sabato 29 Settembre 2018
Ho scritto, per la Verità, quattro pezzi sui social network, e il penultimo finiva con un signore che, senza sapere niente di avanguardie russe, commentava una fotografia del grande fotografo Aleksandr Rodčenko, una pubblicità del 1924 per una casa editrice sovietica, sostenendo che fosse un’immagine pornografica che aveva a che fare con il 1968, e pretendeva anche di avere ragione; qualche giorno fa, mi è successo il contrario, cioè che, su un social network, parlando di un argomento di cui non sapevo niente, son stato io a aver la presunzione di avere ragione.
È successo che una lettrice, su Twitter, ha fotografato una pagina di un libro che ho scritto io, che si intitola La grande Russia portatile, dove c’è scritto che, in una biografia di Jurij Gagarin, il primo cosmonauta, «si dice che quando, negli anni ottanta, uno scienziato americano che aveva partecipato alla missione della Nasa che aveva portato Armstrong sulla luna, aveva incontrato uno scienziato sovietico che aveva partecipato alla missione che aveva portato Gagarin nello spazio, l’americano aveva detto al sovietico: “Ascolta, noi abbiamo speso 18 milioni di dollari per l’ideazione e la costruzione di speciali articoli da cancelleria, penne, soprattutto, che funzionassero in assenza di gravità, voi come avete fatto?”, e che il sovietico, un po’ imbarazzato, avesse risposto “Noi? Eh, noi, abbiamo usato le matite”».
Un signore che si chiama Paolo D’Angelo, «space Journalits», c’è scritto nel suo profilo, ha obiettato che Gagarin, negli anni ’80, era morto da tempo, e che la storia delle penne e delle matite è pura fantasia, e ha chiesto il conforto di un suo conoscente, che si chiama Paolo Attivissimo, «giornalista informatico, cacciatore di bufale, conduttore Radio Svizzera», c’è scritto nel suo profilo, che ha scritto che Gagarin è fuori contesto e che la storia delle biro e delle matite è una balla, e ha linkato un articolo nel quale si dice che questa storia, «anche se è divertente e fa riferimento alla semplicità delle soluzioni adottate dagli ingegneri russi, notissima fra gli addetti ai lavori», non è vera. Gli americani non avrebbero speso tutti quei milioni di dollari e i russi avrebbero usato sia le penne che le matite, nello spazio, a quanto pare.
Io ho risposto dicendo che queste cose non le dice Gagarin, e che quindi il fatto che, negli anni 80, Gagarin sia morto, è del tutto indifferente, e che Gagarin non è per niente fuori contesto, visto che si parla di lui, e che, nel libro che ho scritto io, nessuno dice che la storia delle penne e delle matite è vera, si dice che è raccontata in una biografia, nella quale, effettivamente, è raccontata.
Paolo Attivissimo ha ribattuto così: «Capisco. Ma a me dispiace quando l’estetica vince sulla correttezza storica. Ogni rettifica mancata alimenta il mito e lo rinforza» e ha aggiunto che gli sarebbe piaciuto se avessi messo una nota dove dicevo che la storia delle matite sovietiche non era vera.
Io ho risposto che nel mio libro non c’è nemmeno una nota, e che questa discussione mi faceva venire in mente uno scrittore di Praga che si chiama Patrik Ourednik che, nel 2001, ha scritto un libro, intitolato Europeana, che è diventato il libro dell’anno in Repubblica Ceca e che racconta la storia del XX secolo dando a tutto, alla prima guerra mondiale, all’invenzione delle gomme da masticare, ai campi di sterminio, all’invenzione della Barbie, alla scoperta della psicanalisi, la stessa enfasi, come se tutto avesse la stessa importanza.
Sembra un libro scritto da uno storico con l’esaurimento nervoso ed è un tremendo ritratto del XX secolo, dove si legge, tra tante altre cose: «I comunisti dicevano che i membri di una società comunista non avevano bisogno del sesso perché il piacere più alto per l’uomo proviene dal lavoro di cui poteva essere fiero mentre nel capitalismo i lavoratori sfruttati non traevano alcuna gioia dal loro lavoro e dovevano fare ricorso a dei succedanei» (la traduzione è di Andrea Libero Carbone).
