Due domande da Vanity Fair

mercoledì 28 Giugno 2017

– Che cosa significa per lei “viaggio” e questo suo modo di raccontare le città, ossia perché le racconta così?

Giorgio Manganelli una volta ha scritto che un viaggio non è fatto né dalla lunghezza né dalla durata, né dalle cosiddette meraviglie, cioè dai capolavori che può succedere di vedere. Un viaggio, secondo Manganelli, è fatto prima di tuTto da sé stesso. «È, – scrive Manganelli – uno spazio longilineo, dentro il quale, come in una fessura del pianeta, cadono immagini, profili, parole, suoni, monumenti e fili d’erba». Io, adesso, quest’anno, devo andare a Mosca tre giorni, da solo, per rivedere dei posti per i quali devo scrivere qualcosa per una guida del Touring, e sono già in smania da due mesi, all’idea di andare a Mosca, da solo, a vedere i fili d’erba degli Stagni dei Patriarchi, per cominciare.

– Ho letto tempo fa uno o due suoi racconti di città in cui è stato con sua figlia, soprannominata la Battaglia, ha voglia di regalarci un aneddoto di uno dei suoi viaggi con la Battaglia?

Il personaggio che parla dentro il libro a cui lei fa riferimento, che si intitola La piccola Battaglia portatile, non sono esattamente io, e la bambina, sua figlia, non è esattamente mia figlia, anche se un po’ credo di assomigliare a quel personaggio lì e credo che mia figlia un po’ assomigli alla Battaglia. La prima volta che l’io narrante di quel libro e sua figlia, la Battaglia, vanno in giro insieme, lui la racconta così:
«Allora, la Battaglia, la prima volta che siamo andati in giro insieme che dormivamo fuori in un albergo (era la prima volta che la Battaglia dormiva in un albergo in vita sua), è successo un paio di anni fa che siamo andati a Torino e quando siamo arrivati alla stazione di Torino Porta Nuova la Battaglia si è fermata davanti al tabellone delle partenze ha allargato le braccia ha detto «Che città meravigliosa». Quando poi siamo arrivati in albergo, a Torino, quella volta, mancava poco all’ora di pranzo io mi ero riposato un quarto d’ora lei intanto aveva ispezionato la stanza, ogni tanto mi portava a vedere una cosa che aveva trovato, le ciabatte di spugna, la cuffia per fare la doccia, il kit per cucire, e quando mi ero tirato su e le avevo chiesto «Andiamo a mangiare?», lei mi aveva riposto «Ma mangiamo qua, c’è anche il frigo».
Un’altra cosa, sempre da quel libro, che è successa in città, a Bologna, sulla via Emilia (un viaggio urbano, domestico, se così si può dire), lui la racconta così: «e mi era venuta in mente una volta che lei, eravamo in bicicletta, era ancora piccola, avrà avuto quattro anni, avevamo uno di quei seggiolini che si metton davanti, sul manubrio, io non la vedevo in faccia ma sentivo quel che diceva e a un certo punto l’ho sentita dire «Io non le voglio, le righe», e io, non capivo, quel che diceva, le ho chiesto «Che righe?», e lei mi ha detto «Le righe che ci son sulla faccia», e io ho capito che voleva dire le rughe e le ho detto «Ah, va bene, non c’è problema, ci son dei medici che ti addormentano, quando sei grande che cominciano a venirti le righe, ti taglian la faccia, ti cuciono che non si vede niente quando ti svegli hai una pelle liscissima che sei senza righe», le ho detto, e lei ha taciuto un po’ e poi alla fine mi ha detto «No, io le voglio, le righe».

[Dovrebbero essere uscite oggi, in occasione dell’uscita, domani, di Sei città, se non ho capito male]

