domenica 7 Settembre 2014
la cosa da fare, secondo me, è prenderli, questi due pezzi, e leggerli ad alta voce, con una voce normale, calma, senza correre e senza interpretare, leggerli, come son scritti, così come questo pezzo del filosofo danese Søren Kierkegaard che è l’inizio della sua «conferenza estatica» intitolata Enten-Ellen (più conosciuta come Aut-Aut) e fa così:
Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche; sposati o non sposarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che ti sposi, o che non ti sposi, ti penti d’entrambe le cose. Ridi delle follie del mondo, te ne pentirai; piangi su di esse, te ne pentirai anche; ridi delle follie del mondo o piangi su di esse, ti pentirai d’entrambe le cose; o che tu rida delle follie del mondo o che pianga su di esse, ti penti d’entrambe le cose. Credi a una fanciulla, te ne pentirai; non crederle, te ne pentirai anche; credi a una fanciulla o non crederle, ti pentirai d’entrambe le cose; o che tu creda a una fanciulla o che non le creda, ti pentirai d’entrambe le cose. Impiccati, te ne pentirai; non impiccarti, te ne pentirai anche; impiccati o non impiccarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che t’impicchi o che non t’impicchi, ti pentirai d’entrambe le cose…
Ecco questo pezzetto, a leggerlo ad alta voce, secondo me, uno capisce perché Søren Kierkegaard, che era, come si sa, un filosofo, invitava i suoi lettori a leggere le sue cose ad alta voce, perché la letteratura, in un certo senso e anche la filosofia, perlomeno quella di Kierkegaard, letta ad alta voce si spiega da sola, si spiega molto meglio di come sarei in grado di spiegarla io, mi sembra, e credo che sembri così a tutti, e questo pezzo di Kierkegaard, che letto mentalmente può fare un effetto che uno poi se lo ricorda o non se lo ricorda, a seconda dello stato della sua mente intanto che lo legge, letto ad alta voce garantito al limone, che se lo ricorda, questo pezzetto di Kirkegaard, mi sembra, e credo che sembri così a tutti.
[Scuola elementare di scrittura emiliana per non frequentanti, pagine 41-42]
mercoledì 24 Aprile 2013
La disperazione è un vantaggio o una mancanza? Da un punto di vista puramente dialettico è l’una e l’altra cosa. Se ci si volesse fermare sul pensiero astratto della disperazione, senza considerare lo stato di una persona disperata, si dovrebbe dire: è un vantaggio immenso. La possibilità di questa malattia è il vantaggio dell’uomo di fronte all’animale; e questo vantaggio lo distingue in tutt’altro modo che non l’andatura eretta, poiché indica ch’egli è infinitamente eretto ed elevato, cioè che è spirito. La possibilità di questa malattia è il vantaggio dell’uomo di fronte all’animale; rendersi conto di questa malattia è la prerogativa del cristiano di fronte al pagano; esser guarito da questa malattia è la beatitudine del cristiano.
Quindi è un vantaggio infinito poter disperare; eppure esser disperato non è soltanto la maggior disgrazia e miseria ma è la perdizione. Tale non è, di solito, il rapporto fra possibilità e realtà: se è un vantaggio poter essere questa o quella cosa, è un vantaggio ancora maggiore esserlo: infatti l’essere, in rapporto al poter essere, è come un salire di grado. Quanto alla disperazione, invece, l’essere rispetto al poter essere è come una caduta: tanto è infinito il vantaggio della possibilità, quanto è profonda la caduta. Quindi, riguardo alla disperazione, lo stadio più alto è il non essere disperato.
[Søren Kierkegaard, La malattia mortale, a cura di Cornelio Fabro, Milano, SE 2008, p. 18]
martedì 23 Aprile 2013
Copenaghen, marzo 1849
Quando un paese è piccolo, naturalmente le proporzioni sono piccole in tutti gli ambiti di quel piccolo paese. Così anche in ambito letterario: l’onorario e tutto ciò che vi pertiene non saranno che insignificanti. Essere scrittori – se non si è poeti, e per di più poeti drammatici, oppure se non si scrivono libri scolastici, o se non si è in qualche altro modo scrittori in funzione di un incarico pubblico – è quasi da considerarsi l’impiego peggio retribuito, il meno sicuro, e in tal senso il più ingrato.
