Diari di sabato 16

domenica 17 Luglio 2011

Si sente? Grazie. Buonasera.

Da qualche settimana ho un telefono nuovo, l’altro mi ci son seduto sopra, sull’autobus, non funzionava più, allora, non so perché, mi sembrava impossibile, stare un pomeriggio senza telefono, metti che succedeva qualcosa a mia figlia, che chiamarla mia figlia mi fa un po’ impressione la chiamo la Battaglia, metti che la Battaglia mi cercava poi se non mi trovava si preoccupava, pensavo io, venti minuti dopo che mi ero accorto che il telefono non funzionava più sono entrato nel primo centro Vodafone che ho trovato ho presto il primo telefono che mi hanno offerto solo che è un po’ complicato, per me, e ieri mattina, avevo messo la sveglia telefonica, non ero sicuro che funzionasse, e funzionare ha poi funzionato, solo che non riuscivo a spegnerla. Ci ho messo, tipo, due minuti, appena sveglio, alla fine ho capito che ti manda un messaggio e tu devi leggere questo messaggio e dopo allora si spegne.

Quel pomeriggio lì, quando avevo comprato il telefono, la Battaglia era venuta poi a casa mia, aveva scritto, su una seggiolina di legno con un banchetto che a voltarlo diventa una lavagna col pallottoliere e che ha più di quarant’anni e che è stata prima di mio fratello grande, poi mia, poi di mio fratello piccolo e adesso è sua, ci ha scritto, incidendo bene il legno che non viene più via: Questa casa è una prigione.

Dopo, quando ho preso l’autobus, ieri mattina, c’era un signore, alla fermata dell’autobus, su via Porrettana, a Bologna, che aveva due braghe corte, azzurre, e una maglietta a righe, marrone e blu, e un paio di scarpe da ginnastica, bianche, e dei calzini corti, grigi, e aveva due borse, che aveva posato per terra, e dopo ha visto che arrivava un autobus, ha preso su le borse da terra e poi, quando l’autobus è stato vicino le ha posate ha guardato da un’altra parte come a far finta che la cosa non lo interessava.

Comincio a essere anche un po’ stanco. Non per il fatto di essere qui, se non fossi qui, sarei ancora più stanco, credo. Comincio a esser un po’ stanco così, non lo so neanch’io, perché.

Dopo due minuti, è passato un altro autobus lui ha preso su le sue borse da terra e poi, quando l’autobus è stato vicino ha posato le borse ha guardato da un’altra parte come a far finta che la cosa non lo interessava.

Dopo un minuto, è passato un altro autobus lui ha preso su le sue borse da terra, e poi, quando l’autobus è stato vicino le ha posate ha guardato da un’altra parte come a far finta che la cosa non lo interessava. E dopo questa cosa l’ha fatta altre sei volte.

L’autobus che aspettava era l’autobus che aspettavo anch’io, il 21, che arrivava in stazione, che dopo l’ho preso, eran le sette del mattino.

Poi, il treno era pieno murato, a Parma di una cosa che è molto piena si dice che è murata, chissà come si dice da voi a Santarcangelo.

Ho fatto il viaggio, fino a Rimini, in quei seggiolini di fianco alle portiere, di fianco alle uscite, c’era un ragazzo che è montato a Imola con una chitarra, andava in Puglia a fare un concrso di chitarristi che partecipavano 400 persone c’era un bel premio in denaro, non come di solito che ti danno un diploma ti fanno registrare un demo, ha detto, se non ho capito male, non l’ha detto a me, l’ha detto a una signora che era di fronte a me, lui mi era di fianco, un po’ sopra, io lo sentivo e non lo sentivo, intanto che parlava leggevo un libro dove c’era un protagonista che a un certo punto diceva:Io non sono uno che si spezza ma non si piega, sono uno che si piega.

A un certo punto mi ha suonato il telefono, era la mamma della Battaglia le aveva chiesto Dov’è andato, il papà, in Cina?

