sabato 27 Gennaio 2024
Allora una donna che stava dietro di me, con delle labbra blu e che, naturalmente, non aveva mai sentito il mio nome, si è riscossa dal torpore che ci avvolgeva tutti e mi ha chiesto in un orecchio (lì sussurravano tutti):
«Ma lei questo lo può descrivere?»
E io ho detto:
«Posso».
Allora una cosa che sembrava un sorriso è scivolato lungo quello che una volta doveva esser stato il suo viso.
Anna Achmatova
[Mi sono accorto stamattina che il libro Si sente? che raccoglie tre discorsi su Auschwitz che ho fatto a Cracovia, ha in epigrafe questa frase di Anna Achmatova]
venerdì 27 Gennaio 2023
E noi, come se fossimo tutti agli ordini di quella voce lì, quel giorno lì ci ricordiamo della Shoah. E ne parliamo, siamo qua per quello no? E andiamo ad Auschwitz, che va benissimo, ma il fatto che non sia una decisione che ciascuno di noi ha preso per conto suo, ma che abbiamo risposto a una specie di ordine, e di permesso, a me fa venire dei dubbi.
Cioè è come se noi fossimo un po’ al servizio di qualcuno, che si può chiamare, adesso sono argomenti enormi, però siamo qua per quello, per parlare di cose enormi, oggi abbiamo il permesso di parlare di cose enormi, e allora, scusatemi, io lo uso, è come se fossimo al servizio di qualcuno, o qualcosa, che si può chiamare: la storia.
Che quando succede, nel presente, adesso è una banalità, uno quando è dentro la storia, non se ne accorge, della storia. È come uno che vive di fianco alla ferrovia, i primi giorni non riesce a dormire, ma basta poi poco, qualche settimana, dopo qualche settimana non lo sente neanche, il rumore dei treni.
Il rumore dei treni, per lui, non esiste. E così, per noi, la storia, la storia a noi contemporanea, noi è come se abitassimo tutti in un appartamento al settimo piano che dà su uno snodo ferroviario ma ci abitiamo da tanto di quel tempo che se ci chiedono «Ti dà fastidio, il rumore dei treni?», ci vien da rispondere «Il rumore dei treni? Che rumore? Che treni?»
Questo non vuol dire che i treni non facciano rumore.
E non vuol dire che a concentrarsi, a tendere l’orecchio, come si dice, non si senta, quel rumore, il rumore che il treno della storia fa in questo preciso momento che noi siamo qui.
mercoledì 26 Gennaio 2022
Allora una donna che stava dietro di me, con delle labbra blu e che, naturalmente, non aveva mai sentito il mio nome, si è riscossa dal torpore che ci avvolgeva tutti e mi ha chiesto in un orecchio (lì sussurravano tutti):
«Ma lei questo lo può descrivere?»
E io ho detto:
«Posso».
Allora una cosa che sembrava un sorriso è scivolato lungo quello che una volta doveva esser stato il suo viso.
Anna Achmatova
[Domani, 27 gennaio, alle 19, sul mio profilo Instagram, La zona, discorso su Auschwitz e Birkenau]
venerdì 1 Maggio 2020
E, a proposito di Arbeit macht frei, un po’ di tempo fa, qualche anno fa, a Chieti, il presidente della Provincia ha promosso una campagna per l’impiego che aveva questo slogan: «Il lavoro rende liberi».
Il depliant che pubblicizzava questa campagna aveva una nota del presidente che diceva «Non è una frase mia, non mi ricordo dove l’ho sentita, l’ho sentita da qualche parte e mi è piaciuta moltissimo e credo che sia proprio d’attualità».
Dopo quando gli han fatto notare che era la frase che era scritta sui cancelli di Auschwitz, lui ha detto «Ah, ecco, dove l’avevo sentita». E comunque si è rifiutato di chiedere scusa perché secondo lui, quella frase lì, al di là del fatto di Auschwitz, secondo lui era proprio una bella frase.
[Si sente?, Milano, Marcos y Marcos 2014]
lunedì 27 Gennaio 2020
E a me sembra che l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita, l’unica strada che si può percorrere, sia preclusa dalla nostra educazione. Perché nonostante sia chiaro, come scrive Milgram, che il male derivato dall’obbedienza all’autorità è stato molto superiore rispetto a quello derivato dalla disobbedienza all’autorità, diffidare dell’autorità, ribellarsi all’autorità è esattamente il contrario di quel che ci insegnano fin da quando siam piccoli.
