venerdì 19 Gennaio 2018
Allora io, come ho detto anche l’altra volta, tengo per il Parma. E, come ho detto anche l’altra volta, sì, son contento, quando il Parma vince, ma quando il Parma perde io son quasi più contento ancora. Cioè secondo me, come ho detto anche l’altra volta, ha ragione il tennista Andre Agassi quando dice che, la prima volta che ha vinto il torneo di Wimbledon, ha scoperto un piccolo grande segreto, che vincere non cambia niente. Che una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E che quello che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente, dice Agassi.
Non è che son sempre stato così. Da piccolo mi piaceva, vincere. C’è stato un momento, in prima elementare, che mi ero messo a tenere per la Juventus. Vincevan sempre loro. Ma è durato pochissimo. Tre, quattro giorni. Mi vergognavo. Quando mi chiedevano «Tu per chi tieni?» rispondere «Per la Juventus», che vincevano sempre loro, mi sembrava di darmi tanta di quell’importanza. No no. Vuoi mettere rispondere «Per il Parma?». Molto più sensato. E quella cosa lì, che preferisco perdere, non come De Coubertin, che diceva che l’importante è partecipare, meno, di De Coubertin, perdere, quella cosa lì, dicevo, mi ha accompagnato per tutta la vita e quando ho cominciato a scriver dei libri, sul finire degli anni ’90, il terzo romanzo che ho pubblicato, che l’io narrante era uno che si chiamava Learco Ferrari, che voleva pubblicare dei libri e che teneva per il Parma, quel romanzo lì, che si chiamava Spinoza, cominciava con lui che raccontava come aveva cominciato a scrivere e diceva così: Continua a leggere »
mercoledì 29 Novembre 2017
Ho cominciato a tenere per il Parma nel 1970, quando avevo sei anni e il Parma giocava in serie D, nel girone B, e i suoi principali avversari erano il Crema, la Gallaratese, la Pergolettese e la Cremonese.
Ma ho cominciato a andare allo stadio qualche anno dopo, quando il Parma era in serie C, e i ricordi più vividi, della mia esperienza di tifoso del Parma, hanno a che fare col freddo.
Ho preso tanto di quel freddo, allo stadio Tardini di Parma; c’erano le sedute ancora di legno, tribune in tubi innocenti e assi di legno, e, quando il Parma perdeva, io mi ricordo che tornando a casa mi chiedevo “Ma cosa ci vado a fare, a prendere tutto quel freddo?”. Adesso lo so, cosa ci andavo a fare.
Un po’ ci andavo perché mi piaceva moltissimo la maglietta, del Parma, bianca con la croce nera, c’era solo il Parma, al mondo, con quella maglietta lì, un po’ ci andavo per vedere la gente, che tutta quella gente, i cosiddetti tifosi, a guardarli, anche loro, quando arrivavano, e quando andavano via, non avevan le facce di gente che andava, o veniva via da un posto dove si erano, dico una parola grossa, divertiti, no.
Avevan le facce di gente che, prima della partita eran preoccupati, che erano tesi, come se dovevan passare un esame, che poi era un esame che non lo davan neanche loro, come se assistevano a un esame che ci tenevan tantissimo che andava bene e non potevan far niente, che hai voglia studiare, interrogavano un altro, prima della partita, e dopo, se avevano perso, che erano delusi, che erano disincantati, di cattivo umore, che loro lo sapevano, che andava a finire così, che l’avevano detto, o che non l’avevano detto ma se lo sentivano.
Ho fatto anche delle trasferte, con le felpe, le giacche a vento, le corriere, i termo per il caffè, i biglietti con la filigrana, da conservare, le sciarpe, le radioline con le cuffie e anche lì, io ogni tanto anche allora, quando perdevamo, a tornare indietro, dopo essermi detto che io lo sapevo, che andava a finire così, che l’avevo anche detto, o che non l’avevo detto ma me lo sentivo, io mi chiedevo che senso aveva, e mi rispondevo che il senso era vincere solo che non sono d’accordo che il senso fosse vincere.
Perché, non so, per esempio, vincere, io mi ricordo l’Italia, i mondiali, le due volte che ha vinto che io mi ricordo, la gente sopra le macchine, con le bandiere, con le facce pitturate di blu, o di tricolore, a gridare, a suonare il clacson, a bere, non so, io non l’ho mica mai tanto capito, che gusto c’è, a vincere.
Secondo me, mi sbaglierò, ma quando perdi, che poi non perdi te, perdono loro, ma a te ti dispiace, e magari perdi quattro a zero, o cinque a uno, e nell’andare a casa guardi per terra e vedi tutte le foglie, tutte le crepe che ci son sull’asfalto e ti vien da pensare a tutto quello che non va mica bene nella tua vita, a tutte le cose che ti eri ripromesso che le facevi e poi non le hai fatte, tutto il freddo che hai preso, ecco secondo me, quei momenti lì, che te ti chiedi «Ma che vita sto facendo?», ecco secondo me son momenti che a me piaccion di più, di quando sei in centro, imbottigliato sopra una macchina, che canti l’inno nazionale con una bandiera in mano e la faccia dipinta di blu, o di tricolore o di biancocrociato o di qualsiasi altro colore.
Questa cosa io credo che, bene, l’abbia scritta un tennista che si chiama Andre Agassi in un libro che si intitola Open nel passo in cui racconta cos’ha pensato dopo che ha vinto il primo Wimbledon della sua vita (la traduzione è di Giuliana Lupi). «Ho la sensazione» ha scritto Agassi «di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto – vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente».
Ecco. Se dovessi scrivere di sport, di calcio, una volta ogni due mesi, per dire, io credo che non racconterei la vittoria più bella del bimestre. No. Io racconterei la sconfitta, più bella, del bimestre, se dovessi scegliere.
[Uscito sul numero di Soccer Illustrated che si trova in edicola]