Dopo sono arrivato a Rimini, come sono salito dalle scale del sottopassaggio che sono sbucato sul primo binario, ho visto che c’era un telefono, contro il muro, un telefono di quelli pubblici, con la cornetta staccata, e mi è venuto in mente un libro di quindici anni fa, che io ho appena letto, un libro italiano, dove a un certo punto il protagonista dice: Trovai miracolosamente un telefono in buona salute, uno di quei nuovi telefoni, che vanno a gettone, moneta e tesserini plastificati. Sul led a cristalli liquidi lampeggiava la scritta «SGANCIARE».

Sono uscito dalla stazione, ho attraversato la strada sono entrato in un bar che si chiama Fanini, o qualcosa del genere, ho ordinato un caffè, la cassiera aveva le unghie intarisate, o come si dice, istoriate di rosso, finivano in rosso, come se aveva graffiato qualcuno, sono andato al banco, la banconiera si muoveva piano, un cliente alla volta, fare un cappuccino sembrava un’impresa, aveva una faccia gentile, veniva da stare dalla sua parte, aveva le unghie intarsiate, istoriate, finivano in grigio, come se aveva graffiato l’intonaco.

Ho bevuto il caffè, sono uscito, ho attraversato la strada, dall’altra parte della strada c’era un signore, davanti alla stazione, aveva due braghe corte, azzurre, e una maglietta a righe, marrone e blu, e un paio di scapre da ginnastica, bianche, e dei calzini corti, grigi, aveva due borse, che aveva posato per terra, e si guardava intorno come a cercare qualcosa.

Sono entrato in stazione, ho guardato la libreria, nella vetrina della libera c’era un libro di uno che si chiama Paul Mc Kerr, se non l’ho copiato male, e il libro si intitolava Posso farti diventare ricco, e dentro c’è anche un cd audio di programmazione mentale, c’è scritto in rosso sulla copertina.

Ecco, ho pensato, ho proprio bisogno di un cd audio di programmazione mentale.

Sono entrato in libreria, non ho comprato Posso farti diventar ricco, ho comprato Scusa l’anticipo, ma ho trovato tutti verdi, e altri 499 luoghi comuni al contrario. Tra i quali: Ti lascio perché ti amo troppo poco. Oppure: Dietro a ogni donna c’è sempre un grande uomo. Oppure Che morbido, è nuovo? Sì. Oppure: Premetto che sono razzista. Oppure: Cinquant’anni fa dovevi tenere la porta di casa chiusa, non era come adesso. Oppure: Li arrestano, e dopo due giorni stanno ancora in galera. Oppure: Il lavoro, la casa, la famiglia, in questo periodo ho tantissimo tempo. Oppure: Credo nell’oroscopo, ma non lo leggo. Oppure: Premetto che non ho nessun amico gay. Oppure: Guarda quel bambino, è più piccolo di te, e piange. Oppure: Il papà è sempre il papà. Oppure: Fatto da grandi, il morbillo può essere vitale. Oppure non cenare, che poi non mangi i biscotti.

Ho presto il treno per Piacenza, sono scesco dopo sette minuti, ho incontrato Gianni, in stazione, mi ha portato in albergo, sono andato in albergo, ho posato la mia roba, sono uscito, ho riconosciuto, alla mia destra, le grotte municipali, alla mia sinistra ho visto l’insegna del ristorante E’ lazaroun, Guarda, ho pensato, son stato qua tre giorni la settimana scorsa, è già un posto familiare.

Ho visto un uomo vestito di scuro con degli occhiali da sole, che voltava l’angolo, mi sembrava famigliare anche lui, ne ho visto il tronco che rispuntava da dietro l’angolo, si toglieva gli occhiali, era Marco Martinelli. Ci siam salutati, Il diarista ufficiale del festival, mi ha detto lui. Ecco, ho pensato io.

Senti, gli ho detto, ma quei duecento ragazzi lì che stanno lavorando con te su Majakovskij, in questi sette otto giorni che avete lavorato, non c’è stato nessuno di loro che ha detto: Che due maroni, Majakovskij. No, mi ha detto lui. Eh, gli ho detto io. Peccato.

Il diarista ufficiale del festival. C’è un russo che dice che tutto quello che è ufficiale, è falso. A Parma si dice anche: Falso come una lapide. Chissà come si dice a Santarcangelo.

Dopo c’era una signora, nel mercato, che girava con una borsa di plastica enorme, che sembrava che dentro aveva un materasso.

