Arrivederci

sabato 1 Settembre 2018

«Social Network» è un’espressione che è entrata recentemente nell’uso italiano, e che io credo di sapere cosa vuol dire, perché la uso, ma in realtà non lo so benissimo. Ci sono queste espressioni che ci circondano, che usiamo anche noi, ma delle quali non conosciamo bene il significato, come l’espressione «Startup», che io credo voglia dire un’azienda che comincia, ma non son proprio sicuro che valga per tutte le aziende, e quando, qualche anno fa, hanno aperto sotto casa mia un’agenzia di pompe funebri, io per un po’ di tempo, ho avuto la tentazione di entrare e di chiedere: «Scusate, voi siete una startup?»; poi non l’ho chiesto e l’agenzia di pompe funebri ha chiuso adesso non farei più in tempo.
Diversamente dalle Startup, però, io coi social network, ho a che fare, li uso, ho un blog, ho un account su Facebook, uno su Twitter e uno su Instagram, e posso provare a dire quel che mi sembra da quello che vedo, senza pretendere di arrivare a una definizione esaustiva. Comincerei da Facebook.
Qualche anno fa, quando ero appena entrato su Facebook, era un periodo che tutti parlavan di Facebook e molti ne parlavano male, come succede spesso con le novità, e io avevo letto un’intervista a un esperto di Social network (o di social media, che devono essere i social network su internet), che lui diceva una cosa che all’epoca mi era sembrata sensata, che Facebook non era né buono né cattivo: che era un po’ come l’elenco telefonico, che poi dipendeva da te, se usarlo bene o male. Adesso, dopo un po’ di anni che lo uso, io credo che Facebook, che è tante cose insieme, sia un po’ diverso, dall’elenco telefonico, perché l’elenco telefonico, che a me piace molto, è una di quelle cose che son state utilissime e adesso non valgon più niente e portano, nella loro storia, un’idea di rovina che a me sembra bellissima, ma l’elenco telefonico, a me, per esempio, non mi ha mai detto che una che una cosa che dicevo io, per telefono, era bella; invece su Facebook, come sanno tutti quelli che usano Facebook, la differenza tra Facebook e l’elenco telefonico è che Facebook, lui, se tu metti per esempio una foto, su Facebook, o se scrivi una storiella, dopo pochi minuti c’è un po’ di gente che ti dice «Mi piace!».
Ecco, Facebook, diversamente dall’elenco telefonico, lui ha quella caratteristica lì che ti dice che tu piaci alla gente. Che è una cosa, come se fosse una macchina che, nel corso di una giornata, ti fa entrare dentro la casa centinaia di persone che ti dicono «Mi piaci!».
Detta così, non c’è molto da stupirsi, del successo di Facebook.
Io mi ricordo, quando ero piccolo, mi ero molto meravigliato quando avevo scoperto che non tutti mi volevano bene; mi sembrava una cosa stupefacente e un po’ ingiusta. Credo sia per quello che ho fatto un po’ delle cose che ho fatto, ma questo è un altro discorso, quello che volevo dire è che ci sono dei Social media, come Facebook, per esempio, che tutti i giorni ti dicono che c’è qualcuno, che magari tu non conosci neanche, che, in un certo senso, ti vuol bene. O che dice di volerti bene. Che non è la stessa cosa ma a te basta, se te la fai bastare.
