giovedì 21 Giugno 2018
Non tutti sono artisti, eppure questa forma di resistenza è possibile a tutti e non dovrebbe stupirci: l’arte condensa e magnifica pratiche quotidiane universali. Lo stesso rifiuto di sottomettersi al conformismo circostante è all’origine della ricerca scientifica feconda ed è indispensabile allo sviluppo completo della persona umana. Il pieno controllo del comportamento, il tentativo di formare allo stesso modo gli esseri umani, la rigida sottomissione alle norme… tutti questi tentativi falliscono quando gli individui sono insostituibili, e capita infinite volte. Tuttavia, si tratta di una battaglia che non può concludersi con una vittoria, né del resto con una sconfitta definitiva: il regno desiderato da coloro che non si sottomettono non è di questo mondo. La tensione tra le due forze è dunque destinata a durare.
[Tzvetan Todorov, L’arte nella tempesta, traduzione di Emanuele Lana, Milano, Garzanti 2017, pp. 234-235]
martedì 19 Giugno 2018
Alcuni anni dopo, nel 1925, in un discorso rivolto ad artisti, scienziati e scrittori, il teorico del comunismo Nikolaj Bucharin può dichiarare trionfante: «Costruiremo gli intellettuali come prodotti realizzati alla catena di montaggio nelle fabbriche».
[Tzvetan Todorov, L’arte nella tempesta, traduzione di Emanuele Lana, Milano, Garzanti 2017, p. 68]
mercoledì 9 Maggio 2018
Se pensiamo al numero di nuove scuole artistiche, nessun periodo della storia europea è paragonabile ai primi decenni del novecento. Sergej Djagilev, il fondatore dei Balletti russi, fine osservatore della vita artistica in Europa e in Russia nel corso di questi anni, descrive così tale ritmo vertiginoso: «Il futurismo e il cubismo non sono ormai altro che preistoria. Bastano tre giorni affinché uno venga considerato pompier. Il mototismo succede all’automatismo che porta al trepidismo e al vibrismo, che ben presto non esistono più, perché nascono il planismo, il serenismo, l’esacerbismo, l’omnismo e il neismo»». Altri non conoscono la medesima ironia: per distinguersi dai futuristi di Marinetti, Chlebnikov inventa un calco russo traducibile con «avveniristi»; Larionov, intenzionato a rompere con il gruppo futurista russo, si autodesigna come «avvenista». Quello stesso anno fonda anche il «tuttismo», superamento ultimo del futurismo.
[Tzvetan Todorov, L’arte nella tempesta, traduzione di Emanuele Lana, Milano, Garzanti 2017, p. 157]
lunedì 7 Settembre 2015
Per il lettore comune La Rochefoucauld è innanzitutto l’autore di alcuni brillanti aforismi, che non smettono di destare stupore a molti secoli dalla loro stesura. «Siamo tutti abbastanza forti per sopportare i mali degli altri». «Né il sole né la morte si possono guardare intensamente». «Si preferisce parlar male di sé stessi piuttosto che non parlarne affatto». È ammirevole l’estrema concisione dello stile, lo sguardo disincantato del moralista; La Rochefoucauld è l’incarnazione dello spirito e dell’arte di stampo classico. Ma quest’ammirazione ha il suo rovescio, che in Francia trova sostegno nella lunga tradizione di lettori per i quali la parola «sistema» costituisce un’offesa, soprattutto quando è rivolta a uno scrittore brillante. Fortunatamente, dicono, Montaigne non è sistematico, né Pascal, né Rousseau. Ancor meno La Rochefoucauld, autore di frammenti folgoranti. Lui stesso incoraggia questa interpretazione, descrivendo le proprie massime come «un ammasso di pensieri sparsi, ai quali non è ancora stato dato ordine, né inizio, né fine».
Bisogna intendersi sul significato delle parole. Se con «sistema» pensiamo a un concatenamento rigoroso e monolitico di premesse e di conseguenze, come si potrebbe trovare in un manuale, i moralisti francesi non sono molto sistematici. Se invece intendiamo che la loro opera è animata da un’idea che occorre riconoscere e descrivere per comprendere il significato di ciascuna espressione, allora, sì, appartengono tutti a un pensiero sistematico. Ciò non impedisce loro di essere complessi e sfumati, di provare interesse per le contraddizioni del mondo che cercano d’interpretare, di far emergere le proprie tensioni più profonde.
Lo stesso discorso vale per La Rochefoucauld. È vero che alcune delle sue frasi sembrano avere l’effetto di un mero gioco di parole, in cui prima di tutto è importante la forma paradossale del pensiero o il suo andamento inconsueto; che altre non sono originali, ma ricavate dagli autori contemporanei o dai predecessori; rimane il fatto che, in sostanza, l’opera di La Rochefoucauld ci pone di fronte a un pensiero coerente e profondo. Egli non è caotico né imprevedibile più degli altri grandi pensatori, è soltanto un po’ più difficile da interpretare, perché particolarmente conciso.