Ecco, io credo che, se qualche sessuologo, all’uscita del libro di Ourednik, avesse obiettato che non è vero che i lavoratori comunisti non avevano bisogno del sesso, e qualche sindacalista avesse obiettato che non è vero, che in occidente i lavoratori non traevano alcuna gioia dal loro lavoro, Ourednik avrebbe potuto ribattere che lui non aveva scritto che quelle cose eran vere, aveva scritto che venivano dette, come, effettivamente, erano state dette, nel mondo sovietico.
In un saggio dove ragiona sul proprio modo di intendere la letteratura, Ourednik scrive che, in letteratura, «non si tratta più di sapere chi ha vinto la battaglia di Solferino, ma di vedere come i cronisti l’hanno descritta». E continua dicendo che «se la letteratura deve realmente avere una funzione», la sua funzione è la realizzazione dell’utopia anarchica, «vale a dire un mondo in cui le verità non coesistono più verticalmente ma orizzontalmente, e ciò nonostante pacificamente. Se, un giorno, questo mondo arrivasse, – conclude Ourednik – allora la letteratura perderebbe la sua ragion d’essere. Non si può avere tutto, un mondo senza conflitti e la letteratura».
Questa utopia anarchica realizzata a me sembra abbia a che fare con la storia di quel padre di famiglia che, quando il suo figlio maggiore era andato a lamentarsi del figlio minore aveva detto, al figlio maggiore: «Hai ragione». Poi, quando il figlio minore era andato a lamentarsi del figlio maggiore, aveva detto, al figlio minore: «Hai ragione». Poi, quando la moglie gli aveva detto «Non puoi dare ragione a tutti e due», ci aveva pensato un po’ poi le aveva detto, alla moglie: «Hai ragione anche te».
Questo sembra un mondo in cui si è realizzata l’utopia anarchica, un modo in cui tutti hanno ragione, solo che è un mondo che a me, che aspiro a essere anarchico, non piace. E allora?
Allora la risposta mi sembra la dia ancora Ourednik nel suo libro successivo, Istante propizio, 1855, che, quando è uscito in Italia, nel 2006, aveva una quarta di copertina (che avevo scritto io) che diceva così: «Riassunto del libro: “È bella l’anarchia?” “È bellissima.” “È possibile?” “Non è possibile.” “È meno bella per il fatto di non essere possibile?” “Non è meno bella”».
Siamo salvi: l’anarchia non è possibile.
E la letteratura non è il posto delle ragioni, è il posto degli errori. Forse.
[Uscito ieri sulla Verità]
sabato 15 Settembre 2018
Mi hanno detto che i social network che uso io, che sono Facebook e Twitter, sono, soprattutto Facebook, dei social network da vecchi.
Mia figlia, che ha quasi 14 anni, e i suoi compagni di classe, che hanno 14 anni anche loro, non hanno un profilo di Facebook e non hanno nessuna intenzione di aprirlo. Che è un po’ un peccato, per Facebook. Che è nato nel 2004 e, per una manciata di anni, è stata una cosa molto moderna. Adesso non più. E, tra dieci anni, o poco più, in Italia lo useranno solo gli over cinquanta.
Ci sono, quelle mode che duran pochissimo. Come la moda dei paninari. O la moda degli orologi con le fasi lunari. O la moda delle giacche con le spalline. Negli anni ottanta eran delle cose da giovani, da gente che sapeva stare al mondo, che era informata di tutto, adesso sembrano un po’ ridicole, come ridicoli, agli occhi dei giovani di oggi, devono probabilmente sembrare quelli che hanno un profilo di Facebook, tra i quali anch’io, c’è da dire.
C’è però anche da dire che io non ho solo un profilo di Twitter e di Facebook, ne ho anche uno di Instagram, che invece mi dicono che sia un social network che quello sì, che oggi è di moda e che promette di restarlo per tutto il 2019, forse, perfino.