L’inizio di una favola

mercoledì 23 Dicembre 2015

Una gallina di Poggio Bustone, si era stancata di far delle uova, voleva far l’università.
Voleva iscriversi a archeologia perché le piaceva l’idea di scavar nella terra e trovare dei pezzi di coccio che valevano un sacco di soldi e che poi, rivenduti, le avrebbero dato la fama («La famosa gallina archeologa di Poggio Bustone!»), e la ricchezza (voleva comprar quella villa arancione con il grande attico con vista sulla piana reatina e sul lago Lungo, la villa e il panorama più belli di Poggio Bustone).
Non avrebbe dovuto nemmeno far niente, nella sua testa, perché scavare, scavavano gli altri, tutti i famosi archeologi avevano dei manovali che scavavan per loro, lei avrebbe soltanto dovuto indicare un punto per terra e dire: «Coccodè».
I manovali avrebbero capito che quello era il punto dove cominciare gli scavi e lì sotto ci sarebbero stati i segni di un’antica civiltà di romani, o di celti, o di etruschi, o di sumeri, o di egizi, o di numidi, o di dalmati, o di mesopotamici, che i romani e gli etruschi, va bene, ma i celti i sumeri gli egizi i numidi i dalmati e i mesopotamici è vero, loro abitavano nei paesi celtici, in Šumer, in Egitto, in Numidia in Dalmazia e in Mesopotamia, che eran dei posti che con Poggio Bustone avevan poco a che fare, ma i celti i sumeri gli egizi i numidi i dalmati e i mesopotamici, anche loro, come noi, avevan le gambe, si potevan spostare, e chi dice che non avessero scelto di spostarsi a Poggio Bustone, nell’antichità?

[Questo è l’inizio di una favola sulla gallina archeologa di Poggio Bustone, favola che dovrebbe essere uscita oggi su Vanity fair]

La macchina per fare l’acqua

sabato 23 Agosto 2014

Se dovessi dire perché son stato ad Amsterdam, con mia figlia, che chiameremo convenzionalmente la Battaglia, direi che ci sono stato perché quattro anni fa, ero ad Amsterdam per conto mio, ero nel bar del museo Van Gogh, avevo guardato fuori, avevo visto un bambino biondo con una felpa rossa che piangeva, seduto per terra, con la schiena appoggiata a un muro di cemento armato, grigio intorno e il rosso del bambino ed era così bella, quella debolezza, quella fragilità, che il mondo, in quel momento lì, sembrava si fosse colorato di rosso, era come se quel bambino, con il suo pianto, avesse colorato il mondo e io, mi ricordo, avevo pensato che Amsterdam, forse, era un posto che sarebbe piaciuto alla Battaglia, e allora ce l’ho portata insieme a sua mamma anche se poi, a lei e a sua mamma il museo Van Gogh non è piaciuto tantissimo, l’unica cosa che le è piaciuta, a lei, è stato che si è messa a disegnare e ha detto che lì, al museo Van Gogh, ha imparato a fare i nasi. Continua a leggere »

A Parigi con la Battaglia

domenica 15 Giugno 2014

Quando siamo partiti per Parigi, eravamo ancora in taxi, a Borgo Panigale, e la Battaglia, che è mia figlia, e ha nove anni, a Borgo Panigale ha detto «Comincia già a piacermi». Siccome pioveva era preoccupata che non ci facessero partire e quando ci han fatto salire sull’aereo che han detto di allacciarsi le cinture lei era così contenta, e dal seggiolino di fianco a sua mamma, c’era anche sua mamma, faceva finta di essere un’hostess parlava dentro il collo di una bottiglia di acqua minerale. Quando ci han dato da bere lei ha preso una coca e ogni venti secondi ripeteva «Freschissima questa coca». Parigi le è molto piaciuta, fin da quando l’ha vista dall’alto «Una città bellissima, però non vedo la Tour Eiffel». Lei voleva vedere tre cose, la Tour Eiffel, la Gioconda e Eurodisney e le abbiam viste tutte e  tre, e le sono piaciute, ma non sono forse le cose che le sono piaciute di più, perché quel che le è piaciuto di più, forse, è stato quando siamo arrivati, che eravamo sulla navetta che dal Terminal G3 dell’aeroporto Charles de Gaulle ci stava portando al Terminal G2, lì c’era uno svincolo con una rotonda con in mezzo un’aiuola di quelle lì stradali, quelle terre di nessuno che non saprei come definirle che la Battaglia a vederla ha detto «Oh, che bel parco». E quando, sulla metropolitana, ha visto che c’era il disegno di un coniglio che metteva la zampa dentro le porte del treno che si chiudevano «Be’, – ha detto, – i francesi son proprio bravi, a fare i disegni». E le è piaciuta una faccia di donna dipinta sul muro, in Rue des Hospitalières, che era fatta di facce di uomini e di fianco c’era scritto «Nous avons grandi tous dans le corp d’une femme» (Siamo cresciuti tutti nel corpo di una donna). E le è piaciuto il parco giochi che c’è dietro Saint Eustache, dove al sabato e alla domenica fanno entrare solo i bambini, i genitori aspettano fuori, anche se per la Battaglia le torri, di quel parco giochi lì, erano uno po’ pericolose, «Non voglio che la mia vita finisca in un parco giochi», ha detto. Continua a leggere »

