Due russi

giovedì 26 Marzo 2020

Ho messo su un video anch’io:

clic

non so perché, parte da metà, secondo me conviene vederlo dall’inizio

Quarta

lunedì 27 Gennaio 2020

E non era come Giulio Verne, a me piaceva molto anche Giulio Verne, non era come Fitzgerald, a me piaceva molto anche Fitzgerald, non era come Sciascia, allora mi piaceva moltissimo Sciascia, no: faceva più male.
Per quello, credo, ho letto più libri scritti in russo che libri scritti in qualsiasi altra lingua, per il male.

[Quarta edizione dei Russi sono matti, sono molto contento]

15 gennaio – Piacenza

mercoledì 15 Gennaio 2020

Mercoledì 15 gennaio,
a Piacenza,
alla Libreria Feltrinelli,
in via Cavour, 1,
alle 18,
I russi sono matti
(UTET)

17 novembre – Milano

domenica 17 Novembre 2019

Domenica 17 novembre,
a Milano,
dentro Bookcity,
a Villa Necchi,
in via Mozart 14,
alle 14:00,
I russi sono matti
(UTET)

Se la Russia intera scomparisse

mercoledì 13 Novembre 2019

Uno scrittore russo del quale parleremo un po’, in questo libretto, Ivàn Turgénev, ha creato il primo uomo superfluo della letteratura russa e il primo nichilista, della letteratura russa, è stato il primo scrittore russo a avere successo in occidente, è stato, per un po’, lo scrittore probabilmente più celebre d’Europa, è stato probabilmente lo scrittore russo dell’ottocento meno russo di tutti (ha vissuto a lungo a Baden-Baden e a Parigi), ha fatto dire a un proprio personaggio (del romanzo Fumo, uscito nel 1867) che «Se la Russia intera scomparisse, l’umanità non ne avrebbe nessun danno, e il fatto non provocherebbe nessun turbamento», e sembra che abbia scritto che a lui, dei russi, piaceva in particolare «la pessima opinione che hanno di se stessi».

[I russi sono matti domenica 17 novembre, alle 14, a Milano, a villa Necchi, dentro Bookcity]

Alla fine

domenica 8 Settembre 2019

Quando ho fatto l’università, il primo anno, oltre a russo e francese, ho studiato anche inglese, e ho seguito un corso sulla letteratura femminile inglese dell’ottocento e ho letto dei romanzi bellissimi, come Cime tempestose, o Orgoglio e pregiudizio, e non in tutti, ma in molti di quei romanzi l’enfasi della narrazione era su una domanda: si sposeranno?
In America, alla fine dell’ottocento, quando Mark Twain scrive Le avventure di Tom Sawyer, dice che non sa come finire la sua storia, visto che la storia di un bambino non può finire con un matrimonio, che è quello con cui di solito finiscono i romanzi da grandi.
Ecco, se penso ai romanzi russi, non me ne viene in mente uno, che finisce con il matrimonio.
Un po’ è perché i romanzi russi, di solito, finiscono male (ho scoperto recentemente che tra gli appassionati di cinema delle origini il contrario del “lieto fine” è il “finale alla russa”, e mi piace il fatto che in Russia si dica che un ottimista è un pessimista male informato): nella letteratura russa non vissero tutti felici e contenti, di solito, alla fine, anche quando le cose finiscono bene.

[I russi sono matti, lo presento Venerdì 13 a Parma]

Come avrebbe dovuto chiamarsi Il Male

giovedì 25 Ottobre 2018

Il giorno seguente, io, Zac e Saviane andiamo con la mia cinquecento dal distributore milanese Parrini a proporgli il nostro nuovo giornale al posto del “Sale”. Il distributore non fa una piega: «A chi mi porta il giornale, io do l’anticipo». Perfetto!
La cosa bella dell’editoria è questa. Quando porti al distributore il giornale appena stampato, lui ti dà un acconto in contanti e tu ci paghi tipografia e autori.
Per non sprecare i mesi di lavoro già fatto abbiamo bisogno di un titolo simile e quello del “Sale”. Un titolo papabile è “Il Culo”, perché ci immaginiamo la scena dall’edicolante: «Signora, ci dà “Il Culo?”» o «Ha finito “Il Culo?”». E, anche, dal distributore: «Come va “Il Culo?”».
Ma la scelta, poi, è più “moralista” e nasce “Il Male”.

