Protesto
Il protagonista di Cuore di cane, romanzo scritto nel 1925 e uscito, in Unione Sovietica, solo nel 1987, è un andrologo e ginecologo russo che si chiama Filip Filipovic Preobrazhenskij e che, nella Russia sovietica, ha la sfacciataggine di dire: «A me non piace il proletariato».
Il suo autore, Michail Afan’asevic Bulgakov, mi fa venire in mente una cosa che ha scritto Viktor Škovskij negli anni venti del novecento, che «la bandiera dell’arte non può mai riflettere i colori della bandiera che sventola sulla cittadella del potere».
Bulgakov è uno che, nel 1930, scriverà a Stalin: «Passando in rassegna i miei ritagli di giornale, ho constatato di aver ricevuto dalla stampa sovietica, nei dieci anni della mia attività letteraria, 301 recensioni, di cui 3 favorevoli e 298 ostili e ingiuriose. Aleksej Turbin, protagonista del mio dramma I giorni dei Turbin, è stato definito sulla stampa un “figlio di cane”, mentre l’autore è stato presentato come un “vecchio cane rimbecillito dall’età”. Hanno scritto di me come di uno “Spazzino della letteratura”, che raccatta gli avanzi “vomitati da una dozzina di commensali”.
Hanno affermato che mi piace “L’atmosfera da accoppiamenti canini che aleggia intorno alla rossa moglie di un mio amico”, e che il mio dramma I giorni dei Turbin “Puzza”, e così via».
Tra le cose di Bulgakov destinate a ricevere un’accoglienza non proprio favorevole, in epoca sovietica, c’è un romanzo intitolato Il Maestro e Margherita, che Bulgakov finirà di scrivere nel 1940 e che sarà pubblicato solo negli anni sessanta, più di vent’anni dopo la morte di Bulgakov, il cui primo capitolo, intitolato Non parlate mai con gli sconosciuti, comincia in una via del centro di Mosca, la Malaja Bronnaja.
Ci son due signori che, camminando verso gli stagni Patriarshie, parlano dell’inesistenza di Gesù Cristo, poi arrivano agli stagni e si fermano a un chiosco di bevande e chiedono alla signora che lo gestisce dell’acqua minerale, e l’acqua minerale non c’è; allora le chiedono della birra, e la birra non c’è; allora le chiedono cosa c’è, e lei risponde che c’è del succo d’albicocca.
E loro scelgono due succhi di albicocca, e lei apre i succhi di albicocca e si sparge nell’aria un odore che in russo è «parikmàcherskoj», che io nella mia testa l’ho sempre tradotto “di pettinatrice”, che era il modo di mia nonna di chiamare le pettinatrici; che l’altra gente, a parte mia nonna, credo le chiamassero le parrucchiere.
E poi i due ricominciano a parlare dell’inesistenza di Gesù Cristo e un signore straniero, che gira da quelle parti con una giacchetta a quadri e un gatto enorme che si chiama Begemot, che in russo significa ippopotamo, e che monta sugli autobus, il gatto, il signore, dicevo, che è molto gentile, si scusa, e dice che non ha potuto fare a meno di ascoltare la loro conversazione e, gli dispiace, ma i signori si sbagliano, Gesù Cristo è esistito.
E dopo un po’ salta fuori che quel signore lì è stato a colazione con Kant, anche se Kant è morto da più di un secolo, perché lui, quel signore lì, è il diavolo, cioè «Parte di quella forza che eternamente vuole il male e eternamente compie il bene», come dice l’epigrafe, che è presa da Goethe.
E quando un aiutante del diavolo, che si chiama Korov’ev, va con Azazello, un altro della brigata diabolica, nella sede dell’unione degli scrittori e prova a entrare, e una donna lo ferma e gli chiede «Siete scrittori?», e lui risponde «Certo», e lei gli chiede le tessere, lui allora le dice «Ma per convincersi che Dostoevskij è uno scrittore, ha per caso bisogno della tessera? Prenda un suo libro qualsiasi e ne legga cinque pagine e lo capisce subito, che è uno scrittore. Secondo me Dostoevskij non ha mai avuto tessere», dice Korov’ev.
E quando la signora gli dice «Lei non è Dostoevskij», Korov’ev le chiede «Come fa a saperlo?». E quando lei gli dice «Dostoevskij è morto», «Protesto!», dice Korov’ev, «Dostoevskij è immortale!».
E quando poi il diavolo, che si chiama Woland, incontra, sul tetto di un bellissimo edificio del centro di Mosca che diventerà poi pare ella biblioteca Lenin, un inviato di Dio, Levi Matteo, ex assessore delle imposte, che lo tratta male, e non lo saluta, e lo chiama Spirito del male, il diavolo allora gli chiede «Se sei venuto da me, perché non mi hai dato il buongiorno?». E Levi Matteo gli risponde «Perché non voglio che il tuo giorno sia buono». E allora il diavolo dice: «Parli come se non conoscessi le ombre, e neppure il male. Ma cerca, se puoi, di meditare su questa domanda: che mai farebbe il tuo bene, se non esistesse il male, e come apparirebbe la terra, se scomparissero le ombre? Gli uomini, le cose, proiettano ombre. Guarda l’ombra della mia spada. E ci sono le ombre degli alberi e degli esseri vivi. Vuoi scorticare tutto il globo terrestre, togliendogli tutti gli alberi, tutti gli esseri vivi, per la tua fantasia di godere della nuda luce? Tu sei uno stupido».
E questo diavolo, protagonista di un romanzo, scritto nell’atea Unione Sovietica, in cui si afferma l’esistenza storica di Gesù Cristo, è uno dei personaggi più belli del novecento, secondo me, e quando son stato a Mosca per la prima volta, nel 1991, il primo posto che ho cercato è stato la Malaja Bronnaja, e gli stagni Patriarshie, e negli stagni l’acqua era ghiacciata, e c’eran dei bambini che giocavano a hockey e mi sembravan bravissimi e mi era sembrato, me lo ricorderò sempre, un’allucinazione, probabilmente, ma mi era sembrato di sentire odore di pettinatrice e avevo pensato che io, nella mia vita, se non avessi letto quel romanzo lì di Bulgakov, non avrei mai riconosciuto l’odore di pettinatrice e mi è venuto su un senso di riconoscenza che mi faceva piangere.
E l’ultima volta che ci son stato, nel 2017, ho cercato il chiosco di bevande per bere un succo di albicocca e non l’ho trovato, ho trovato invece un cartello, uno di quelli rotondi, cerchio rosso su fondo bianco, con una striscia rossa nel mezzo, un divieto, e in nero c’eran le sagome che definivano cos’era vietato ed erano un signore straniero elegante, il suo scudiero, Korov’ev, e un gatto enorme, come un ippopotamo, e sotto c’era scritto che «È vietato parlare con gli sconosciuti», in quella piazza di Mosca.
E di fronte al cartello, avevo saputo poi dopo, c’eran montate delle telecamere perché quel cartello, i primi quattro anni che era stato montato, l’avevan rubato sei volte, per quello forse quando ci andrete, se mai ci andrete, forse non lo trovate, ma sappiate che dicono che c’è stato, e lo dico anch’io.
[uscito ieri sulla Verità]