lunedì 25 Luglio 2022
Nel nostro albergo c’era una coppia russa di Novgorod, erano venuti in vacanza a Pietroburgo, erano stupiti e contenti, di trovare un italiano. Eran due signori sugli ottant’anni, benestanti, antisovietici, che di quel che sta succedendo in Ucraina parlavano malvolentieri, o non parlavano, scuotevano la testa come per dire Chi l’avrebbe mai detto, forse non si fidavano, questi stranieri, ma parlavano molto volentieri dell’Unione Sovietica, che è, comunque, un’epoca che non rimpiangevano minimamente: «Sa», mi ha detto il marito, che si chiama Pëtr, e che è stato ingegnere civile, adesso è in pensione «in Unione Sovietica non c’era la carta igienica, si usavano i giornali». Lo sapevo. La carta igienica veniva considerata un bene di lusso, e dicono che la tiratura dei quotidiani sovietici venisse incrementata per far fronte anche a questa importante funzione. «Si raccomandavano», mi ha detto Pëtr, «di non usare le pagine con le fotografie dei membri del partito, e io invece usavo apposta la pagine con le fotografie dei membri del partito. Erano queste, le nostre soddisfazioni».
venerdì 25 Marzo 2022
ho fatto in tempo a vedere, l’Unione Sovietica che ho trovato bellissima, con i distributori automatici per le bevande gassate, guai al mondo se ne ho mai trovato uno che funzionava, o i telefoni pubblici che si chiamavano taksofony, o le scritte luminose sopra le case come Non permettete ai bambini di giocare con i cerini, o l’assenza completa di pubblicità, o una bibita gassata che si chiamava Crèmsoda, o i biglietti del teatro che costavano dei copechi, o la fila per comprare il pane, o la diffusione incredibile dei taxi abusivi, la gente che stava andando a casa da lavorare e se tu allungavi una mano si fermava e ti chiedeva dove dovevi andare e per pochi rubli ti ci portava e muoversi a Mosca, o a San Pietroburgo, sembrava facilissimo, e io, che a Milano o a Roma avevo sempre avuto dei problemi, mi sentivo a casa mia, o l’Amaretto di Saronno che i primi anni che andavo in Russia veniva considerato uno dei prodotti più pregiati dell’industria enogastronomica italiana, e c’erano anche delle imitazioni che io in Italia non avevo e non ho mai più visto, come l’amaretto di Verona, o l’amaretto di Milano
[Il pezzo sul venerdì di Repubblica sulla mia Russia sovietica (di cui questo pezzo sopra non fa parte) non doveva uscire oggi, come ho scritto ieri, ma venerdì prossimo, primo aprile, sono un pasticcione]
domenica 20 Marzo 2022
Non so quando potrò tornarci e non so se, quando succederà, la Russia che troverò sarà più simile a quella che ho lasciato, nel 2019, o a quella che ho incontrato per la prima volta nel 1991.
Nella mia Mosca del 1991 il cartello che ho visto più spesso, attaccato ai telefoni pubblici, ai distributori di bevande, era «Ne rabotaet», «Non funziona».
[Sul Venerdì di Repubblica di Venerdì 25 c’è un mio pezzo sulla Russia Sovietica]
sabato 28 Dicembre 2019
Nel 1995 mi sono trovato sulla piazza rossa di Mosca di fianco a un gruppo di turisti italiani che, guidati da una guida russa, stavano per andare a visitare le chiese del Cremlino. Siccome non le avevo mai visitate, ho chiesto alla guida se potevo unirmi al gruppo, e la guida, gentilissima, mi ha detto di sì e mi ha chiesto di dov’ero. «Sono italiano», le ho risposto io.
«Sì, avevo capito», mi ha detto lei, «ma italiano di dove?».
«Italiano di Parma», le ho detto io.
«Ah, Parma», mi ha detto lei, «che città meravigliosa!».
«C’è stata?», le ho chiesto io.
«No», mi ha risposto lei, «ma ho letto La certosa di Parma».
Tra le tante cose singolari che li caratterizza, una cosa singolarissima, dei russi, è il pregiudizio positivo che hanno nei confronti dell’Italia.
Aleksandr Puškin, che parla dell’Italia come di una terra beata, dove il cielo si colora di un indicibile azzurro, come di una terra magica, gioconda, ispirante, che scrive «Adriatiche onde! Oh, Brenta!», ecco, Puškin, il mare adriatico, il Brenta, e il cielo italiano, non li ha mai visti in vita sua, come la mia guida non era mai stata a Parma, ma anche russi che in Italia ci sono stati, come Nikolaj Gogol’, che in Italia ha scritto Anime morte, invece di essere delusi dal confronto tra la loro altissima opinione e la realtà vengono confermati, dall’incontro con i cieli italiani, nel loro pregiudizio positivo (Gogol’ definisce l’Italia è «la patria della mia anima»).