[Tzvetan Todorov, Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro, traduzione di Emanuele Lana, Milano, Garzanti 2011, pp. 327.328]
domenica 1 Marzo 2015
Capite, il filosofo non deve essere nessuno, perché se diventa qualcuno comincia a adattare la propria filosofica al posto che ricopre.
[Michail Bachtin, citato in Tzvetan Todorov, Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro, traduzione di Emanuele Lana, Milano, Garzanti 2011, p. 140]
martedì 20 Agosto 2013
Egli ritorna più volte sull’idea che la conversione è lo scopo principale della sua spedizione, e spera che i sovrani spagnoli accetteranno gli indiani come loro autentici sudditi. «E dico che le Vostre Altezze non dovranno permettere che nessun straniero, tranne i cristiani cattolici, traffichi o vi metta piede, perché questo fu il movente e lo scopo dell’impresa: che venisse fatta per l’incremento e la gloria della religione cristiana e che nessuno potesse venire in questa regione che non fosse un buon cristiano» (27 novembre 1492). Con un simile comportamento si rispetterebbe la stessa volontà individuale degli indiani (che da Colombo vengono posti, sin dall’inizio, sullo stesso piano degli altri cristiani). «Siccome considerava già quella gente come suddita dei sovrani di Castiglia e non c’era ragione di offenderla, decise di lasciarlo andare [un vecchio indiano]» (14 dicembre 1492).
Questa visione è facilitata dalla tendenza di Colombo a vedere le cose come gli conviene vederle. In questo caso, in particolare, gli indiani gli sembrano già portatori delle qualità cristiane, già animati dal desiderio di convertirsi. Si è già visto che, per lui, essi non appartenevano ad alcuna «setta», erano vergini di ogni religione. Ma vi è di più: in realtà, essi già posseggono una predisposizione al cristianesimo. Come per caso, le virtù che egli si immagina di vedere in loro sono virtù cristiane: «Questi popoli non hanno religione e non sono idolatri, ma sono molto mansueti e non sanno cosa sia la malvagità o l’assassinio o il furto, (…) e sono svelti a imparare ogni preghiera che noi recitiamo loro e si fanno il segno della croce. Perciò le Vostre Altezze dovrebbero risolversi a farli cristiani» (12 novembre 1492). «Amano il loro prossimo come se stessi», scrive Colombo la notte di Natale (25 dicembre 1492). Questa immagine, beninteso, può essere ottenuta solo a prezzo della soppressione di tutte quelle caratteristiche degli indiani che apertamente la contraddicono: soppressione nel discorso che li concerne, ma anche – se necessario – nella realtà. Nel corso della seconda spedizione, i religiosi che accompagnano Colombo cominciano a convertire gli indiani; ma ce ne vuole perché tutti accondiscendano e si mettano a venerare le sacre immagini. «Dopo aver lasciato la cappella, quegli uomini rovesciarono le immagini, le ricoprirono con un mucchio di terra e ci pisciarono sopra»; visto ciò, Bartolomeo – fratello di Colombo – decise di punirli in modo veramente cristiano. «Questi, come luogotenente del vicerè e governatore delle isole, formò processo contro i malfattori, e, saputa la verità, li fece abbruciar pubblicamente» (Ramon Pane, in F. Colombo, 61, 26).
[Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, traduzione di Aldo Serafini, Torino, Einaudi 1992, p. ]
giovedì 28 Ottobre 2010
L’Europa cominciava a Vienna. Era lì che tutto funzionava, gli elettrodomestici, le automobili potevano funzionare per anni mentre da noi si rompevano nel giro di sei mesi. Gli Europei avevano le lamette dei rasoi che tagliavano, le calze che non si consumavano, ma avevano anche veri scrittori, studiosi, pittori… Tutto quanto veniva dall’Occidente godeva di un prestigio straordinario e ampiamente non meritato! Dalle camice ai romanzi, noi eravamo certi che tutto quanto vi apparteneva fosse fantastico. Non dubitavo che la Coca Cola fosse una bevanda degna degli dei, che fosse il nuovo nome dell’ambrosia. Sono rimasto molto deluso quando ho bevuto la mia prima Coca in Polonia, paese molto liberale in confronto alla Bulgaria, dove mi sono recato nel 1961. Da noi era il contrario: camice tagliate di traverso, e pure i pantaloni, tutto era fatto un po’ male. Da questo punto di vista i Bulgari soffrivano di un complesso di inferiorità che può renderli molto aggressivi messi a confronto con altri.
[Tzvetan Todorov, Una vita da passatore. Conversazione con Catherine Portevin, tr. di Gabriella D’Agostino, Palermo, Sellerio 2010, p. 20]