Forse non sanno che non ci interessa

lunedì 5 Maggio 2014

Con mia figlia, che ha nove anni e che chiamiamo la Battaglia, la scorsa settimana siam stati a Roma; siamo andati per vedere il Colosseo, e ho comprato i biglietti in rete, un adulto e un gratuito, e un biglietto gratuito, per il Colosseo, a comprarlo su internet costa 4 euro, ho scoperto. L’ho detto alla Battaglia che si è meravigliata che a Roma, i romani, usassero anche loro gli euro. Pensava che usassero le monete romane. In treno, quando hanno annunciato che il treno stava per partire e che eventuali accompagnatori dovevano abbandonarlo, la Battaglia mi si è avvicinata e mi ha detto, piano, in un orecchio: «Forse non sanno che non ci interessa». Quando siamo arrivati, avevamo un albergo a pochi minuti dalla stazione, siamo andati a piedi e nel tragitto, a un certo momento, non so perché, c’era un gran odore di cacca di cavallo che la Battaglia ha fatto una faccia disgustata e ha detto «Non avrei mai immaginato che Roma fosse così». Continua a leggere »

Blu blu blu blu blu

domenica 16 Marzo 2014

Mia figlia, che ha nove anni e che chiameremo convenzionalmente la Battaglia, la prima volta che siamo andati in giro insieme che dormivamo fuori in un albergo è successo che siamo andati a Torino, e quando siamo arrivati alla stazione di Porta Nuova la Battaglia si è fermata davanti al tabellone delle partenze ha allargato le braccia ha detto «Che città meravigliosa».

Allora lì io ho pensato che ci fosse soddisfazione, a portare in giro la Battaglia, e qualche mese dopo, a scuola le avevan parlato del Muse, il Museo delle Scienze di Trento, abbiam pensato di andarci ci siamo andati sabato scorso quando siamo arrivati in albergo lei ha fotografato la vasca da bagno per farla poi vedere a sua mamma (la Battaglia è molto dispiaciuta per via che né io né sua mamma abbiamo in casa la vasca da bagno); dopo, quando ha visto la cassaforte, ha detto «Oh, e questo cos’è, il forno?».

L’albergo era vicinissimo alla stazione, e il Muse, a piedi eran venti minuti, solo che noi abbiamo sbagliato strada ce ne abbiam messi cinquanta, cosa stranissima perché il Muse si vede proprio benissimo, sotto la cascata, al di là della ferrovia. Comunque alla fine siamo arrivati, e quando siamo arrivati la Battaglia ha preso la mappa dei sette piani del Muse s’è incamminata che teneva la mappa con le due mani sembrava un capomastro e io l’ho seguita e l’ho sentita dire «Oh, uno pterodattilo, è stupendo! Oh, che carini, i pipistrellini! Non vedo l’ora di arrivare al quinto piano. Oh, la neve finta! Oh, la caccia all’orso!». Delle cose così. Continua a leggere »

