Belle arti

domenica 11 Ottobre 2009

de-quincey

Thomas De Quincey – già il nome è lievemente improbabile, nobilmente mistificatorio; è un nome «rotondo», che si pronuncia un po’ troppo felicemente, un nome al vocativo, qualcosa come Gabriele D’Annunzio, o don Ramòn del Valle-Inclàn; nomi così fatti vanno tenuti d’occhio, i nostri sordi cognomi da marciapiede si ribellano. Non sono certo che quel «De» fosse assolutamente autentico e fededegno, ma mi rifiuto di verificare; in ogni caso, sarebbe anche peggio: quell’uomo amava il suo cognome, forse per amor suo sarebbe stato capace di compiere un falso, in breve, un «delitto». Che De Quincey fosse dotato di inclinazioni criminali è ovvio, dato che, dal peccato originale, e forse anche prima, non v’è uomo che non lo sia; ma che egli fosse capace di godere, di dilettarsi di coltivare, di assaporare, di sfoggiare con onesto orgoglio il suo amore per il crimine, questo appunto appartiene alla sua figura magica e maligna di scrittore.De Quincey fu «scrittore» nel senso più assolutamente letterale: era un essere fondamentalmente umano che sapeva «scrivere» – non raccontare, non pensare, non argomentare, non concludere, ma «scrivere», disporre e articolare proposizioni in modo tale che esistessero, agissero, fossero quel fantasma drammatico ed enigmatico che è una proposizione «scritta», da due a trenta parole che hanno il marcio di Caino, il segno della «letteratura»». De Quincey, questo sectator di Caino, fu un rètore. Perché mai il passato remoto? Un rètore si consuma tutto nelle sua frasi, e le sua frasi sono eterne. La parola rètore ha un cattivo suono, vero? Un suono pessimo. Un suono perfido e sleale. Difficile trovare più pertinente al caso De Quincey.

[Giorgio Manganelli, Introduzione, in Thomas de Quincey, L’assassinio come una della belle arti, traduzione di Luigi Brioschi, Parma, Guanda 1999-2009, p. 5]