Non era possibile fare altrimenti

martedì 28 Novembre 2017

perec sono nato

Si è di fronte al vuoto e tutt’a un tratto bisogna buttarsi. Tutt’a un tratto bisogna rifiutare la propria paura, tutt’a un tratto bisogna rifiutare di rinunciare. Ho fatto tredici lanci e tredici volte mi sono lanciato. Tredici volte ho avuto voglia di rinunciare, ho avuto voglia di dirmi: «Bene, non fa niente, dopotutto, se adesso rifiuto, tanto ho il brevetto, non ha nessuna importanza, posso farmi vedere fifone». Non era esattamente questo… Credo che, se una sola volta ho avuto l’intuizione, ho avuto la sensazione di essere… diciamo: coraggioso – ma non nel senso banale, nel senso in cui si intende, nel senso del superamento continuo… era di fare questo atto assolutamente gratuito, di buttarsi nel vuoto da quattrocento metri, questo atto che aveva risonanze… risonanze fasciste. Davvero: risonanze fasciste. Perché il fatto di essere paracadutista, non è una cosa qualsiasi. Vuol dire vivere in un ambiente composto da individui che aspirano a una sola cosa, a distruggere continuamente la Repubblica. Ecco, insomma, l’Algeria dei colonnelli, sappiamo quello che è. Ebbene, bisognava, nonostante tutto, lanciarsi, perché se non lo avessi fatto, non credo che potrei essere qui stasera. Bisognava ad ogni costo che mi lanciassi nel vuoto, e che ad ogni costo accettassi quella difficoltà che adesso paragono alle difficoltà dei giorni a venire, che paragono alla situazione… forse perché sono un intellettuale, perché sono portato a fare paragoni sempre un po’ particolari… Bisognava assolutamente lanciarsi. Non era possibile fare altrimenti. Era necessario saltare, necessario buttarsi per essere convinti che tutto ciò forse poteva avere un senso, che poteva avere ripercussioni che perfino noi stessi ignoravamo. /…/ Era perfino importante da un punto di vista più generale: la ragione per cui siamo qui è che, più o meno, facciamo tutti parte di una rivista, e che questa rivista sta cercando la sua via, e la sta cercando da due anni. È solo una mia impressione personale: io credo che debba lanciarsi, deve accettare di buttarsi. È tutto.

[Georges Perec, Sono nato, traduzione di Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringhieri 1992, pp. 38-4o]

Senza ridere

venerdì 11 Marzo 2016

perec sono nato

Non so cosa mi aspettassi dalla scrittura quando, quindici anni fa, ho cominciato a scrivere. Ma mi sembra di cominciare a capire, al tempo stesso, l’attrazione che la scrittura esercita – e continua a esercitare – su di me, e la frattura che tale attrazione svela e racchiude.

La scrittura mi protegge. Vado avanti facendomi scudo delle mie parole, delle mie frasi, dei miei paragrafi abilmente concatenati, dei miei capitoli astutamente programmati. Non manco d’ingegnosità.

Ho ancora bisogno d’essere protetto? E se lo scudo diventasse giogo?

Eppure bisognerà che un giorno cominci a servirmi delle parole per smascherare il reale, per smascherare la mia realtà.

È più o meno così che, oggi, posso definire il mio progetto. Ma so che non potrà realizzarsi completamente se non il giorno in cui avremo scacciato, una volta per tutte, il Poeta dalla città: il giorno in cui potremo, senza ridere, senza avere ancora un volta l’impressione di una derisione, di un simulacro o di un’azione clamorosa, prendere un piccone o una pala, un martello pneumatico o una cazzuola, non è tanto che avremo fatto qualche progresso (poiché non sarà certamente più a questo livello che si misureranno le cose), ma che il nostro mondo avrà finalmente cominciato a liberarsi.