Non l’ho mai usato, il mio profilo di Instagram, cioè l’ho usato solo per andare a vedere i profili di altri, ma di pochi, seguo pochissima gente, su Instagram: Gervinho, che è un giocatore del Parma, che è la squadra per cui tengo; Alicia Piazza, che era la vicepresidente della Reggiana, che era la squadra antagonista di quella per cui tengo (adesso è fallita, si chiama in un altro modo, Audace, o qualcosa del genere, e Alicia Piazza non è più vicepresidente); Pierluigi Bersani, Maria Elena Boschi e Corrado Passera.
Maria Elena Boschi e Corrado Passera li seguo perché mi piacciono i fallimenti (politici, non personali, non li conosco e magari loro, come persone, stanno benissimo), Bersani è quello che seguo da più tempo e proprio per seguire Bersani, nel 2012, devo avere aperto il mio profilo di Instagram, se non ricordo male.
Perché c’era appena stato il terremoto, in Emilia, e Bersani aveva postato una foto, Instagram è il social che la gente, soprattutto, ci mette delle foto, Bersani aveva postato una foto che c’era una strada di Mirandola piena di mattoni. Sembrava un fiume di mattoni, come uno tzunami di mattoni, un’ondata di mattoni che aveva distrutto tutto quello che aveva trovato sulla sua strada, faceva impressione, faceva paura, e immaginarti che quella cosa era una cosa vera e vicinissima a casa tua, io quella foto l’avevo guardata dalla mia casa di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, era doloroso, perfino.
E, anche per questo, la scritta che c’era sotto quella foto suonava in un modo stranissimo. C’era scritto: «pbersani sta usando Instagram – un modo divertente ed alternativo per condividere la tua vita con i tuoi amici attraverso una serie di immagini. Scatta una foto e scegli un filtro per trasformare lo scatto in un ricordo che rimane per sempre».
Che Bersani, dite quel che volete, ma secondo non è mai stato capace, di maneggiar la modernità, chissà come si vestiva negli anni ottanta, mi vien da pensare. Il suo profilo, tra l’altro è in disuso, l’ultimo post è del 2013, cinque anni fa.
Ma, a parte Bersani, che è anche lui un po’ passato di moda, forse, a parte Bersani mi viene da chiedermi come mai Instagram è più moderno, di Facebook e di Twitter.
Forse c’entra il fatto che Instagram è un social prevalentemente di immagini. Puoi postare anche un testo, ma quello che domina, lì, sono le immagini, le foto, come quella di Bersani.
Mi viene in mente un convegno a cui son stato invitato, sabato e domenica, a Gressoney, convegno che si intitola Visto si stampi e il cui tema è «Guardare is the new leggere», dove credo si ragionerà sul fatto, che è vecchio anche lui di cent’anni (lo diceva un poeta russo straordinario che si chiama Velimir Chlebnikov) che l’immagine ha vinto, che è più potente, del testo.
Ecco, io, devo dire, non lo so, se sono d’accordo.
E non so se sono d’accordo perché nella mia esperienza, semplicemente, non è vero.
Il primo libro da grandi che ho letto, il primo libro senza figure, sono passati più di quarant’anni e io, di quel momento lì che ho scoperto i libri da grandi, quante cose ci possono essere dentro un libro senza figure, mi ricordo tutto: mi ricordo dov’ero, sotto il portico di casa nostra in campagna, mi ricordo mia nonna che cantava in cucina, mi ricordo che passava mio babbo con dei secchi di calce, mi ricordo la sedia arancione su cui ero seduto, mi ricordo la polvere che c’era nell’aria, mi ricordo la sensazione stranissima dovuta al fatto che io, incantato dal libro, non ero per questo incanto estraniato dal mondo ero dentro, nel mondo: leggere produceva un effetto stranissimo, faceva diventare il mondo più mondo.