Dopo ho comprato tre mele, le ho pagate novanta centesimi.

Dopo sono andato a vedere Pensieri sghembi, di Igort, che la scorsa settimana non l’avevo visto tutto perché avevan messo su un cd difettoso, che finiva prima del tempo, questa volta lo vedevo tutto. E c’era un punto che diceva che, se una cosa è fatta male, se non suona, è inutile. E io ho pensato che non lo sapevo. Dopo ho mangiato le mele, sono andato a dormire per vedere se mi cambiava un po’ l’umore.

Quando mi sono svegliato, che sono uscito, c’era un uomo, ieri pomeriggio, alto, grosso, vestito di blu, con la barba, un po’ stempiato, che andava anvanti e indietro per via Don Giovanni Minzoni e faceva dei gesti come se era un ballerino. Camminava all’indietro, alzava le braccia in alto. Poi ricominciava a camminare normale, come un tranviere, era vestito un po’ da tramviere.

Una volta, qualche anno, fa, a Parma, in una tabaccheria, ho sentito un signore che diceva, Un biglièt dal tram, par pieser. Aveva una voce da vecchio, era vecchio, e parlava a voce molto alta, come parlavano i vecchi dalle mie parti quando devono fare una dichiarazione pubblica. E io, mi ricordo, mi ero commosso.

Mi ha detto un mio amico che il festival, i primi anni, la gente di Santarcangelo non erano molto contenti, che c’era il festival. Per via che dicevano che era un festival un po’ di drogati. Che all’epoca, quarant’anni fa, i drogati si distinguevano, dalla gente normale. Dopo non so, dev’esser successo qualcosa.

Poi sono andato allo sferisterio, a vedere le Albe, Eresia della felicità, non era ancora cominciato, sono andato come per fare una passeggiata, e c’era una musica, mi sembrava Monteverdi, e c’era un sole, il prato, le magliette gialle, e uno del teatro delle Albe, il Fagio, che innaffiava lo sferisterio, con una canna da giardino, e una calma da statale, e è stato un momento memorabile, non so perché. Un momento così, che il mondo si lascia guardare.

Poi era ora di andare a vedere il documentario di Jerome Bel, Véronique Doisneau, su uno spettacolo di una ballerina dell’Opéra de Paris, e lei diceva, Véronique Doisneau, che aveva quarantadue anni, e due bambini, e che otto giorni dopo sarebbe andata in pensione, e che quello sarebbe stato il suo ultmo spettacolo. E che non era mai diventata un’étolie, non se n’era mai neanche parlato, che lei probabilmente non era abbastanza dotata né forte fisicamente. E io ho pensato a un libro che ho letto un paio di anni fa, un romazno che si intitola Che fine hai fatto, Buzz Aldrin? dove il protagonista era appassionato di Buzz Aldrin, che è stato il secondo uomo a mettere piede sulla luna, non il primo, il secondo. E mi è venuto in mente un film che si intitola Accordi e disaccordi, dove il protagonista è il secondo chitarista più bravo del mondo, il più bravo è Jango Rehinard, e lui, questo chitarrista, tutte le volte che, nella sua vita, incontra Jango Rehinard, sviene, e tutte le volte che sente la sua musica si mette a piangere. E poi mi è venuto in mente un libro di Thomas Bernhard, Il soccombente, dove il protagonista è un pianista molto dotato, che va a studiare al Mozartheum, a Salisburgo, e nella sua classe, a studiare con lui, ci trova Glenn Gould, cioè l’unico al mondo, probabilmente, più dotato di lui. E arrivederci.

E a vedere ballare Véronique Doisneau, quando comincia a ballare, mi viene in mente il tranviere.

E poi mi siedo in piazza, sul monumento ai caduti della prima guerra mondiale, e penso che sui monumenti ci si dovrebbe potere sedere, come qui.

Poi vado a vedere Homo ridens, del teatro sotterraneo, uno spettacolo sullo Stimolo risorio, dicono loro, e la prima cosa che fanno sentire è una scoreggia, che loro chiamano Peto. E mi chiedo come mai si chiamano Teatro sotterraneo, perché a me sembra che quello spettacolo lì, anche come lingua, peto, se uno lo fa vedere in televisione, a Canale cinque, è uno spettacolo da Canale 5. Fascia protetta: peto.