Un mio amico, quando ha saputo che dovevo scrivere una serie di articoli sui Social network, mi ha girato un video di un comico americano, che si chiama Anthony Jeselnik, che dice che, quando succede un disastro, quelli che intervengono sui social Network per dire che i loro pensieri e le loro preghiere vanno alle vittime, in realtà non dicono quello (cosa se ne fanno, le vittime, dei loro pensieri e delle loro preghiere?). In realtà dicono: «Ricordatevi di me. Anche in un giorno così complicato, con tante distrazioni, ricordatevi di me».
Non mi sembra sia, neanche questa di Jeselnik, una descrizione esaustiva, ma non so come dargli torto.
Io, da parte mia, sui Social network, sul blog, su Facebook e su Twitter, cerco di non parlare dei disastri e delle cose di cui parlano tutti, o quasi tutti, ma di parlare di cose di cui non sa niente nessuno e che non interessano a nessuno, come le mie insignificanti giornate.
Ultimamente, per esempio, ho postato (anche questo, «postare», è un verbo relativamente nuovo significa pubblicare, o qualcosa del genere, credo) cinque pezzetti che mi permetto di copiare qua sotto.
Il 20 agosto: «Quando devo tradurre, come in questi giorni, nei momenti che sono stanco e mi devo riposare, mi metto a scrivere. E quando devo scrivere, nei momenti che sono stanco e mi devo riposare, mi metto a tradurre. Come in quella frase di Manganelli: “Come staremmo bene qui, se fossimo altrove”».
Il 23 agosto: «Certi giorni ho la casa così in disordine che mi vien vergogna e allora la metto in ordine; ci metto qualche ora, e poi dopo, il mattino dopo, nella mia cucina pulita e ordinata, dentro una casa pulita e ordinata, mi viene in mente quella cosa che diceva Jurij Lotman che diceva che la vergogna è sintomo di intelligenza».
Il 25: «Vorrei raccontare il mio pomeriggio usando la tecnica dello storytelling. È stato, finora, un pomeriggio che sono stato in casa a tradurre. E usando la tecnica dello storytelling lo racconterei così: questo pomeriggio, finora, sono stato a casa a tradurre. Questo era il mio pomeriggio raccontato con la tecnica dello storytelling. Arrivederci».
Il 26: «Vorrei raccontare la mia mattinata con la tecnica del narratore onnisciente. Un signore di una certa età, che abitava in provincia di Bologna, una domenica mattina, dopo aver lavorato per un paio d’ore (traduceva dei libri) aveva pensato “Adesso voglio proprio andare a correre”. E aveva smesso di tradurre era andato a correre. Questa era la mia mattinata raccontata con la tecnica del narratore onnisciente. Arrivederci».
Il 27: «Vorrei raccontare il mio pomeriggio di ieri con la tecnica dell’io narrante in prima persona. Ieri sono stato allo stadio Dall’Ara, a Bologna, a vedere il Parma contro la Spal, e è stata una partita bruttissima e commovente. Prima che cominciassero a giocare, hanno suonato l’inizio dell’inno della serie A, e io mi son chiesto se piace a qualcuno, al mondo, l’inno della serie A. E mi son risposto che non lo so. E poi il Parma ha perso. E io mi son chiesto, prima che il Parma perdesse, prima ancora che andasse in svantaggio, come mai mi commuove, il calcio. E mi sono risposto che non lo so. E che mi interessa, un po’.E questo era il mio pomeriggio di ieri raccontato con la tecnica dell’io narrante in prima persona. Arrivederci».
Ecco. E se si considera che social network (sono andato a vedere) significa «qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali», anche uno stadio, potrebbe essere un social network. Anche un partito politico. Anche una scuola, Anche una famiglia. Ma noi ci concentreremo sui social media. E la prossima volta parleremo di Twitter. Arrivederci.

