Potenzialmente uguali

mercoledì 18 Dicembre 2013

camilleri de mauro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma parecchi linguisti, soprattutto i colleghi storici della lingua italiana, non accettano questa affermazione. Non accettano nemmeno la formulazione fredda, corretta, dei linguisti teorici che dicono: tutti gli idiomi sono potenzialmente eguali, alcuni vengono chiamati lingue per ragioni storiche, sociali, per la comunicazione a largo raggio che consentono, mentre altri restano idiomi locali, socialmente subordinati alla lingua. Li chiamiamo dialetti, ma in linea di principio non c’è alcuna differenza dal punto di vista dell’organizzazione grammaticale: c’è una grammatica dei dialetti, di ciascun dialetto, quanto mai rigorosa. Non sono modi sbagliati di parlare l’italiano, come nella tradizione scolastica qualche volta si è pensato e insegnato, sono altri modi di parlare continuando l’antico latino, con le loro regole, il loro vocabolario, la loro sintassi, con degli obblighi e delle libertà che l’italiano ignora.
Tutta una parte della linguistica teorica – si possono ricordare i nomi di Humboldt o Saussure – è d’accordo su questa indistinguibilità di principio, che ha un riscontro nella storia di lungo periodo: non c’è dialetto, non c’è idioma subalterno che col tempo non possa diventare una lingua nel senso stretto di lingua letteraria, lingua nazionale, lingua di larga intesa tra popolazioni di dialetto diverso. La storia europea ce ne dà ampia testimonianza: il dialetto di una città come Firenze – non la più importante tra le città italiane – è la matrice di quello che nel Cinquecento diventa – e comincia a essere chiamato – l’italiano.

[Andrea Camilleri, Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Roma-Bari, Laterza 2013, pp. 23-24]

In cispadano

sabato 13 Ottobre 2012

Rispetto ad altre formazioni linguistiche analoghe sparite senza lasciar traccia, il cispadano ebbe la ventura d’esser assunto a strumento espressivo della poesia popolaresca da uno scrittore dialettale romano, Adolfo Giaquinto, che in cispadano compose un intero poemetto, Franciscandonie all’Afreca, e altri scritti. Nel sonetto Er coco che parla all’avventore, ad esempio, a forme romanesche come dichi e vôle si alternano forme meridionali, abruzzesi o ciociare, come faciole, sceriole, cu per co, lu ecc.:

Si lei, signore, dichi cosa vôle
abbiame cappeline e cappellette,
pastine in brote, baccalà in guazzaette,
e ummete de manze cuffaciole.
Vulete pescie n’ummete, sceriole?
Te faccie ‘n bel piattine de spaette?
Pummatore arrepiene nu l’ho dette
ca c’è remaste un pummatore sole.
Vulisse spezzatini de vitelle?
Cutalette appanate, manze all’osse,
frittate co’ bresciutte alle padelle?
Rignone? è tremmenate stamattine.
T’arroste ‘na bestecca bella grosse?
Parecchie a lu signore, Serafine!

[Tullio De Mauro, Storia Linguistica dell’Italia unita, Bari-Roma, Laterza 2011, p. 152]

La sua figura e la sua sagoma

giovedì 11 Ottobre 2012

Ci si è spesso lamentati dello stile «pseudoumanistico» e delle «perifrasi inutili» frequenti nella prosa giornalistica di colore e di commento politico o sportivo, fenomeno, del resto, non soltanto italiano; ma proprio per la via dell’abuso queste formule stilistiche si sono logorate e i loro elementi costituitivi sono andati cadendo in desuetudine. Durante ancora il fascismo, anche fra i giornali fedeli a quella parte politica non mancò chi si avvide del rapido invecchiamento della macchina fraseologica costruita a celebrazione delle persone e degli atti della dittatura fascista: alquanto pateticamente, un giornalista celato sotto lo pseudonimo di Piccola guardia lamentava che aggettivi come ardente, travolgente, indefettibile, oceanico, incontenibile, formidabile, entusiastico non potessero più attribuirsi seriamente a sostantivi come manifestazione, invocazione, fede, grido, esclamazione («Critica fascista» 15 aprile 1941). Di questi nessi e frasi si era fatto una sorta di scherzoso catechismo che circolava nelle redazioni dei giornali:

– Come è il Duce?
Magnifico. Invitto e invincibile. Insonne.
_ La sua figura?
Maschia.
– La sua sagoma?
Romana. O anche: forgiata nel bronzo…
– Come sono le sue legioni?
Quadrate.
– E i fedeli?
Della vigilia. Della dura vigilia…
– Come si arriva alle immancabili mete?
Nudi…
– Come sono le democrazie?
Agnostiche e imbelli…

A tenere lungamente in vita questi nessi anche logorati provvidero le «note di servizio» impartite dall’ufficio centrale della stampa; ancora nel giugno del 1943 ne veniva inviata una così fatta: «Sensibilizzare l’annunzio in prima pagina del discorso del Duce. (Grande, vivido discorso, o altra aggettivazione del genere)».

[Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza 2011, pp. 115-116]

Ytali

sabato 30 Luglio 2011

L’Italia è chiamata così in tutte le lingue. La si appellava in questo modo perfino quando erano gli italiani a non farlo, simili ai galeotti incontrati da Gramsci che si dicevano di nazione napoletana o lombarda. Era quello che accadeva nelle carceri della penisola mentre nel resto d’Europa l’Italia era chiamata Italia. È difficile trovare un paese che abbia una denominazione così caratterizzata. La parola «Italia», dunque, è stata un elemento che ci ha fortemente unificato: assai più della parola «italiani».
Si è soliti considerare Dante il padre della lingua. In realtà potremmo sostenere il contrario: cioè che egli fu il “figlio della lingua”, il figlio di una scelta cinquecentesca per l’esattezza. Tra il XV e il XVI secolo prima dei burocrati e poi alcuni letterati decisero che la maniera più semplice per abbandonare il latino e accostarsi ai dialetti fosse utilizzare la lingua scritta a Firenze nel Trecento: quella di Dante, Petrarca e Boccaccio. Quindi, Dante è il figlio della scelta di quella lingua che comincia a chiamarsi «italiano» intorno al 1525. Destinato a diventare il canone per la formazione dell’idioma cinquecentesco, Dante in imbarazzo quando deve chiamare gli abitanti dell’Italia che – al contrario – identifica perfettamente. Come, del resto, era perfettamente identificata dai geografi medioevali e dagli arabi.
L’autore della Commedia è incerto su come definire coloro che abitano il paese – lungo e sottile – che si protende al centro del Mediterraneo. Li chiama «italii», «ytali», «latini», ostinandosi ad appellare un popolo privo di nome. «Italiani» verranno chiamati a partire dal Trecento.

[Tullio De Mauro, Lingua, identità nazionale e scuola pubblica, in Il calendario del popolo 752, Roma, Teti 2011, p. 8]