Chilometri

lunedì 27 Ottobre 2008

È uscito ieri sul manifesto un pezzo sul libro di Giovanni Maria Bellu L’uomo che volle essere Peròn.
Io l’avevo intitolato Chilometri sardi, la redazione del giornale l’ha intitolato Tra la Sardegna e il Caucaso, e, a vederlo impaginato, con una foto di Orgosolo degli anni cinquanta (di Guglielmo Coluzzi) che io quando l’ho vista ho pensato che fosse un contadino caucasico, mi sembra che il loro titolo ci stia molto bene. Lo metto qua sotto (è un po’ lungo).

Chilometri sardi

Ho saputo del libro di Giovanni Maria Bellu L’uomo che volle essere Peròn (Milano, Bompiani 2008, pp. 356, 19 euro) quest’estate, in Sardegna, all’Argentiera, dentro un piccolo festival che si chiama Sulla terra leggeri, dove una sera, su una piazza antistante una miniera dismessa, Bellu ne parlava insieme a Marino Sinibaldi, e a me è subito venuto in mente il Caucaso.
Una delle cose mi piacciono, del Caucaso, è il fatto che la gente che ci vive, i cabardini, gli osseti, i ceceni, i georgiani, gli armeni, i circassi, gli abchasi, gli ingusci, i daghestani e anche gli altri, visti così da lontano, sembra che abbiano conservato, indipendentemente dai vari governi che si alternavano al potere in quella determinata regione, e dalle varie legislazioni alle quali, di volta in volta, quella regione era sottoposta, una legislazione parallela, ufficiosa ma più importante di quella ufficiale, una sovralegislazione che è rimasta invariata nel corso dei secoli e che forse deriva, detto volgarmente, da quello che i russi chiamano il byt, cioè dalla vita quotidiana, dalla pratica, dall’uso; si è sempre fatto così, si è sempre pensato così e si continua a fare così e a pensare così sia sotto lo zar che sotto il governo sovietico che sotto quella roba lì che c’è adesso.

