival deve andare avanti», e anche per sentirvi dire «Vieni, ti faccio vedere il sardo più famoso che c’è al mondo», e per chiedere «Cossiga?», e per sentirvi dire «No, non Cossiga», e per chiedere «Più famoso di Cossiga?», e per sentirvi rispondere «Più famoso anche di Gramsci», e per vedervi portare davanti a Benito Urgu, e anche per vedere dei ragazzi sardi che recitano Karl Valentin per quaranta minuti, diretti da Roberto Magnani, del teatro delle Albe, e per vedere trecento persone che li ascoltano e aver l’impressione di essere a Napoli a sentire Mario Merola che recita “’O zappatore”, e anche per sentire il poeta Atoni Canu, ex tecnico delle lavatrici, che legge in una lingua singolarissima, un misto di catalano e algherese, una poesia che gli ha commissionato la Zanussi, la prima poesia che ha scritto, che si intitola Vibrazioni, e che parla del cervello della lavatrice, e anche per sentire Bruno Tognolini che recita una filastrocca su un nonno che muore, e vedere una piazza, quattrocento persone, che piangono insieme, all’unisono, anche per questo, dicevo, vale la pena di venire a Seneghe, ma vale la pena anche per svegliarsi, al mattino, e mettersi per strada, lungo corso Umberto, e salutare tutti quelli che incontri, uno per uno, anche se non li consoci, e prendere un caffè al bar del centro, che è un bar con un arredamento anni settanta, senza controsoffiti, e dipinto di giallo, con le tende a fili contro le mosche, e la foto del Cagliari che ha vinto lo scudetto, e il calciobalilla, e anche per salutare tutti quelli che sono al bar, anche se non li conosci, e anche per cominciare alle dieci a sentir leggere delle poesie sotto una pergola di uva perlona, nel cortile di un frantoio che si chiama Sa prentza de Murone, e anche per passare poi da una porticina e fare un giro in giardino, non un giardino all’inglese, né alla francese, un giardino alla sarda, un giardino del Montiferru, un frutteto, con i muretti a secco, e i fichi d’india, e le noci, e le mandorle, e delle sedie a sdraio, e per tornare poi nel frantoio a bere un vermentino, e mangiare due olive, e per poi andare l’agnello all’asino Rosso, e per andarvi poi a riposare al Bed and Breakfast da Maddalena, e per passar poi dal sarto del paese a comprarvi un cappello, non un cappello all’inglese, alla Sherlock Holmes, un cappello alla sarda, alla Benito Urgu, e per poi andarvi a sedere in Sarroga de Putzu Arru, a aspettare l’incontro successivo e leggere un cartello che dice «Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne», e così per tre giorni, e ci son dieci cose al giorno, e il mare è a quindici minuti di macchina, e la montagna è a quindici minuti di macchina, e a me piace molto, e son cinque anni che ci vengo, ma se a voi non piace, come non detto, state pure a casa.