Ho finito
[Stanley Milgram citato in Esattamente il contrario, in Si sente? Tre discorsi su Auschwitz, Milano, Marcos y Marcos 2014, p. 67]
sabato 26 Gennaio 2019
Nel 1915, nel manuale A Civic Biology (Una biologia civica), che era il testo di biologia più diffuso nelle università americane, c’era scritto che fenomeni come l’alcolismo, l’immoralità sessuale e la criminalità erano da considerarsi come delle patologie senz’altro ereditarie, e si esortava di conseguenza all’applicazione di pratiche “scientificamente auspicabili” come la segregazione dei disgenici e la selezione degli individui adatti al matrimonio.
Nei primi anni Venti, negli Stati Uniti d’America escono degli studi sul calo delle nascite nei ceti medio-alti, e [qualche anno prima] il presidente Roosevelt dà il via a una grande campagna contro il «suicidio razziale», cioè contro il calo demografico della «gente migliore». Roosevelt sostiene che le donne del good stock che scelgono di non avere figli devono esser considerate come delle «criminali della razza». E ammonisce che «Il primo dovere di ogni buon cittadino, uomo o donna, di giusta razza, è quello di lasciare la propria stirpe dopo di sé nel mondo»; e che, allo stesso tempo, «non è di alcun vantaggio consentire una simile perpetuazione di cittadini di razza sbagliata. Il grande problema della civiltà» dice Roosevelt «è riuscire ad ottenere, nella popolazione, l’aumento degli elementi di valore rispetto a quelli di poco valore o che risultano addirittura nocivi».
Gli Stati Uniti d’America sono il primo paese che approva delle leggi eugenetiche.
Nel 1924, una donna della vostra età, diciotto anni, Carrie Buck, che, secondo un medico, il dottor Bell, direttore della colonia per epilettici e deboli di mente della Virginia, era un caso evidente di imbecillità morale ereditaria, essendo figlia e madre di persone affette da disturbi psichici, viene condannata alla sterilizzazione. La donna fa ricorso alla corte della contea, e, perso il ricorso, fa appello alla corte suprema, denunciando la violazione del quattordicesimo emendamento, secondo il quale nessuno può essere privato della propria vita, della libertà o della proprietà senza un giusto processo. La corte dà torto alla donna, con queste parole, scritte dal giurista di fede progressista Oliver Wendell Holmes: «Abbiamo visto più di una volta come il bene pubblico possa richiedere ai migliori cittadini la loro vita. Sarebbe strano se esso non potesse ormai chiedere a coloro che hanno indebolito lo stato un sacrifico minore, allo scopo di prevenire noi stessi dall’essere sommersi dall’incompetenza. Tre generazioni di imbecilli» scrive il giudice della corte suprema nella sentenza «sono sufficienti».
[Da Esattamente il contrario, che è, anche, dentro Si sente?]
sabato 27 Gennaio 2018
Lo scienziato italiano Guido Barbujani, in un libro che si intitola Questione di razza, chiarisce che le differenze genetiche tra Luciano Pavarotti e Nelson Mandela sono simili a quelle che ci sono tra Luciano Pavarotti e un modenese o un carpigiano qualsiasi.
Ma allora, alla fine dell’ottocento, queste cose non si sapevano, e anche adesso, a dir la verità, non tutti le sanno, se è vero che ogni tanto si parla di popoli che avrebbero «iscritta nel proprio DNA una particolare ferocia».
Io l’ho sentito detto al parlamento italiano da un deputato di Alleanza nazionale, del popolo slavo, il giorno della strage in cui sono morte la mamma e il fratello di Erika, la morosa di Omar. Il giorno dopo Erika e Omar hanno confessato che eran stati loro. Figura di merda.
Comunque Cristian Fuschetto, in Fabbricare l’uomo scrive che è evidente che, nella prospettiva di Galton, se si considera l’umanità come degli stock di persone, alcuni adatti, altri inadatti, tra l’allevamento (cioè il governo dell’evoluzione biologica) e la politica (cioè il governo dell’organizzazione sociale), smettono di esserci delle differenze sostanziali.
Infatti alcuni discepoli di Galton, per esempio il genetista americano Charles Davenport, auspicano per gli accoppiamenti umani quello che gli uomini fanno con i cavalli: una pianificazione scientifica dettata da parametri biologici e volta al perfezionamento.