Lo straordinario pittore contemporaneo Vladimir Šinkarëv, per esempio, dice che in Italia è tutto così bello che lui, in Italia, non riesce a lavorare, l’unica cosa che riesce a fare è «pavoneggiarsi».
Uno dei libri che hanno contribuito maggiormente al pregiudizio positivo dei russi nei confronti dell’Italia è il libro di Pavel Muratov Immagini dell’Italia, uscito in origine nel 1911, e appena tradotto (per la prima volta) in italiano da Alessandro Romano, per la cura di Rita Giuliani, per Adelphi edizioni.
Muratov comincia da Venezia; sia la Venezia «delle fiumane di forestieri, dei tavolini davanti al Caffè Florian, delle botteghe con i loro articoli di vetro luccicante», degli «ingenui oggetti sfavillanti che nessuno penserebbe mai di vendere o acquistare fuorché a Venezia», sia la Venezia che si vede quando «alla ricerca di un nuovo Tintoretto o di un Carpaccio mai visti prima», ci si perde, su un ponticello, a inseguire l’acqua, che «misteriosamente calamita e inghiotte tutti i pensieri, così come inghiotte ogni suono, finché il silenzio più fitto non scende nel cuore» e con lo sguardo si vaga a lungo «in una verde distesa di tenui, ondeggianti riverberi». Qui, scrive Muratov «noi beviamo il vino dell’oblio, dolce e soave. Tutto quanto è rimasto alle nostre spalle, tutta la nostra vita precedente diviene un fardello leggero». Ecco. In questo libro singolarissimo, Venezia, Mantova, Ferrara, Bologna, Lucca, Firenze, Prato, Pistoia, Pisa, San Gimignano e Siena, le nostre città, quelle dove noi italiani abitiamo, quelle che attraversiamo tutti i giorni carichi delle nostre quotidiane preoccupazioni, sembrano un premio, una meta ambita e che ripaga di tante sofferenze e a me, che abito a Bologna senza meritarmelo, intanto che leggevo Muratov, è venuta voglia, più di una volta, di pavoneggiarmi, di metter su un atteggiamento come per dire: «Eh sì, son proprio italiano».
Lo scrittore russo meno russo di tutti, Ivan Turgenev, una volta ha scritto che quello che gli piaceva, dei russi, era la pessima opinione che avevano di sé stessi; ecco io credo che questa sia una cosa che noi italiani condividiamo con loro, abbiamo di noi stessi una pessima opinione. Il libro di Muratov mi sembra, a questo proposito, per un italiano, un libro balsamico, e benissimo ha fatto Adelphi a pubblicarlo in Italia. Come siamo belli! Come siamo importanti! Dante, il Trecento, il Quattrocento (un secolo che «amava la terra più d’ogni altra cosa» e «la cui essenza si riduce in una formula: ‘vivere nel mondo’»), ma che meraviglia! Ma siamo davvero così?
Anche le cose apparentemente negative, a ben guardare non lo sono, per Muratov: Ferrara «somiglia a un cimitero», ma «vien voglia di passare tra i suoi sepolcri con un senso di venerazione, a capo scoperto»; Pisa è una «città morta», ma, arrivato in piazza dei Miracoli Muratov scrive: «Nel mondo intero, è difficile trovare altro luogo dove la grazia del marmo sia ugualmente avvertibile»; «la piazza sembra essere stata creata in una notte, ex abrupto e in virtù di chissà quale prodigio: tanto per noi è difficile oggi comprendere il prolungato empito di energie artistiche, d’infinito orgoglio e di sommo vigore di cui i pisani dovettero dar prova all’epoca». Di Lucca, oltre a ricordare che la città compare nella prima frase di Guerra e Pace, («Eh bien, mon prince. Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, des поместья, de la famille Buonaparte»), Muratov dice che sembra una via di mezzo «tra una caserma e una prigione», e, se si sale sulle mura, vi si trovano i sognatori: «un operaio con una bottiglia di Chianti, un ufficiale e una signora malaticcia, una sfilza di bambine dell’orfanotrofio. Tutti fissano in lontananza – monti e valli che si perdono, azzurri, verso Firenze e verso Pisa, nel mondo grande e libero. Dopo l’eterna penombra, dopo l’umidità invernale delle vie anguste, quasi fessure, di questa piccola cittadina così simile a una prigione, deve essere un autentico piacere uscire sulle mura e fantasticare di un viaggio lontano, di libertà, di una vita piena e varia». Ma le due città che forse Muratov predilige sono Siena e Firenze: Siena, per Muratov, non ha mai smarrito «l’antica grazia e l’antica dignità, così come la gente senese non ha mai smarrito la gentilezza del cuore per cui è passata alla storia»; di Firenze Muratov trova «affinità tra la percezione di Firenze e l’impressione tratta dalla lettura della Divina Commedia: entrambe sono caratterizzate dalla medesima armonia – l’armonia di un albero rigoglioso –, dalla medesima chiarezza e compiutezza, dalla medesima, geniale levità malgrado l’imponenza». «Le pietre con cui è costruita Firenze – conclude Muratov – sembrano più leggere di quelle delle altre città».
