Di sangue

martedì 8 Settembre 2015

Richard Yates, Revolutionary road 2

Un’altra sera, era già molto tardi, Frank si accostò al divano e si sedette sull’orlo del tavolino da tè a guardarla. “Sai che impressione mi fa, April? Fare questi discorsi, voglio dire, e l’idea di andarcene in Europa in questo modo?” Si sentiva teso, eccitatissimo: l’atto stesso di sedere su un tavolino da tè sembrava qualcosa di originale e stupendo. “È come uscire da un sacchetto di cellophane. È come essersene rimasti avvolti in una specie di cellophane per anni, senza saperlo, e all’improvviso sbucarne fuori. È un po’ come mi sentivo quando, in guerra, sono andato in linea per la prima volta. Ricordo che facevo tutto con aria cupa e impaurita, perché era così che si comportavano gli altri, ma non riuscivo certo a metterci il cuore. Voglio dire, naturalmente ero pieno di paura, ma non è questo che conta: quel che provavo davvero non aveva nulla a che fare con l’essere impauriti o meno. Mi sentivo terribilmente vivo, ecco cos’era. Mi sentivo pieno di sangue. Ogni cosa sembrava più reale che mai: la neve sui campi, la strada, gli alberi, quel fantastico cielo azzurro tutto striato di vapori – ogni cosa. E così gli elmetti e i cappotti e i fucili, la maniera in cui i ragazzi marciavano; in un certo senso li amavo, anche quelli di loro che non potevo soffrire. E ricordo di aver avuto piena coscienza del funzionamento del mio corpo e del suono del respiro nelle mie narici. Ricordo che siamo passati per una città bombardata, tutta muri sbrecciati e calcinacci, e ho pensato che era bella. Be’, probabilmente ero solo rincretinito e spaventato come tutti gli altri, ma dentro non mi ero mai sentito meglio. Continuavo a pensare: questo è finalmente vero, questa è la verità”.

[Richard Yates, Revolutionary road, traduzione di Adriana Dell’Orto, Roma, minimum fax 2003, pp. 179-180]