Un altro discepolo di Galton, un francese, Georges Vacher de Lapouge, nel 1880, elabora uno studio su come realizzare l’uomo perfetto. E, a questo scopo, teorizza un programma di inseminazione artificiale aperto a un ristrettissimo numero di maschi di assoluta perfezione, che hanno il compito di inseminare tutte le femmine degne di perpetuare la razza.
E dieci anni dopo un altro discepolo di Galton, l’italiano Angelo Zuccarelli, conclude che l’unico modo per arrivare al perfezionamento sociale, per purificare la società, è far conoscere alle masse la nuova scienza, in modo che i tanti che si trovano in sventurate condizione di salute e costituzione organica chiedano essi stessi e sollecitino, spontaneamente, il mezzo sicuro della sterilità volontaria.
E lo stesso Galton, per mettere in pratica i principi eugenetici, propone i matrimoni selettivi, e la segregazione degli inadatti, e l’immigrazione selettiva.
Il criterio che Galton propone per scegliere tra adatti e inadatti è l’integrazione sociale, cioè, traduce Fuschetto, il successo. Una delle malattie che rendevano inadatti, una delle tare che gli eugenisti consideravano ereditarie era il pauperismo. Cioè: la povertà. Gli adatti, eran quelli che avevan successo, i ricchi; gli inadatti eran quelli che non avevan successo, i poveri.
Queste cose, allora, le insegnavano nelle università, a Londra, negli Stati Uniti d’America, in Svezia, in Norvegia, in Italia, in Svizzera.
Nel 1911 l’università di Oxford organizza il primo congresso mondiale di eugenetica e nella commissione di presidenza c’è, tra gli altri, Winston Churchill, che era allora ministro della marina militare, e Lord Alverstone, che era ministro della giustizia, e Charles Eliot, presidente dell’università di Harvard, e Alexander Bell, inventore del telefono.
mercoledì 27 Gennaio 2016
Mercoledì 27 gennaio,
a Fabbrico (RE),
nel foyer del teatro comunale,
alle 20 e 45,
Si sente?
mercoledì 27 Gennaio 2016
Eran così poveri, anzi, c’era una miseria, a Parma si dice «In casa nostra c’era una miseria, che quando siam diventati poveri abbiam fatto una festa».
[Noi la farem vendetta?, da Si sente? stasera a Fabbrico]
mercoledì 28 Gennaio 2015
Buona sera. Si sente? Grazie. Buonasera. Mi presento: mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, ho 47 anni, e scrivo dei libri. In uno dei libri che ho scritto, che si intitola Spinoza, ho raccontato, più o meno, perché ho cominciato a scrivere, è un pezzo brevissimo che mi permetto di leggervi, e fa così:
Da piccolo facevo il portiere. Giocavo nella squadra del quartiere dove abitavo, il quartiere Montebello. Portiere degli allievi della Montebello. Allora una volta, ero lì che dovevo rinviare coi piedi, mi sono chiesto improvvisamente Chi me lo fa fare a me, di rinviare la palla coi piedi?
C’erano i miei compagni, tutti voltati verso di me, aspettavano tutti che rinviassi la palla coi piedi. C’erano gli avversari, tutti voltati verso di me, aspettavano tutti che rinviassi la palla coi piedi. E io ero lì, la palla in mano, avevo appena fatto una parata, facile, colpo di testa senza forza, dritto tra le mie braccia, ero lì che cercavo di ricordarmi chi me lo faceva fare, di rinviare la palla coi piedi.
C’erano i panchinari della mia squadra, tutti voltati verso di me, aspettavano tutti che rinviassi la palla coi piedi. C’erano i panchinari della squadra avversaria, tutti voltati verso di me, aspettavano tutti che rinviassi la palla coi piedi. C’era l’allenatore della squadra avversaria, tutto voltato verso di me, aspettava tutto che rinviassi la palla coi piedi. C’era il mio allenatore, gridava Che cazzo fai? Muoviti! Io stavo lì, col pallone in braccio, pensavo, pensavo.
C’erano i guardalinee, tutti voltati verso di me, aspettavano tutti che rinviassi la palla coi piedi. C’era l’arbitro, tutto voltato verso di me, aspettava tutto che rinviassi la palla coi piedi. Poi dopo ha fischiato. Punizione a due in area per la squadra avversaria.
Battono, tirano, gol.
Cominciato a scrivere.