È la stessa differenza, mi sembra, detto così volgarmente, che c’è tra lingua e dialetto. La lingua è soggetta alle mode, alle influenze esterne, al potere, all’attualità, alle cosiddette contaminazioni, il dialetto, come si sa, molto meno, è più conservativo e rimane, per quelli che, in Italia, ancora lo conoscono, la lingua del sentimento, quella che ci soccorre nel momento in cui ci succede qualcosa di brutto. Quando ci cade qualcosa su un piede, per dire, è più facile che ci esca un’esclamazione in dialetto, che in italiano.
Ed è una lingua, il dialetto, che, detto così brutalmente, ha in sé anche una specie di guida morale, è una lingua che un po’, se la usi, ti insegna anche a stare al mondo, o per lo meno vorrebbe insegnartelo, se si capisce quello che dico.
Il polacco Jan Potocki, l’autore del celebre Manoscritto trovato a Saragozza, nel suo Diario dell’Asia, scritto alla fine del 700 e recentemente ripubblicato in Italia nella traduzione di Paolo Fontana (Milano, Medusa 2007, pp. 221, 20 euro), a un certo punto scrive: «In questi giorni ho incontrato anche una principessa cecena giunta ad Astrakan a causa dei rischi della guerra. È molto bella e ben educata a suo modo, vale a dire che sa il turco come lo si parla nel Širvan; non riesce tuttavia a liberarsi dai pregiudizi del suo popolo. Ritiene che un paese in cui non si ruba per strada abbia sempre qualche cosa di monotono e di noioso e un fazzoletto rubato le fa più piacere che se le venisse comperata una collana di perle. Dice che sin dall’inizio dei tempi i principi della sua casa hanno sempre rubato sulla strada per Tiflis o su quella per Tarku e che per nulla al mondo vorrebbe che i suoi parenti e i suoi amici sapessero che lei ha sposato un uomo che non vive di rapine. Questi sono i costumi del Caucaso, ai quali bisogna aggiungere un grande disprezzo per la vita, un grande rispetto per l’ospitalità e l’amicizia, con un’estrema predisposizione alla menzogna e alla perfidia, eccetto che a danno dei propri amici che non è permesso ingannare».
Quasi due secoli dopo, Fazil Iskandèr (se non ricordo male i miei amici russi lo pronunciano così, con l’accento che cade sulla e grave dell’ultima sillaba), il più noto scrittore abchazo contemporaneo, nel suo Sandro di Čegem (Torino, Einaudi 1998, 606 pagine, la copia che ho io costava 38.000 lire e credo che adesso il libro sia fuori catalogo), scrive che in Abchazia, se uno ha un bel cavallo e si vuol vantare con gli amici del suo cavallo, deve dire che lui quel cavallo lì l’ha rubato, e se poi si scopre che invece l’ha comprato quello lì, per la società abchaza, è finito, un reietto, cancellato dal novero delle persone per bene.
E in un altro libro ambientato in Abchazia non ancora tradotto in italiano, Sofička (in Nočnoj vagon, Mosca, Panorama 2000, pp. 315-449), o forse in uno dei due libri di Iskandèr usciti in Italia per Sellerio, La costellazione del caprotoro, 1988, 212 pp., su Internet Bookshop costa 5 euro e 78, e Oh, Marat!, 1989, 110 pp. su IBS costa 2 euro e 58 (mi scuso ma i libri di Iskandèr che ho letto li ho letti tutti in fila, tendo a confonderli uno con l’altro ne approfitto comunque per consigliarli, che sono incantevoli e alcuni costan pochissimo), in uno di questi libri Iskandèr racconta che nel periodo sovietico le rigide gerarchie sovietiche in Abchazia erano sottomesse al tradizionale culto dell’anzianità, ragione per cui i superiori, se erano più giovani, non potevano permettersi di dare ordini agli inferiori più vecchi, dovevano pregarli di fare le cose.
Allora quando Bellu, alla domanda di Sinibaldi su come mai, in un periodo così confuso, la Sardegna vivesse, nel campo della musica e della letteratura, un momento così felice, ha risposto che era una cosa che da dire era difficile ma che forse c’entrava il fatto che i sardi, anche quelli che avevano lasciato l’isola, avevano comunque dentro di sé un universo di riferimento, e che lui, per esempio, che abita a Roma da un sacco di tempo, quando esce da Roma e si trova all’altezza, non so, adesso non mi ricordo, di Civitavecchia, poniamo, è come se fosse arrivato ad Arasolè, perché le unità di misura che si porta con sé, dovunque vada nel mondo, son quelle lì, sarde, i chilometri che percorre Bellu son sempre chilometri sardi, io allora ho pensato che la stessa cosa succede anche a me con i libri, che ho studiato letteratura russa e quello che leggo, anche quando leggo dei libri italiani, o americani, leggo poi sempre dei russi.
Allora per quello, io credo, mi è venuto in mente il Caucaso, e poi a sentir raccontare la storia del libro, la storia di Giovanni Piras e di Juan Peròn, mi è venuta voglia di leggerlo solo che poi quando l’ho letto mi sono accorto che la storia raccontata nel libro non è la storia di Giovanni Piras e di Juan Peròn. Cioè, c’è anche quella, ma non è quella.
Quella è una storia che uno che legge, quando sente che a Mamoiada, in Sardegna, c’è, ancora oggi, un gruppo di peronisti, cioè di persone che sono convinte che Giovanni Piras, un povero contadino di Mamoidada emigrato nel 1909 in Argentina, abbia a un certo momento cambiato nome e nazionalità, e da Giovanni Piras si sia trasformato nel Teniente general Juan Domingo Peròn, tres veces presidente de Argentina, lìder de los descamisados, fundador del Justicialismo, uno che legge, dicevo, quando poi viene a sapere che dei primi anni di vita di Peròn non si sa niente, non ci sono testimonianze né fotografie, e quando poi sente la dichiarazione che Peròn, dal suo esilio di Madrid, fece a Epoca, settimanale italiano, dove disse che nelle sue vene scorreva sangue sardo, e che lui era vendicativo come i suoi antenati, e quando alla fine, in sequenza, uno dopo l’altro, Bellu gli fa passare sotto gli occhi sedici indizi di questo tipo, che avallerebbero la tesi dell’identità tra Piras e Peròn, uno che legge, dicevo, vuole sapere come va a finire.