E questa sensazione di esser nel mondo (più mondo) l’ho poi riprovata ogni volta che ho riconosciuto la letteratura: Delitto e castigo, di Dostoevskij, sdraiato nel letto della mia stanzetta minuscola di Basilicanova, mi sembra di vedere ancora il copriletto, le Poesie di Chlebnikov, da in piedi, appoggiato allo scaffale dei russi della Biblioteca Guanda di Parma, e potrei quasi descriver le facce di chi stava studiando, il primo libro che ho letto per intero in russo, Romanzo teatrale, di Michail Bulgakov, sulla metropolitana di Mosca nel 1993, che ero così contento, che finalmente leggevo un libro in russo che mi chiedevo “Come andrà a finire?”, e mi ricordo, perfettamente, come ho alzato la testa, in quella metropolitana, quando mi sono accorto che era un libro incompiuto, e mi sembrava che, in quel vagone verde e marrone, tutti i passeggeri mi guardassero scuotendo la testa e pensando “Che deficiente”.
A ciascuno di questi libri, e a tanti altri, io devo, dentro di me, un’immagine potentissima, e la potenza di queste immagini che sono lì, nella memoria della mia pancia, è dovuta a un testo, non a una figura; i testi, quando ci prendono, sono produttori di immagini che, credo, resisteranno anche a Instagram, ben oltre il 2019, secondo me.
Come il cielo della Russia; a me piace molto andare in Russia, e il cielo della Russia io ho cominciato a vederlo quando ho letto una poesia di Chlebnikov che dice: «Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / Un ditale di latte, / E questo cielo / E queste nuvole». Senza questa poesia io vedrei molto meno, quando sono là.
[uscito ieri sulla Verità]
sabato 8 Settembre 2018
Io faccio una vita piuttosto ordinaria e devo dire che nella mia quotidianità, ormai, i social network hanno sostituito il bar. Negli anni 80 del 900 la maggior parte dei miei pomeriggi li passavo al bar, negli anni 10 di questo secolo nuovo la passo sui social network. Ho aperto un blog tanti anni fa, dieci, forse, e da allora metto su quel blog un paio di cose tutti i giorni, non solo cose che ho scritto io, anche cose scritte da altri, prevalentemente da russi, visto che la letteratura russa è quella che conosco meglio e l’unica che ho studiato con una certa costanza per un periodo di tempo non breve (fa un po’ impressione, dirlo, ma sono trent’anni, ormai). Gli unici giorni, in questi anni, in cui non ho aggiornato il mio blog, son state due settimane che ero in ospedale, cinque anni fa, per un trauma cranico, e i lettori del blog, mi hanno raccontato poi dopo, si erano accorti che era successo qualcosa perché non aggiornavo il blog.
Come se i miei amici, negli anni ottanta, non mi avessero visto per due giorni di seguito al bar. Io, i giorni che non ho niente da dire, io di solito scrivo sul blog «Oggi non ho niente da dire»; quando non ho da dire neanche il fatto che non ho niente da dire, o quando ho molto da fare, allora io non è che non scrivo niente, adesso; adesso scrivo «Ho molto da fare ma sto bene, non sono in nessun ospedale, sono a casa a lavorare», o qualcosa del genere, perché mi dispiace che qualcuno, magari solo uno, si preoccupi per via del fatto che non ho scritto niente, quel giorno lì. Uno dei titoli più belli, dei libri che ho letto negli ultimi anni, è un titolo che poi è stato cambiato dalla casa editrice, è il titolo del primo romanzo di Ugo Cornia, Sulla felicità a oltranza, che, in origine, si intitolava Tra un po’ saremo tutti morti e che io, quando l’avevo letto, ero stato stupefatto dall’esattezza e dalla semplicità di quella previsione: tra un po’, tra qualche decina di anni, che sono pochissimo, in confronto all’eternità, tutti noi, tutti i vari miliardi di esseri che respirano in questo momento sul globo terraqueo, tra poco, tutti noi che abbiamo in comune, se non altro, l’attività respiratoria, qui sulla terra, sui mari e nei cieli, smetteremo tutti di respirare, e non è una cosa necessariamente triste, ma, soprattutto, è una cosa vera, e detta, in quel titolo, in un modo ammirevole (che mi ricorda una memorabile quartina di Metastasio che dice: “Non è ver chi sia la morte / il peggior di tutti i mali / è un sollievo de’ mortali / che son stanchi di soffrir”).
