Correre, la maratona e l’aldilà

giovedì 19 Marzo 2020

Ho avuto, qualche anno fa, un attacco ischemico transitorio. Non avevo neanche cinquant’anni. Ci siamo accorti, coi dottori, che ero iperteso, avevo la pressione alta. C’era il rischio di morire di ictus prima dei sessant’anni, mi han detto. Mi hanno consigliato di andare a correre, e, da allora, vado a correre, tutti i giorni. La maggior parte dei giorni mi sveglio la mattina mi dico: «No, non ce la faccio». Un’ora dopo sto facendo la doccia dopo aver corso otto chilometri. Non è divertente, è faticoso; certi giorni mi sveglio e il primo pensiero è: «Nooo, devo andare a correre». Ma, adesso che da anni lo faccio tutti i giorni, continuerei a farlo anche se si risolvesse il problema dell’ipertensione. Correre è una benedizione perché mi costringe, tutte le volte che vado, a mortificare la mia pigrizia; perché mi costringe, tutti i giorni, a essere presente e vivo; perché mi fa fare, tutte le mattine, una rivoluzione. Per questo, vado a correre. E siccome, correndo, non passo vicino a nessuno, non infetto nessuno, non do fastidio a nessuno, io, finché non me lo proibiscono, vado a correre, otto chilometri, tutti i giorni. Anche se dai balconi delle signore mi gridano delle cose che non capisco perché sto ascoltando, dentro le cuffie, una radio russa. Dopo c’è la questione della maratona: io farò una maratona. Credo. E la maratona, nella mia testa, è come l’aldilà: io, quando finirò una maratona, e la finirò, credo, sarò così contento come non sono mai stato nella mia vita. Piangerò così tanto. Credo.