Di nero
Mi hanno chiesto di scriver qualcosa su uno spot della FAO sulla fame nel mondo. Io ho detto di sì, non so perché. Lo spot non l’avevo visto. C’era Jeremy Irons, mi avevano detto. Non sapevo neanche di preciso che faccia aveva, Jeremy Irons. Vado poco al cinema, e non ho memoria per i nomi. Jeremy Irons lo collegavo vagamente a un film di Luc Besson, dove il protagonista era uno pelato di cui non ricordo il nome. Ho cercato lo spot in rete e l’ho trovato. Jeremy Irons (che non credo abbia mai recitato in nessun film di Besson) ho scoperto di averlo visto tanti anni fa, in un film che si chiama Il danno. Il danno l’ho visto al cimena, e i film che vedi al cinema sono un po’ un’altra cosa, hanno intorno una memoria di posti e di persone e di fatti che i film che vedi a casa non ce l’han tutti. Il danno l’ho visto in un cinema di Parma, il Lux, adesso non c’è più, a me sembrava bellissimo, in un angolo appartato di un vicolo del centro, tutto di legno, mi ricordo, e mi ricordo molti dei film che ci ho visto, e le file per i biglietti, e i bagni, e il distributore automatico di bibite, e la cassiera, che era una signora di una certa età, robusta, con i capelli gonfi, sembrava sempre che fosse appena andata dalla pettinatrice, e le unghie sempre laccate, e mi ricordo che la sera del Danno io avevo un maglione bordeau, e una camicia chiara, e un paio di jeans, e delle All Star, bianche e nere, di quelle alte, da pallacanestro, e ero andato in bagno e ero tornato al mio posto e la ragazza che era con me, era una delle prime volte che uscivamo insieme, mi aveva detto «Ma tu, a guardarti, sei un bravo ragazzo. Sei proprio il prototipo del bravo ragazzo».
Nello spot c’è Jeremy Irons che va in taxi. Ha degli occhiali scuri e scuote la testa. Poi è in una stanza d’albergo, su un divano, e scuote la testa. Poi è sopra un balcone. Si vedono dei grattacieli sullo sfondo. Quand’è sul balcone dice: «Qualcuno ha detto: “Non serve dirvi che le cose vanno male”. Be’, aveva ragione, tutti sanno che le cose vanno male. Sembra di vivere in un mondo bloccato in cui l’unico cambiamento possibile è quello climatico. Ogni volta che acoltiamo le notizie c’è stato un terremoto, una tempesta o un disastro finanziario. Sappiamo che le cose vanno male, più che male, siamo alla follia. Ogni cosa sembra impazzita così ci chiudiamo in casa pensando comunque di essere in contatto col mondo intero. Be’, non è così. La gente nel mondo soffre la fame. Fame cronica. Un miliardo di persone. Ecco cos’è che va male. Ecco dov’è la follia. Dobbiamo arrabbiarci tutti. Voglio che vi arrabbiate tutti, voglio che vi alziate, adesso, andiate alla finestra e gridiate: sono fuori di me, sono fuori di me, sono fuori di me, e non lascerò che un miliardo di persone muoia di fame. Fatelo».
Ecco. Mi viene in mente un altro film, che ho visto in VHS, Quinto potere, dove c’era uno che aveva una trasmissione televisiva che a un certo punto perdeva la testa e si metteva a chiedere a chi lo guardava di andare alla finestra e di urlare: «Sono incazzato nero, e tutto questo non lo sopporterò più». E, nel film, la gente andava alla finestra e si metteva a urlare: «Sono incazzato nero, e tutto questo non lo sopporterò più». Non era per la fame nel mondo, in Quinto potere, era per un preavviso di licenziamento dovuto a indici di ascolto troppo bassi. E funzionava. Qui, invece, non so. La campagna è del maggio di quest’anno, io l’ho vista solo adesso, cinque mesi dopo. In questi cinque mesi non ho visto nessuno, affacciato alla finestra che urlava: «Sono fuori di me, sono fuori di me, sono fuori di me, e non lascerò che un miliardo di persone muoia di fame». Leggo in rete di «Una petizione mondiale – collegata alla campagna, che – fa appello ai governi affinché facciano dell’eliminazione della fame la priorità numero uno». Non mi sembra che la cosa sia successa. Forse è presto. Queste cose han dei tempi lunghi. Leggo anche che «martedì 27 maggio chi passeggiava per il centro di Roma è rimasto colpito dal suono di centinaia di fischietti provenienti dalla sede centrale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Numerosi i testimonial presenti: il rinomato calciatore Patrick Vieira, il velocista olimpionico Carl Lewis, oltre al Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf». «Alla manifestazione – c’è scritto più avanti – erano presenti i Lupetti e Lupette del Branco del Popolo Libero della sezione di Roma4 che hanno voluto partecipare alla protesta ed armati di fischietto e di facce arrabbiate, hanno dato il loro contributo nel far sentire questa voce che sperano non rimanga isolata».