E questa cosa così comune, morire, succederà anche a me, e allora chissà cosa ne sarà, del mio blog, e dei miei account di facebook e di twitter sui quali tutti i giorni, due volte al giorno, giro le cose che scrivo sul blog perché la gente che mi segue su facebook e su twitter mi dicano che sono bravo, o bravissimo; allora potranno smettere, di dirmi che sono bravo, o bravissimo dal momento che, adesso mi fanno molto piacere, se e quando me lo dicono, allora credo che mi sarà piuttosto indifferente, ma non sono sicuro, vedremo.
Intanto, per il momento, continuo a mettere in rete un paio di post al giorno, cose che hanno più a che fare con la mia quotidianità, che con l’attualità, cose che mi piacciono, o che mi sorprendono tra quel che mi succede e quel che leggo, e l’altro giorno ho messo un pezzetto di un libro che mi piace molto, un libro di Viktor Šlovskij sulla rivoluzione intitolato Viaggio sentimentale quel pezzetto qua: «È bella, un’esplosione. Accendi la miccia, scappi via, ti corichi e guardi. La terra si gonfia sotto i tuoi occhi. La vescica cresce per una frazione di secondo, si stacca da terra. Sale una colonna scura, forte, grande. Poi s’ammorbidisce, assume la forma d’un albero. E crolla, grandine nera. È bello come il nitrito di un cavallo» (la traduzione è di Maria Olsoufieva). Ho scritto questa cosa sul blog e poi l’ho girata su twitter e facebook, e su facebook un lettore ha commentato: «È un’immagine un po’ squallida». Io ho pensato che fosse stato colpito dalla crudezza della descrizione e gli ho risposto che era un libro sulla rivoluzione, bellissimo, secondo me, e che l’immagine, l’esplosione come il nitrito di un cavallo, era bellissima anche lei, secondo me. Lui mi ha risposto che «una donna dalla parvenza sessantottina che simula sesso orale con la maniglia della porta non capisco cosa possa avere a che fare col testo succitato». Allora ho capito che non si riferiva all’immagine di Šlovskij, ma all’immagine di copertina, che è una fotografia del 1924 del fotografo russo Aleksandr Rodčenko a Lilja Brik, per la pubblicità di una casa editrice statale sovietica, la Lengis, nella quale la Brik urla: «Knikgi», che significa libri, e poi c’è scritto «Per tutti i rami del sapere». Allora gli ho scritto che è una fotografia celebre, che non c’entra né con il ’68 né con il sesso orale e ha invece molto a che fare con la rivoluzione russa e con quel che ne è seguito. E lui, questo signore, che si chiama Michele Bussoni, ha scritto «Liminal» che vuol dire subliminale, come a intendere che, apparentemente, quell’immagine non ha niente a che fare con il sesso orale, e con le maniglie, e con il ’68, ma, in realtà parla proprio di quello.
Io, devo confessare, non gli ho chiesto come faceva Rodčenko a parlare del ’68 44 anni prima che ci fosse, il ’68, gli ho dato ragione, gli ho scritto «Certo certo, hai ragione, è evidentemente squallido sesso orale, e Rodčenko è, come è noto, uno squallido fotografo pornografico sessantottino, grazie del contributo», e lui questo Michele Bussoni, ha risposto: «Evito di farvi una lezione sui messaggi subliminali che ci sarebbero sia nella immagine che nel testo. Poiché capire e approfondire non è proprio dell’italiano medio».