[Søren Kierkegaard, Sulla mia attività di scrittore, a cura di Andrea Scaramuccia, Pisa, Ets 2006, p. 35]
sabato 24 Novembre 2012
Io ci son delle cose che mi dovrebbero piacere invece non mi piacciono. Per esempio “la società che si attiva dal basso”; come idea dovrebbe piacermi, invece non mi piace. Oppure “gli agenti del cambiamento”; anche loro, dovrebbero piacermi, invece non mi piacciono. Oppure “Il coraggio, l’entusiasmo, l’ottimismo di cambiare questo paese”; come fa a non piacerti, una cosa del genere? Eppure a me non mi piace. E “Una nuova alleanza tra capitale e lavoro” secondo voi mi piace? Non mi piace. E “La formazione professionale?”. E “l’Italia che sta cambiando?”. E “La possibilità di riscrivere la storia di questo paese?”.
Niente. Non mi piace niente.
Io, lo so che può sembrar strano, ma a me, più sento queste voci ottimistiche, queste voglie di redenzione, questi slanci della volontà, più mi vien da pensare a una cosa che ho letto un po’ di tempo fa che diceva: “Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche; sposati o non sposarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che ti sposi, o che non ti sposi, ti penti d’entrambe le cose” (Søren Kierkegaard, Enten-Eller, I, a cura di Alessandro Cortese, Milano, Adelphi 1987, p. 98).
E quando sento un politico che dice, al microfono: “Vinceremo” e la platea che applaude entusiasta, a me mi vien da pensare che, se vinceranno, se ne pentiranno, e se non vinceranno, se ne pentiranno anche. Che vincano o che non vincano, si pentiranno d’entrambe le cose.
[uscito ieri su Libero]
lunedì 25 Ottobre 2010
Una volta, in tempi assai lontani, si intendeva così la cosa: se qualcuno voleva essere maestro del Cristianesimo, si esigeva da lui che egli desse, per garanzia di ciò che insegnava, la sua vita. Ora si è ben lontani da ciò. Il mondo è divenuto più astuto e più serio; esso ha imparato a disprezzare l’elemento personale come alcunché di miserabile e vano e a stimar solo ciò che ha valore obbiettivo. Ora si esige che la vita del maestro offra garanzia che tutto ciò che egli dice siano belle frasi, discorsi drammatici, conversazioni piacevoli, insomma un qualcosa di positivamente obbiettivo.
Ecco alcuni esempi: Se tu vuoi parlare del fatto che il Cristianesimo (quello del Nuovo Testamento) preferisce la castità al matrimonio, e se tu stesso non sei sposato, mio caro, questo non è un discorso fatto per te. Continua a leggere »
sabato 23 Ottobre 2010
Nel Nuovo testamento il Redentore – Nostro Signore Gesù Cristo – così parla: «la porta è stretta; aspra è la via che conduce alla vita e pochi sono coloro che la sanno trovare». Ed ora invece, per rimandere in Danmarca, siamo tutti cristiani, la via è la più larga possibile, e soprattutto in Danimarca, giacché è la via per cui vanno tutti; perciò essa è comoda sotto ogni aspetto e la porta è larga quanto è possibile (giacché non v’è porta più larga di quella per cui posson passare tutti in massa): ergo, il Nuovo Testamento non ha più verità.
Sia dunque onore al genere umano! Tu, Redentore, tu hai avuto un’idea troppo meschina dell’umnaità, giacché non hai previsto a quale grado di sublimità, attraverso un continuo progresso, essa si sarebbe elevata.
Effettivamente oggi il Nuovo Testamento non è più verità, la via è piana, la porta è spalancata: siamo tutti cristiani. Ma io anzi voglio fare un passo più avanti, perché la cosa mi entusiasma (si tratta infatti di un elogio dell’umanità); io oso anzi credere che anche gli ebrei tra noi siano, almeno in un certo grado, cristiani, cristiani così come lo siamo noi tutti, che siamo cristiani in un certo grado, così come il Nuovo Testamento non è più verità, in un certo grado.
Non vogliamo certo dar false lodi alla grandezza dell’umanità; dobbiamo però cercare di non trascurar nulla che possa dimostrare o accennare alla sua sublimità. Io oso quindi fare un passo ancor più innanzi. Ma poiché mi mancano le conoscenze necessarie per aver sull’argomento una mia opinione decisa, io oso esprimere una semplice idea, lasciando ai competenti di giudicare. Non si scorgono, tra gli animali domestici, almeno tra i più nobili, come i cavalli, i cani, le vacche, i segni del Cristianesimo? La cosa non è affatto inverosmile. Si rifletta su cosa significa vivere in uno stato cristiano, in un popolo cristiano, dove tutto è cristiano e tutti sono cristiani, dove sempre e dovunque non si vedono che cristiani e Cristianesimo, verità e testimoni della verità! Non è affatto inverosimile che ciò abbia ad influire sui più nobili tra gli animali domestici, e che tale perfezionamento progressivo (che, a detta dei zoologi e dei preti, è la cosa più importante) si trasmetta alle generazioni successive.
[Sören Kierkegaard, L’istante, in Diario, cit., pp. 66-67]