[Uscito ieri sulla Verità]

Niente, Qualcosa, lunatici e rompicoglioni

sabato 30 Giugno 2018

L’altra volta abbiamo detto che, per scrivere una cosa che valga qualcosa, servono urgenza e disperazione, e abbiamo detto che questa settimana avremmo dato dei consigli per provocarle: cominciamo dalla disperazione.
Una volta una signora, alla presentazione di un libro, mi aveva chiesto, con tono dispiaciuto: «Ma perché lei scrive così?».
L’accento cadeva sul «Così», e era stata una domanda che mi aveva fatto piacere, perché voleva dire che era un «così» che la metteva in difficoltà e, se una cosa che hai scritto mette qualcuno in difficoltà, non è detto per forza che sia un brutto segno.
Con un gruppo di una cinquantina di persone, da tre anni circa, stiamo provando, a Bologna, a fare una rivista.
Ci troviamo, per farla, una volta ogni due mesi in una saletta al primo piano della Biblioteca Salaborsa. All’inizio avevamo pensato di chiamarla Niente, la rivista, perché ci piaceva poter rispondere, a chi ci chiedesse «Dove stai andando?», «A far Niente».
Poi, fare Niente si è rivelato un compito al di sopra delle nostre forze e ci siamo trovati, qualche mese dopo, a immaginare un’altra rivista, che adesso, è incredibile, uscirà veramente, e si chiama Qualcosa.
Qualcosa sarà una rivista che, anche se pubblicata da una casa editrice romana, che si chiama Sempremai, avrà un cuore emiliano, se così si può dire, e sarà una rivista che deriva da due altre riviste della fine del secolo scorso e dell’inizio di questo, Il semplice e L’accalapiacani, che si facevano una a Modena e l’altra a Reggio Emilia, la prima guidata da Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, la secondo con la collaborazione, tra gli altri, di Daniele Benati e Ugo Cornia.
Celati, Cavazzoni, Benati e Cornia hanno diffuso, anche attraverso le cose che hanno scritto sul Semplice e sull’Accalappiacani, una poetica che viene riconosciuta come la poetica dei cosiddetti lunatici, che è una poetica che ha portato a grandi libri, ma che, alla fine, dopo tanti anni, come etichetta, come forse tutte le etichette, ha l’effetto, un po’, di depotenziare quello a cui viene appiccicata.
Un discorso, se diventa il discorso di un lunatico, è un discorso che sì, è divertente, o anche molto divertente e, essendo divertente, o molto divertente, non è una cosa da prendere sul serio, è da lunatico.
Io, tra l’altro, apro una parentesi, quando faccio una lettura in pubblico, e ne faccio tante, il commento che mi dà forse più fastidio, alla fine, non è «Ma perché scrive così?», è: «Molto divertente».
Mi viene un nervoso, quando sento dire che una cosa che ho scritto è «Molto divertente», che non riesco a spiegarlo, chiusa la parentesi.
Alla fine del primo numero di Qualcosa, quando uscirà, in settembre, ci sarà scritta una frase che dice «Noi non siamo lunatici, siamo rompicoglioni». Cioè siamo della gente che si propone, tra le altre cose, di dare fastidio (che era un po’ il compito che si proponeva, tra gli altri, lo scrittore austriaco Thomas Benhard, se non ricordo male).
Su Ivan Puni, che è uno dei grandi pittori della grande avanguardia Russia, un centinaio di anni fa Viktor Šklovskij ha scritto un pezzo che dice: «Ivan Puni è l’uomo timido per eccellenza. Ha capelli neri, parla piano, suo padre era italiano. Ho veduto di questi timidi sullo schermo cinematografico. È come un imbianchino che se ne va con una lunga scala sulla spalla. Modesto, silenzioso. Ma la scala urta i cappelli dei passanti, fracassa i vetri, ferma i tram, distrugge case. Puni invece dipinge. Se dovessimo raccogliere tutte le recensioni scritte su di lui in russo e spremerne il furore, si potrebbero raccogliere alcuni secchi di liquido molto corrosivo e inoculare con questo la rabbia a tutti i cani di Berlino. I cani a Berlino sono 500.000. Puni offende la gente perché non si beffa mai di nessuno. Dipinge un quadro, lo guarda, pensa: Io non c’entro, doveva essere fatto così. I suoi quadri sono irrevocabili e obbligatori. Puni vede lo spettatore, ma è organicamente incapace di tenerne conto. Accetta gli insulti dei critici come un fenomeno atmosferico» (la traduzione è di Maria Olsoufieva). Ecco, io credo che, per uno che scrive, l’atteggiamento da tenere, nei confronti della critica, sia quello di Puni, considerarla un fenomeno atmosferico, guardare fuori dalla finestra e pensare «To’, nevica», e rimettersi a lavorare. Credo però che sia una cosa impossibile. Quando il più grande scrittore russo di tutti i tempi, Aleksandr Puškin, era agonizzante, dopo il duello che l’avrebbe ucciso, sembra che gli abbiano chiesto se voleva dire qualcosa ai critici, e sembra che lui abbia risposto «Dite a quelli che hanno voluto ferirmi che ci sono riusciti», che è una risposta che mi sembra così bella forse perché è vera.
Un’altra domanda che fanno, ogni tanto, a chi scrive dei libri è: «Perché scrive?». Senza «così». «Perché scrive?». E basta. Che anche questa, uno poi può avere anche un buon carattere, ma se uno che ha letto un tuo libro ti chiede «Perché scrive?», è difficile che sei contento, dovrebbe essere evidente da quello che hai scritto, perché scrivi, secondo me.
Però fai finta di niente, e rispondi, e a me quando me l’han chiesto ho risposto «Per disperazione», che era vero, poi però, quando ho sentito la risposta che aveva dato Garcia Marquez, quando l’avevano chiesto a lui: «Perché la gente che mi vuole bene mi voglia ancora più bene», mi son ricordato di quando, da piccolo, ho scoperto che non tutti mi volevano bene, che mi era sembrata una cosa incredibile, e ingiusta, e mi ricordo, tanti anni dopo, nel 1999, quando stava per uscire il mio primo romanzo, non me lo dicevo chiaramente, ma, sotto sotto, io pensavo che l’uscita del mio primo romanzo avrebbe rimediato a questa ingiustizia, che sarebbe piaciuto a tutti e tutti avrebbero capito che bisognava volermi bene.
Ecco.
Non succede così.
Quindi: per la disperazione, non preoccupatevi, viene da sola.
Per l’urgenza, il primo romanzo che scrivete, se scriverete un romanzo, dovrete pensarci voi. Dal secondo in poi, voi firmate un contratto e poi, per i primi nove-dieci mesi non fate niente.
Cominciate a lavorare quando mancano quindici, massimo venti giorni alla consegna. Vedrete che l’urgenza, viene anche l’urgenza. Basta saperla aspettare.

[Uscito ieri sulla Verità]