Cioè lui, dall’alto della sua preparazione sul ’68, sul sesso orale e sulle maniglie, evita di fare lezioni a noi, italiani medi, che non capiremmo. Io gli ho chiesto per favore di farcela, invece, che sarebbe interessantissima, credo, una sua lezione sulle maniglie, e sul sesso orale, e sul ’68, e nel caso ne parleremo nella prossima puntata, di questa breve serie sui social, che sarà anche l’ultima.
Intanto, finisco dicendo che la gente, sui social, a me un po’ fa paura, perché certa gente, quando scrive quello che pensa, ti accorgi che han delle teste che non le mangiano neanche i maiali, come dicono a Parma. Solo che, a pensarci, anche certa gente nei bar, a Parma, negli anni ’80, mi faceva un po’ paura perché mi sembrava che avessero delle teste che non le mangiavano neanche i maiali, quindi, dopotutto, niente di nuovo.
[Uscito ieri sulla Verità]
sabato 1 Settembre 2018
«Social Network» è un’espressione che è entrata recentemente nell’uso italiano, e che io credo di sapere cosa vuol dire, perché la uso, ma in realtà non lo so benissimo. Ci sono queste espressioni che ci circondano, che usiamo anche noi, ma delle quali non conosciamo bene il significato, come l’espressione «Startup», che io credo voglia dire un’azienda che comincia, ma non son proprio sicuro che valga per tutte le aziende, e quando, qualche anno fa, hanno aperto sotto casa mia un’agenzia di pompe funebri, io per un po’ di tempo, ho avuto la tentazione di entrare e di chiedere: «Scusate, voi siete una startup?»; poi non l’ho chiesto e l’agenzia di pompe funebri ha chiuso adesso non farei più in tempo.
Diversamente dalle Startup, però, io coi social network, ho a che fare, li uso, ho un blog, ho un account su Facebook, uno su Twitter e uno su Instagram, e posso provare a dire quel che mi sembra da quello che vedo, senza pretendere di arrivare a una definizione esaustiva. Comincerei da Facebook.
Qualche anno fa, quando ero appena entrato su Facebook, era un periodo che tutti parlavan di Facebook e molti ne parlavano male, come succede spesso con le novità, e io avevo letto un’intervista a un esperto di Social network (o di social media, che devono essere i social network su internet), che lui diceva una cosa che all’epoca mi era sembrata sensata, che Facebook non era né buono né cattivo: che era un po’ come l’elenco telefonico, che poi dipendeva da te, se usarlo bene o male. Adesso, dopo un po’ di anni che lo uso, io credo che Facebook, che è tante cose insieme, sia un po’ diverso, dall’elenco telefonico, perché l’elenco telefonico, che a me piace molto, è una di quelle cose che son state utilissime e adesso non valgon più niente e portano, nella loro storia, un’idea di rovina che a me sembra bellissima, ma l’elenco telefonico, a me, per esempio, non mi ha mai detto che una che una cosa che dicevo io, per telefono, era bella; invece su Facebook, come sanno tutti quelli che usano Facebook, la differenza tra Facebook e l’elenco telefonico è che Facebook, lui, se tu metti per esempio una foto, su Facebook, o se scrivi una storiella, dopo pochi minuti c’è un po’ di gente che ti dice «Mi piace!».
Ecco, Facebook, diversamente dall’elenco telefonico, lui ha quella caratteristica lì che ti dice che tu piaci alla gente. Che è una cosa, come se fosse una macchina che, nel corso di una giornata, ti fa entrare dentro la casa centinaia di persone che ti dicono «Mi piaci!».
Detta così, non c’è molto da stupirsi, del successo di Facebook.
Io mi ricordo, quando ero piccolo, mi ero molto meravigliato quando avevo scoperto che non tutti mi volevano bene; mi sembrava una cosa stupefacente e un po’ ingiusta. Credo sia per quello che ho fatto un po’ delle cose che ho fatto, ma questo è un altro discorso, quello che volevo dire è che ci sono dei Social media, come Facebook, per esempio, che tutti i giorni ti dicono che c’è qualcuno, che magari tu non conosci neanche, che, in un certo senso, ti vuol bene. O che dice di volerti bene. Che non è la stessa cosa ma a te basta, se te la fai bastare.