[Vincino, Mi chiamavano Togliatti, Milano, UTET 2018, p. 67]

BO. BO. BE.

mercoledì 24 Ottobre 2018

Nel marzo del 2002 mi licenziano al “Foglio”. Si tratta però di uno scherzo. Ferrara ha intrapreso sul giornale una campagna contro la presenza di Benigni come ospite a Sanremo. Io, al contrario, sono assolutamente con Benigni e faccio alcune vignette sul “Foglio” dove proclamo il mio BO. BO. BE., ovvero “Boicottate il Boicotta Benigni”.
Mi chiama Ferrara e mi fa: «Che ne dici se ti licenziamo per finta e, poi ti riassumiamo?». Io acconsento e chiamo Perini, che è d’accordo a sostituirmi per gioco. Il giornale annuncia il mio licenziamento con un comunicato e, immediatamente, il mio telefono comincia a squillare. Vengono a intervistarmi gli inviati di due canali tv. Ricevo anche la solidarietà dai conduttori di Radio2.
Anche il “Corriere della Sera” mi chiama, ma io non rispondo: posso dire balle a tutti sostenendo che sono stato licenziato, ma non alla testata con cui lavoro da molti anni. Alla terza chiamata del “Corriere” sono costretto a rispondere e gli spiego che è tutto per finta. Ma non mi credono! Berlusconi è appena arrivato al governo ed è assolutamente plausibile che io possa essere stato vittima di un editto.
Il giorno dopo esce il “Corriere”, dove scrivono che mi lamento per il licenziamento e al “Foglio” arrivano, immediatamente, i lavori di decine di autori. La solidarietà tra autori non esiste: sono tutti pronti e felici di sostituirmi da quel mostro di Ferrara!

[Vincino, Mi chiamavano Togliatti, Milano, UTET 2018, pp. 152-153]

I vocaboli che chiamiamo «urbani»

venerdì 22 Gennaio 2016

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Cominciamo dunque con l’asserire che saper discernere fra i vocaboli non è uno dei compiti più facili per la ragione: a quanto vediamo, se ne possono infatti trovare di parecchie specie. Alcuni vocaboli vengono sentiti come femminei, alcuni come virili; taluni di questi ultimi ci appaiono poi agresti, altri invece urbani. Infine, alcuni dei vocaboli che chiamiamo «urbani» ci sembrano pettinati e lisci, altri invece irsuti e ispidi. Sono appunto questi vocaboli «pettinati» e «irsuti» quelli cui diamo il nome di «grandiosi»; i vocaboli che nel suono presentano una ridondanza li definiamo invece «lisci» e «ispidi». Così avviene anche per le grandi imprese: alcune sono opere di magnanimità, altre invece di presunzione. Anche qui infatti una ragione che sa ben giudicare vedrà chiaramente che, quando si viola la ben determinata linea della virtù, anche quello che a un’osservazione superficiale pare un innalzamento, non risulta tale, ma è invece un rovinare lungo l’opposto pendio.
Considera dunque attentamente, o lettore, che bisogno ci sia del vaglio per separare la pula delle parole eccellenti. In considerazione del volgare illustre (quello che, come si è detto prima, deve essere usato dai poeti tragici volgari, cui noi rivolgiamo il nostro insegnamento) avrai cura infatti che nel tuo vaglio rimangano solo i vocaboli più nobili. Fra questi non potrai assolutamente annoverare né i vocaboli «infantili» (come mamma e babbo, mate e pate) causa della loro semplicità, né quelli «femminei» (come dolciada e piacevole) a causa della loro mollezza, né quelli «agresti» (come greggia e cetra) a causa della loro ruvidezza, né i vocaboli «urbani» «lisci» e «ispidi», come femina e corpo. Vedrai dunque che ti restano soltanto i vocaboli «urbani» «pettinati» e «irsuti», che sono i più nobili e costituiscono le membra del volgare illustre. Secondo la nostra definizione sono «pettinati» i vocaboli trisillabi (o vicinissimi ai trisillabi), senza aspirazione, senza accento acuto e circonflesso, senza le consonanti doppie z o x, senza liquide geminate, senza mute seguite da liquide: vocaboli che, quasi fossero levigati, lasciano in chi parla una certa soavità, come amore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securate, defesa.

[Dante, De Vulgari Eloquentia, Libro secondo, capitolo VII, in Opere minori di Dante Alighieri, Vol. II, Utet, Torino 1986, cura e note di Sergio Cecchin]