Il romanzo dell’autore
In un libro memorabile del 1978, Mi ricordo, di Georges Perec, c’è scritto: «Mi ricordo la fatica per capire cosa volesse dire l’espressione “senza soluzione di continuità”». E in un libro memorabile del 1975, Factotum, di Charles Bukowski, c’è scritto: «Trovai lavoro in un magazzino di pezzi di ricambio per auto dietro Flower Street. Il direttore era un uomo alto e brutto senza culo. Tutte le volte che scopava la moglie me lo raccontava la mattina dopo. “Ieri sera ho scopato mia moglie. Prima l’ordine dei William Brothers”. “Non abbiamo più flange K-3”. “Ségnalo”. Lo segnai sulla distinta e sulla fattura. “Ieri sera ho scopato mia moglie”» (la traduzione è di Marisa Caramella). Questi due libri mi son venuti in mente intanto che leggevo Works, di Vitaliano Trevisan, un «romanzo autobiografico» (così in quarta di copertina) da poco uscito per Einaudi stile libero. Il libro di Bukowski mi è venuto in mente perché Chinaski, il protagonista di Factotum, come il protagonista del libro di Trevisan racconta una serie di lavori strampalati che gli capita di fare prima di trovare il modo di guadagnare scrivendo. Le differenze tra i due libri, però, sono evidenti, prima tra tutte il fatto che Factotum, nell’edizione che ho io, SUGARCo 1981, è 166 pagine, mentre Works di pagine ne ha 651, ma questa può essere una differenza quantitativa, superficiale; una differenza più sostanziale è forse nel fatto che il protagonista di Bukowski si chiama Chinaski, mentre il protagonista di Trevisan è lui stesso, Trevisan, che però quando parla di sé non dice quasi mai «io», dice «l’autore». «Al tavolo, oltre all’autore, ovvero chi scrive, la regista e la coproduttrice; il di lei giovane figlio, /…/ il di lui giovane figlio», si legge a pagina 9. Un po’ più avanti, a pagina 452, quando parla del fratello di sua moglie, Trevisan (o, meglio, l’autore) scrive che suo cognato diceva spesso «Noi imprenditori. Un giovane imprenditore come me, anche questo gli avevo sentito dire più di una volta, e sempre mi veniva da ridere, a sentirlo usare quella parola in riferimento a se stesso». Ecco, a me, devo dire, è venuto da pensare che è stranissimo, che Trevisan non abbia riso almeno un po’, all’idea di aver scritto un romanzo (autobiografico) di 651 pagine il cui protagonista, quando si riferisce a se stesso, scrive «l’autore», e lo scrive con la distanza che inevitabilmente si crea quando si ha a che fare con un «autore», distanza che dà alla lingua di Trevisan un registro stranissimo, quasi burocratico, tanto che una delle sue espressioni preferite è «Senza soluzione di continuità», che è un’espressione che io, prima di questo Works, non ricordo di aver trovato in nessun romanzo italiano, e che mi sembra più adatta a una prosa giornalistica o a una radiocronaca che a un romanzo autobiografico. Continua a leggere »