E allora mi metto a guardare il lampadario del consiglio comunale, e lo guardo per cinque minuti. Dopo mi stanco, mi metto a leggere, e leggo: Perché bere l’acqua del rubinetto? A Roma ad esempio l’acqua in bottiglia è buonissima. Per me l’arabo è matematica. Guarda quella pecorella, sembra una nuvola. Se son rose appassiranno. C’è un mio amico che da quando ha lavorato in un allevamento di polli mangia sempre il pollo. Ieri ho cominciato la dieta. Il potassio è ricco di banane. Abbiamo preso solo una pizza e una birra ma abbiamo speso pochissimo. Ormai con queste nuove compagnie costa più l’aereo che l’autobus per l’aeroporto. C’è la crisi, c’è la crisi, e poi la sera siamo tutti a casa. Perché usare una parola italiana quando c’è un corrispondente in inglese? Luttazzi fa ridere, ma dovrebbe cercare di essere più volgare. Quando ti devono dare dei soldi ti chiamano subito, altrimenti fanno passare mesi e mesi. In fondo Mussolini ha fatto anche molte schifezze. Dopo mi rimetto a guardare un po’ il lampadario, dopo finisce.

Mangio da solo, nel largo della piazza, mi sento un commesso viaggiatore, mi ricordo due mesi fa quando sono andato alla fiera del libro a Torino con la Battaglia, era il primo viaggio fuori dall’Emilia che facevamo insieme e la prima volta che lei dormiva in un albergo, e quando siamo arrivati in stazione, ancora dentro la stazione, di fronte al tabellone delle partenze, la Battaglia ha detto: Che città meravigliosa.

Vado a vedere, sulla piazza, l’installazione di Monika Pormale che si intitola Everything is gonna be allright, che è un negozietto, tre metri per quattro, con una vetrina che dà sulla piazza, dove si va dentro a due a due e ci si abbraccia. Ci son due ragazze, quando arrivo io, scalze. Poi vanno dentro altre due ragazze, e a me viene in mente le feste da ballo, quando le donne ballano con le donne. Sento le due ragazze che sono uscite che dicono Che bello, che è stato. Poi va dentro una copia di ventenni che son fidanzati, forse, alla fine si baciano. Poi va dentro una signora con sua figlia piccola. Lei si inginocchia, abbraccia sua figlia, sua figlia l’abbraccia con il trasporto che hanno i bambini a abbracciare e io mi commuovo, e penso che quella è probabilmente la cosa più bella che ho visto fino adesso a Santarcangelo.

E mi torna in mente la mia casa, la mia casa è una prigione, e mi vien da pensare una cosa che la penso spesso, ultimamente, che è una cosa che è di una banalità che ho vergogna non solo a dirla, anche a pensarla, però, non so come mai, non solo la penso, la scrivo, perfino, e adesso la dico, e è che la cosa importante, è essere buoni.
E poi vado su vado a cercare il monte di pietà, e intanto che vado mi viene in mente quel che diceva domenica scorsa Franco Nasi al ristorante Zaghini, che a un certo punto ha detto Tutti noi abbiamo avuto un lutto.