Ecco. Sotto la finestra dove si può vedere il video c’è scritto che lo spot è stato girato in una suite del Lowell Hotel di New York. Vado nel sito dell’hotel, guardo quando pagherei se volessi prenotare una stanza per la notte del 12 novembre. Non so perché scelgo il 12 novembre. I prezzi sono questi: Lowell 1 king 845 dollari. Junior suite 1.095 dollari. Bedroom suite 1.595 dollari. De luxe bedroom suite 1.695 dollari. Lowel bedroom king 2.095 dollari.
Mi viene in mente un libro di Tolstoj, Che fare, il secondo Che fare della letteratura russa, uno dei libri di Tolstoj meno noti e meno tradotti. Io ne ho un’edizione del 1975, Mazzotta editore, traduzione dal russo di Luisa Capo. Lo vado a prendere, comincio a rileggerlo. Tolstoj parla di quando visita, a Mosca, il mercato di Chitrov, la zona più povera della città, e si mette a parlare con un contadino dal volto gonfio, con un vestito stracciato e i piedi nudi, ci sono otto gradi sotto sero, e gli offre una tazza di sbiten’, una bevanda calda a base di miele; dopo a Tolstoj si avvicina un giovane magro, con indosso solo una camicia, che trema ininterrottamente, e anche a lui Tolstoj offre una tazza di sbiten’; poi gli si avvicina un altro, poi un altro, poi un altro ancora e Tolstoj dopo un po’ è assediato da uomini laceri e infreddoliti che gli chiedono di offrire loro una bevanda calda o gli chiedono soldi. Quando Tolstoj torna a casa, «affondando i piedi nei tappeti della scala e dell’anticamera, mi tolsi la pelliccia e mi sedetti davanti a un pranzo di cinque portate che mi veniva servito da due lacché in frac, cravatta bianca e guanti candidi. Trent’anni fa, – continua Tolstoj, – avevo visto a Parigi decapitare un uomo con la ghigliottina, in presenza di migliaia di spettatori. Sapevo che si trattava di un pericoloso malfattore, conoscevo tutti i ragionamenti che gli uomini hanno messo per iscritto nel corso di tanti secoli per giustificare azioni di questo genere; sapevo che tutto veniva compiuto consapevolmente, razionalmente; ma nel momento in cui la testa e il corpo si separarono e caddero diedi in un grido e compresi, non con la mente, non con il cuore, ma con tutto il mio essere, che quelle razionalizzazioni che avevo sentito a proposito della pena di morte erano solo funesti spropositi e che, per quanto grande possa essere il numero delle persone riunite per commettere un assassinio e qualsiasi nome esse si diano, l’assassinio è il peccato più grave del mondo e che davanti ai miei occhi veniva compiuto proprio questo peccato. Io, con la mia presenza e con la mia passività, lo avevo approvato e ne ero stato complice. Nello stesso modo anche in questo caso, al cospetto della fame, del freddo e dell’umiliazione di migliaia di uomini, capii, non con la mente, non con il cuore, ma con tutto il mio essere, che l’esistenza a Mosca di decine di migliaia di simili sventurati – mentre io, con altre migliaia, mangio storione e filetti di pesce e ricopro i cavalli e il pavimento di panni e di tappeti – per quanto tutti gli studiosi del mondo possano dirmi che così dev’essere, è in realtà un delitto, non commesso una volte per tutte, ma perpetrato costantemente; io, con il mio lusso, non solo ne sono connivente, ma complice diretto».
Ecco. Adesso che ci penso ho ancora delle All Star. Nere. Tutte nere. È un po’ che mi vesto di nero. Snellisce.
[Dovrebbe uscire oggi su Gli altri]