La passione generata in Muratov delle opere d’arte che incontra nel suo viaggio in Italia meriterebbe un recensore più competente, ricordo qui soltanto la critica, che mi è sembrata chiarissima, alla scuola bolognese, all’ecclettismo dei Carracci e di Guido Reni, e il motivo per cui, secondo Muratov, a Bologna non ci sono opere d’arte all’altezza di quelle che si trovano in altre città italiane: «Questa città, dove da secoli la vita scorre in modo accogliente e gradevole, non ha avuto in sorte di compiere alcunché di grande. Bologna non ha mai attinto i culmini della creazione artistica, non ha dato all’Italia un genio, un santo o un eroe. Si è tentati di credere che i campi fecondi e i grassi pascoli dai quali la città è circondata abbiano impedito all’immaginazione di artisti e poeti di prendere il volo».
Solo un’ultima cosa: un capitolo del libro di Muratov è dedicato alla figura di Giacomo Casanova, con lunghe citazioni dalla sua biografia: Muratov ne parla così bene, delle Memorie di Casanova, che adesso mi tocca leggerlo; questo Immagini dell’Italia mi è così piaciuto, che mi tocca sorbirmi tremila pagine di Casanova, adesso. Eccomi servito.
[Uscito venerdì sul Venerdì di Repubblica]
venerdì 17 Ottobre 2014
1 Ci sono scrittori che della propria vita hanno fatto letteratura. Tu sull’ambiguità dell’autobiografismo hai costruito una carriera. Ma su una cosa non ci piove, quando avevi in uscita “La banda del formaggio” sei stato investito e ti abbiamo dato per morto. Tornato alla vita cosa è cambiato nel tuo lavoro?(non nella tua vita)
Dopo l’incidente facevo le stesse cose di prima, sia nel lavoro che nella vita, ma erano cose alle quali non ero più abituato, ed erano tutte un po’ stupefacenti, anche prendere un autobus (e, a pensarci, se in ospedale mi avessero chiesto Cosa vuoi fare quando esci?, io avrei risposto Prendere un autobus). E come Ermanno, il protagonista di questo libro, avevo l’impressione che quel che facevo tutti i giorni, dal mattino quando mi svegliavo alla notte quando andavo a letto, fosse estremamente importante e mi sbagliavo, perché io faccio una vita insignificante, ma era uno sbaglio che avrei voluto continuare a sbagliarmi finché stavo al mondo.
2 Te lo chiedo perché a me sembra che non sia cambiato né lo stile, né il flusso dei pensieri, né il ritmo. Eppure immagino che uno che è sopravvissuto a due brutti incidenti qualcosa di diverso la deve pure pensare. Oltre che essere dato in fin di vita giova alle vendite.
Credo che il picco della mia popolarità coincida con il giorno in cui si è diffusa la voce che ero morto e la cosa, non so perché, mi sembra molto sensata.
3 Perché hai abbandonato Learco per Ermanno, avevi bisogno di un altro alter ego?
Ho scritto sette libri nei quali chi parlava si chiamava Learco Ferrari. Ho smesso perché era diventato un impaccio, era come se mi obbligasse a star dentro dei pensieri che non eran più quelli intorno ai quali giravano le storie che volevo raccontare. Questo Siamo buoni se siamo buoni è il secondo nel quale parla Ermanno Baistrocchi e credo sarà l’ultimo, mentre mi sembra che potrebbe venirne fuori uno il cui protagonista sarà Cianuro, che qui è un personaggio secondario.
4 Nel tuo stile contano molto la punteggiatura e le ripetizioni. Alcune frasi sembrano delle filastrocche. Come funziona, quando scrivi ti leggi e rileggi? Cosa viene per te prima: il ritmo, il suono o la parola?
Vengono un po’ insieme; quando leggo, e quando scrivo, anche le mail e gli sms, e anche adesso, muovo le labbra, come quelli che non son capaci. È come se il significante (il suono) e il significato (il senso) vivessero insieme, e ogni minimo cambiamento dell’uno comportasse un cambiamento anche nell’altro.
[Intervista a Brunella Schisa, uscita oggi sul venerdì di Repubblica]