E io penso che a me, da degli anni, una delle cose che mi mancano, è un posto dove la domenica mattina in tutte le case si veniva svegliati dal rumore della lucidatrici, e dove c’erano i bicchieri infrangibili, i telefoni a gettone, dove i maschi andavano al bar, e costituivano la famosa clientela dei bar, dove i barbieri si chiamavan barbieri, e le pettinatrici pettinatrici, dove la domenica se suonava qualcuno al campanello di casa era probabile che fosse uno che ti veniva a vendere l’Unità a domicilio, e tu la compavi non perché ti interessasse l’Unità, ma perché ti sembrava bello quel gesto lì, dii andare in giro a vendere un giornale senza guadagnarci niente, dove la scuola dell’obbligo finiva alle medie, e alle superioi tutti si erano sentiti dire la celebre frase Questa non è più la scuola dell’obbligo, dove il lavoro in genere veniva pagato, abitudine strana, dove la gente era talmente disperata che qualcuno si metteva a collezionare delle bottiglie mignon di liquori, e ne aveva tantissime, dove le partite di calcio cominciavano tutte lo stesso giorno alla stessa ora, dove fuori dalla stadio vendevano i ceci caldi, d’inverno, dentro dei cartocci di carta unta e gialla a pallini neri, e uno spruzzo di sale, sopra, dove una cubista era una pittrice con delle nostalgie dei primi del secolo, dove i peditari consigliavano il latte in polvere perché era il progresso, dove quando era comparso il fax era smerbata la fine di tutti i problemi, come se non si dovesse neanche più lavorare, dove gli uomini politici erano tutti avvolti in una specie di cappa grigia, e parlavano quasi tutti una lingua incomprensibile, e sembrava che dovesse andar bene così, dove c’erano i mangiadischi che andavano a pile, e, per la maggiora parte, chissà come mai, erano di colore arancione, dove il lucido da scarpe sembrava una cosa della quale non si sarebbe potuto assolutamente mai fare a meno, e dove mio nonno, mia nonna, mio babbo, i miei morti, erano vivi.

E lo spettacolo della Raffaello Sanzio al monte di pietà è in una sala bellissima, e lo spettacolo è fatto al contrario, si vedono i musicisti e non si vedono gli attori, che sono quasi tutti bambini, e alla fine si scopre che i rumori, li facevano tutti i bambini, e sono i bambini che suggeriscono alla narratrice Chiara Guidi, la trama della favola, una favola russa, L’uccello di fuoco, quando lei si sbaglia. E quando finisce sono i bambini che escono fuori a prender gli applausi, e sono così contenti che mi sembra che valeva la pena di veder lo spettacolo anche solo per quello.

E dopo vado per leggere i diari e passo davanti a un garage, dove ci sono tre signori di Santarcaneglo, tre ultrasettantenni, serissimi, in silenzio, dentro il garage, che guardan passare la gente. E han delle seggiole, appese al muro, di legno, e son seggiole vecchie. E mi viene in mente un documentario sulle mondine di Novi di Modena, un documentario di Andrea Zimbelli, intitolato Di madre in figlia, dove a un certo punto parla un imprenditore del biellese, o di quei posti lì dove andavano le mondine emiliane sessanta anni fa, e dice che all’epoca, le mondine, la maggior parte eran giovani, e lui le prendeva, le più carine, una per sera, le caricava sulla macchina e le portava a Biella che c’erano dei dancing, dei night club, Non era mica una brutta vita, dice quell’imprenditore lì del biellese. E dopo, subito dopo, parla una mondina e dice che lei, la sua giovinezza, non ce l’ha avuta, che per lei la giovinezza era stata solo lavoro, e che coi primi soldi che le avevano dato in risaia lei si era comprata una seggiola e una forchetta, perché almeno così quando si sposava avrebbe avuto qualcosa anche lei, e quella seggiola e quella forchetta lì lei ce le aveva ancora.

E mi vien da pensare che, le cose da raccontare, se bisogna scegliere tra dei racconti allegri e cosmopoliti da dancing e da night club, o dei racconti poveri e vivi di seggiole e di forchette, io so cosa scegliere.

E dopo leggo, e dopo alla fine, tra la gente che mi viene a salutare, c’è una compagna di classe della Battaglia, Isabella, sei anni, che era in vacanza a Rimini coi suoi genitori e son venuti a sentire.

E dopo scendo per andare a vedere Menoventi e Ciprì, al supercinema, e quando arrivo c’è stato un ritardo, allora entro in un bar a prendere un caffè e al barista, dai tavolo, gli chiedono per qualcuno un bicchiere di vino rosso, e lui dice Ma chi è che beve del vino rosso adesso?

E io prendo il caffè e poi vado giù venti metri, da solo, poi torno indietro, e mi passo la mano sulla testa, e non mi ricordo quella poesia di Baldini, com’era, quella piccolissima, non me la ricordo. E dopo, tre ore dopo, quando torno in albergo la vado a cercare e si intitola La camera cieca, e fa così:

Che poi mi succede di rado, e non sente nessuno, nella camera cieca, di sotto, tra i panni sporchi, chiudo la porta, e urlo. Dopo sto meglio.