[Georges Perec, Sono nato, traduzione di Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringhieri 1992, p. 64]

Il sentimento tenue

venerdì 21 Febbraio 2014

Georges Perec, Sono nato

 

 

 

 

 

 

Sono nato in Francia, sono francese, ho un nome francese, Georges, un cognome francese o quasi: Perec. La differenza è irrilevante: non c’è accento acuto sulla prima e del mio cognome, perché Perec è la grafia polacca di Peretz. Se fossi nato in Polonia, mi sarei chiamato, mettiamo, Mordechai Perec, e tutti avrebbero saputo che ero ebreo. Ma non sono nato in Polonia, per mia fortuna, e ho un nome quasi bretone, che tutti scrivono Pérec o Perrec: il mio cognome non si scrive esattamente come si pronuncia.
A questa contraddizione insignificante si associa il sentimento tenue, ma insistente, insidioso, ineluttabile, di essere in un certo modo straniero rispetto a qualcosa di me stesso, di essere «diverso», ma non tanto diverso dagli «altri» quanto diverso dai «miei»; non parlo la lingua che parlavano i miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che essi poterono avere. Qualcosa che era loro, che faceva di loro quel che erano, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, quel qualcosa non mi è stato tramandato.

[Georges Perec, Sono nato, traduzione di Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringhieri 1992, pp. 83-84]

Bisogna buttarsi

venerdì 31 Agosto 2012

Si è di fronte al vuoto, e tutt’a un tratto bisogna buttarsi. Tutt’a un tratto bisogna rifiutare di rinunciare. E poi… poi bisogna lanciarsi. Ho fatto tredici lanci e tredici volte mi sono lanciato. Tredici volte ho avuto voglia di rinunciare, ho avuto voglia di dirmi: «Bene, non fa niente, dopotutto, se adesso rifiuto, tanto ho il brevetto, non ha nessuna importanza, posso farmi vedere fifone». Non era esattamente questo… Credo che, se una sola volta ho avuto l’intuizione, ho avuto la sensazione di essere… diciamo: coraggioso – ma non nel senso banale, nel senso in cui si intende, nel senso del superamento continuo… era di fare questo atto assolutamente gratuito, di buttarsi nel vuoto da quattrocento metri, questo atto che aveva risonanze… fasciste. Davvero: risonanze fasciste. Perché il fatto di essere paracadutista, non è una cosa qualsiasi. Vuol dire vivere in un ambiente composto da individui che aspirano solo a una cosa, a distruggere continuamente la Repubblica. Ecco, insomma, l’Algeria dei colonnelli, sappiamo quello che è. Ebbene, bisognava nonostante tutto lanciarsi, perché se non lo avessi fatto, non credo che potrei essere qui stasera. Bisognava ad ogni costo che mi lanciassi nel vuoto, e che ad ogni costo accettassi quella difficoltà che adesso paragono alle difficoltà dei giorni a venire, che paragono alla situazione… forse perchè sono un intellettuale, perché sono portato a fare paragoni sempre un po’ particolari… Bisognava assolutamente lanciarsi. Non era possibile fare altrimenti. Era necessario saltare, necessario buttarsi per essere convinti che tutto ciò forse poteva avere un senso, poteva avere ripercussioni che perfino noi stessi ignoravamo. Su un piano del tutto individuale, per me, ciò ha avuto risonanze assolutamente incontestabili.

[Georges Perec, Sono nato, traduzione di Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringhieri 1992, pp. 38-39]

Che cosa sono?

venerdì 25 Novembre 2011

Che cosa sono le mele? Perché le mele? Con quale diritto il melo? Si sa benissimo che il melo è quasi sempre sicuro del suo buon diritto e che risulta inutile, se non addirittura pericoloso, interrogarsi sulla validità, sulla pertinenza della sua esistenza e della sua funzione. Ma, prima o poi, arriva anche il giorno in cui quella che viene comunemente chiamata evidenza cessa di adempiere al proprio compito, in cui non basta più camminare per provare il movimento, o respirare per vivere. Da lì in poi, tutto diventa domanda ma domanda senza risposta: appena emesso, il quesito sembra avere come unico effetto quello di distruggere: cercando la verità, l prova, chi non fa che interrogarsi incontra solo il dubbio. E tra l’altro, come interrogare quando l’io che interroga non è neanche più del tutto sicuro d’esistere?

[Georges Perec, Sono nato, tr. di Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringhieri 1992, p. 41]