E quando il personaggio che racconta le storie che si trovano dentro il romanzo, che è un giornalista sardo che lavora a Roma, e che è tornato a Cagliari in congedo per lutto, è morto suo babbo, quando questo giornalista torna a Roma e va al giornale a proporre di scrivere un pezzo su questa storia di Piras e Peròn, e quando dal giornale gli dicono di provarci, uno che legge è contento, l’indagine può proseguire e il giallo promette una soluzione.
Solo che poi tutto finisce in un modo che questo pezzo non sarà scritto, perché non c’è materiale sufficiente, e allora a chi legge sembra che la storia di Piras, che è bella, e stranissima, sia una stranissima e bella carota che pende davanti agli occhi del lettore per 300 pagine.
E alla fine, oltre allo stupore per la capacità figurale della scrittura di Bellu (io, dei mamuthones, per esempio, avevo sentito parlare molte volte, e li avevo visti, anche, sui giornali, delle belle fotografie, ma li ho visti davvero, ho avuto gli occhi pieni di loro solo in questo libro di Bellu, a pagina 164), alla fine c’è lo stupore di verificare come una storia stranissima e bella ma che non è sufficiente per scrivere un articolo di giornale, è più che sufficiente per scrivere un romanzo di 356 pagine. Ma non da sola.
Perché la sostanza del libro, mi sembra, è la storia di quell’universo di riferimento di cui parlava Bellu all’Argentiera, è la storia di una lingua del sentimento, è la storia di una sovralegislazione più importante della legislazione vigente, una sovralegislazione che in Sardegna prevedeva, per esempio, la figura della S’accabbadora, la terminatrice, che interveniva quando «l’inutilità sociale, la debolezza, la sofferenza arrivavano con la malattia», e allora arrivava anche S’accabbadora a portare quella che in italiano si chiamerebbe eutanasia: «i parenti se ne andavano, e lei restava sola col moribondo e la mazzetta».
E nel libro di Bellu questa lingua del sentimento, questa sostanza, questo universo sovralegislativo, è rappresentato massimamente dal babbo di quello che racconta le storie, un avvocato, un fascista non pentito, un uomo che ogni due per tre, guardando il mondo intorno a sé, diceva: «Roba da chiodi»; la sostanza del libro, mi sembra, è nelle parole di quest’uomo, nei suoi «Roba da chiodi», nel suo «Come osa?» detto a un preside imbecille che lo ha convocato perché suo figlio si è rifiutato di fare la spia.
A un certo punto il giornalisa ricorda il se stesso sedicenne, che di Peròn sapeva «giusto quanto bastava per collocarlo all’interno della Città planetaria degli orrori ispanici il cui sindaco all’epoca era ancora Francisco Franco Bahamonte, el caudillo de España, il responsabile morale della morte di García Lorca, l’aguzzino che portava avanti, con la garrotta, l’opera avviata qualche secolo prima da Torquemda e proseguita – come sosteneva il mio guru Silvano Mannu, che aveva “fatto il Sessantotto”, come avrebbe ripetuto per tutta la vita fino alla nausea – dai servizi segreti degli Stati Uniti che avevano ucciso in Bolivia Che Guevara e poi, per confondere le idee, avevano mandato l’uomo sulla Luna»; quel se stesso sedicenne, quando diceva queste cose a suo babbo, si sentiva rispondere che erano “Sciocchezze da ragazzini”, e a uno che legge vien da pensare che forse, mettere insieme Garcia Lorca, Che Guevara, Peròn, i servizi segreti degli Stati Uniti e l’uomo sulla luna, magari eran davvero sciocchezze da ragazzini.
Ecco, la cosa che per me è veramente inspiegabile, dell’Uomo che volle essere Peròn, è il fatto che, a pensarci, questo libro non dovrebbe piacermi, perché ha tutte le caratteristiche di alcuni libri che si scrivono oggi, di molti dei libri che scrivono oggi quelli che son stati di sinistra trent’anni fa, ha tutti i ripensamenti e le correzioni di tiro che sono di moda, c’è anche un fascista che fa bella figura, come si usa adesso, e a me, questo uso, di solito dà un grande fastidio, invece qui dentro non mi dà fastidio per niente.
E io credo che sia per il fatto che questo è un libro non premeditato, è un libro che è venuto fuori da solo, non è una confessione, non è un’autocritica, non è un libro che è fatto per allinearsi a un nuovo allineamento che ha sostituito il precedente; questo libro, mi sbaglierò, ma a me sembra sia un libro che ha travolto il suo autore, che non l’ha né potuto né voluto controllare.
Perché in fondo, alla fine, secondo me, la vera storia raccontata da Bellu è una storia tutta diversa, che non c’entra né con Piras, né con Peròn, né col fascismo, né col non sessantotto, né coi servizi segreti degli Stati Uniti, è una storia che si può raccontare su nessun giornale, è una storia talmente banale che prima o poi capita a tutti, o quasi, ma che tutti, o quasi, prima che capitasse a loro, non avevano concepito come possibilità, è la storia del vuoto che si allarga nella tua testa quando ti muore il babbo. E tirar fuori da questa storia un romanzo, davvero, è una cosa ammirevole.