Ve lo prometto

martedì 3 Gennaio 2017

Richard Yates, Undici solitudini

Gli scrittori che scrivono di scrittori possono produrre facilmente il peggior genere di aborti letterari. Questo lo sanno tutti. Incominciate un racconto con «Craig spense la sigaretta e si avviò deciso alla macchina da scrivere», e non troverete negli Stati Uniti un solo editore che andrà avanti a leggere la frase successiva.
Quindi non preoccupatevi: il racconto che state per leggere sarà una normalissima storia diretta e senza fronzoli che parla di un tassista, di un divo del cinema e di un famoso psicologo per bambini. Ve lo prometto. Ma dovrete avere un po’ di pazienza perché nella storia ci sarà di mezzo anche uno scrittore. Non lo chiamerò Craig, e posso garantire che non risulterà l’unico individuo sensibile tra i personaggi; dovremo però sopportarlo dal principio alla fine, e sarà meglio immaginarselo maldestro e importuno come sono quasi tutti gli scrittori, sia nei romanzi che nella vita.

[Richard Yates, Undici solitudini, traduzione di Maria Lucioni, Milano, Minimum fax 2006, pp. 102-103]

L’esperienza più emozionante di tutte

lunedì 2 Gennaio 2017

Richard Yates, Undici solitudini

A nove anni Walter Henderson era convinto, e con lui molti suoi amici, che morire fosse l’esperienza più emozionante di tutte. Una volta scoperto che l’unica parte veramente soddisfacente di una partita a guardie e ladri era il momento in cui fingendo d’essere colpito a morte, con le mani serrate al cuore, lasciavi andare la pistola e stramazzavi a terra, il resto finì quasi per essere eliminato – la seccatura di fare le squadre e di muoversi qua e là senza farsi vedere – e il gioco si ridusse all’essenziale. Diventò insomma una prova di abilità, quasi un’arte. Uno dei ragazzi, a turno, correva lungo la cresta della collina, e a un certo punto cadeva nell’agguato: al simultaneo apparire di piccole pistole puntate, in un coro di quei ritmati suoni gutturali – una specie di «P-kiuu… P-kiuu» con cui i ragazzini imitano a sussurri rochi il rumore degli spari – l’assalito si fermava, si rigirava, fingeva per un secondo una bella agonia e ripiegandosi su se stesso ruzzolava giù per la collina in un groviglio di braccia e gambe, e sollevando una magnifica nuvola di polvere giaceva infine completamente disteso a pancia all’aria, cadavere scomposto. Quando poi si alzava e si ripuliva i vestiti, gli altri giudicavano la sequenza dei suoi gesti. «Niente male», «Troppo rigido» oppure «Non sembravi tanto naturale» e quindi toccava a un altro. Il gioco era tutto qui, ma a Walter Henderson piaceva tanto.

[Richard Yates, Undici solitudini, traduzione di Maria Lucioni, Milano, Minimum fax 2006, pp. 102-103]