Quelle orecchie

mercoledì 27 Novembre 2013

Qualche mese fa ho visto in libreria una nuova edizione di Anna Karenina che aveva una fascetta che diceva: «Da questo capolavoro della letteratura mondiale un nuovo grande film con Keyra Knightley e Jude Law». Ecco. Il film io poi non l’ho visto, così come non avevo visto, qualche anno prima, lo spettacolo teatrale di Eimuntas Nekrošius, spettacolo nel quale ero stato in qualche modo implicato, perché il teatro Asioli di Correggio, dove era prevista una data dell’Anna Karenina di Nekrošius, considerando la natura molto visiva e poco narrativa del modo di fare teatro di Nekrošius, e pensando che gli abbonati che non avevano letto Anna Karenina avrebbero fatto fatica a seguire le cinque ore dello spettacolo senza aver presente la trama, il teatro Asioli di Correggio mi aveva commissionato due conferenze di un’ora ciascuna dove dovevo raccontare agli abbonati la trama del romanzo, cosa che avevo poi fatto effettivamente, in due sabati successivi, e ogni volta che penso a quelle due ore mi viene in mente che poi la data dello spettacolo era saltata perché era stata male Mascia Musy, che interpretava Anna Karenina, e lo spettacolo era stato rimandato di qualche mese solo che poi, qualche mese dopo, era stato male l’attore che interpretava Vronskij e lo spettacolo a Correggio non c’era poi stato e quell’anno l’unica Anna Karenina che era andata in scena a Correggio, era stata la mia, e in quell’Anna Karenina improvvisata per gli abbonati del teatro Asioli io dicevo che Anna Karenina, nel romanzo di Tolstoj, non era efebica come Greta Garbo, che l’ha interpretata in un film americano del 1935, o come Lea Massari, che l’ha interpretata in uno sceneggiato in bianco e nero che chi ha la mia età forse se lo ricorda, o come Mascia Musy, che l’ha fatta a teatro con Nekrošius, o come Keyra Knightley, che l’ha poi interpretata nel film dell’anno scorso, o come Vittoria Puccini, che la interpreterà in una imminente fiction della Rai, no. Anna Karenina aveva gli occhi grigi, scrive Tolstoj, scintillanti, che sembravano scuri a causa delle folte sopracciglia, e era come se in lei ci fosse qualcosa che sovrabbondava, che riempiva talmente il suo essere da esprimersi al di fuori della sua volontà. Aveva una stretta di mano forte e ardita, e un’andatura rapida che sosteneva in modo così stranamente leggero il suo corpo piuttosto pieno. A me, nelle prime pagine, prima che cominci il suo dramma, Anna Karenina sembra più un’eroina da romanzo sovietico, piuttosto che un’eroina tragica, e se qualcuno obiettasse che l’Unione Sovietica allora non esisteva, io risponderei che Tolstoj era bravo anche per quello, perché descriveva le cose prima che esistessero. E le descriveva in un modo che io, certe cose che ci son nel romanzo, come il celebre inizio «Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», o quel che Anna, dopo aver conosciuto Vronskij, pensa quando rivede suo marito, in stazione, a Pietroburgo, e la prima cosa che pensa è “Dio mio, ma perché ha quelle orecchie?”, come se fosse la prima volta che le vedeva, come se non fossero state le orecchie che vedeva tutti i giorni da dieci anni, ecco io non vado a vedere gli spettacoli e i film tratti da Anna Karenina perché come si fa, a mettere in scena quelle orecchie, o quell’infelicità, come si fa a rendere il fatto che il comportamento di Anna è un comportamento in un certo senso insensato ma che faceva così bene, a avere orrore di quelle orecchie, e a andare incontro a braccia aperte alla propria infelicità, come si fa?

[uscito mercoledì scorso su Vanity fair]

Si buttava via niente

domenica 20 Ottobre 2013

design del popolo

 

 

 

 

 

 

 

Lo spettacolo di Edoardo Ribatto Io sono il proiettile, che va in scena dal 18 al 20 ottobre al teatro della Tosse di Genova e dal 3 all’8 dicembre all’Elfo Puccini di Milano, parla di un periodo, gli anni sessanta, e di un posto, la Russia sovietica, abbastanza diversi dal nostro periodo e dai posti a cui siamo abituati. C’è un libro, pubblicato da Isbn, e costruito dall’artista Vladimir Archipov, che si intitola Design del popolo (sottotitolo 220 invenzioni della Russia post-sovietica), dove Archipov mette in fila una serie di fotografie di oggetti artigianali fatti con gli scarti di altri oggetti, per esempio uno zerbino fatto di tappi a corona, o delle antenne fatte con delle forchette, o una pala fatta con un cartello stradale, e sotto ogni fotografia c’è il racconto dell’inventore, se così si può dire, cioè della persona che ha costruito quell’oggetto, e uno di questi inventori è un signore che racconta che si erano rotti gli stivali di sua figlia, e che le suole erano ridotte talmente male che non si potevano più riparare, e che col cuoio degli stivali, avevano un cane, avevano fatto una museruola per il cane, che non ne aveva bisogno, era un cane buonissimo, ma era un così bel cuoio, era un peccato buttarlo via. Ecco, questa cosa, che non si buttava via niente (rifiuti zero, mi vien da pensare), non funzionava solo con gli oggetti, funzionava anche con le parole. Continua a leggere »

Un’intervista

domenica 11 Settembre 2011

Clic (dico un po’ sempre le stesse cose)

Gli specchi (a Torino)

mercoledì 1 Giugno 2011

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