Da una tinozza all’altra
Mi è venuto da pensare che se si volesse schiacciare, distruggere un uomo, infliggergli la più atroce delle punizioni, tale da fare inorridire e atterrire in anticipo anche il più feroce assassino, sarebbe sufficiente conferire al lavoro un carattere di totale, completa inutilità e insensatezza. Attualmente il lavoro dei forzati è sì noioso, privo di interesse per i prigionieri, ma di per sé è razionale: il deportato fabbrica mattoni, scava, intonaca, costruisce; un tale lavoro ha un senso, uno scopo. Capita che il lavoratore forzato ci prenda gusto e lo voglia eseguire meglio, con più abilità, con più efficacia. Ma se lo si costringesse, per esempio, a versare dell’acqua da una tinozza all’altra, e poi da quella alla prima, a tritare della sabbia, a trascinare un mucchio di terra da un posto all’altro, e poi di nuovo indietro, penso che il detenuto, dopo qualche giorno, s’impiccherebbe, oppure commetterebbe ogni sorta di reato pur di farla finita, pur di sottrarsi a quell’umiliazione, a quella vergogna, a quel tormento.
[Fëdor Dostoevskij, Memorie da una casa di morti, traduzione di Maria Rosaria Fasanelli, Firenze, Giunti 1994, p. 25]