Un mio amico, quando ha saputo che dovevo scrivere una serie di articoli sui Social network, mi ha girato un video di un comico americano, che si chiama Anthony Jeselnik, che dice che, quando succede un disastro, quelli che intervengono sui social Network per dire che i loro pensieri e le loro preghiere vanno alle vittime, in realtà non dicono quello (cosa se ne fanno, le vittime, dei loro pensieri e delle loro preghiere?). In realtà dicono: «Ricordatevi di me. Anche in un giorno così complicato, con tante distrazioni, ricordatevi di me».
Non mi sembra sia, neanche questa di Jeselnik, una descrizione esaustiva, ma non so come dargli torto.
Io, da parte mia, sui Social network, sul blog, su Facebook e su Twitter, cerco di non parlare dei disastri e delle cose di cui parlano tutti, o quasi tutti, ma di parlare di cose di cui non sa niente nessuno e che non interessano a nessuno, come le mie insignificanti giornate.
Ultimamente, per esempio, ho postato (anche questo, «postare», è un verbo relativamente nuovo significa pubblicare, o qualcosa del genere, credo) cinque pezzetti che mi permetto di copiare qua sotto.
Il 20 agosto: «Quando devo tradurre, come in questi giorni, nei momenti che sono stanco e mi devo riposare, mi metto a scrivere. E quando devo scrivere, nei momenti che sono stanco e mi devo riposare, mi metto a tradurre. Come in quella frase di Manganelli: “Come staremmo bene qui, se fossimo altrove”».
Il 23 agosto: «Certi giorni ho la casa così in disordine che mi vien vergogna e allora la metto in ordine; ci metto qualche ora, e poi dopo, il mattino dopo, nella mia cucina pulita e ordinata, dentro una casa pulita e ordinata, mi viene in mente quella cosa che diceva Jurij Lotman che diceva che la vergogna è sintomo di intelligenza».
Il 25: «Vorrei raccontare il mio pomeriggio usando la tecnica dello storytelling. È stato, finora, un pomeriggio che sono stato in casa a tradurre. E usando la tecnica dello storytelling lo racconterei così: questo pomeriggio, finora, sono stato a casa a tradurre. Questo era il mio pomeriggio raccontato con la tecnica dello storytelling. Arrivederci».
Il 26: «Vorrei raccontare la mia mattinata con la tecnica del narratore onnisciente. Un signore di una certa età, che abitava in provincia di Bologna, una domenica mattina, dopo aver lavorato per un paio d’ore (traduceva dei libri) aveva pensato “Adesso voglio proprio andare a correre”. E aveva smesso di tradurre era andato a correre. Questa era la mia mattinata raccontata con la tecnica del narratore onnisciente. Arrivederci».
Il 27: «Vorrei raccontare il mio pomeriggio di ieri con la tecnica dell’io narrante in prima persona. Ieri sono stato allo stadio Dall’Ara, a Bologna, a vedere il Parma contro la Spal, e è stata una partita bruttissima e commovente. Prima che cominciassero a giocare, hanno suonato l’inizio dell’inno della serie A, e io mi son chiesto se piace a qualcuno, al mondo, l’inno della serie A. E mi son risposto che non lo so. E poi il Parma ha perso. E io mi son chiesto, prima che il Parma perdesse, prima ancora che andasse in svantaggio, come mai mi commuove, il calcio. E mi sono risposto che non lo so. E che mi interessa, un po’.E questo era il mio pomeriggio di ieri raccontato con la tecnica dell’io narrante in prima persona. Arrivederci».
Ecco. E se si considera che social network (sono andato a vedere) significa «qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali», anche uno stadio, potrebbe essere un social network. Anche un partito politico. Anche una scuola, Anche una famiglia. Ma noi ci concentreremo sui social media. E la prossima volta parleremo di Twitter. Arrivederci.
[Uscito ieri sulla Verità]