I cappotti

mercoledì 4 Maggio 2016

Sklovskij, c'era una volta

Pietrogrado soffriva il suo primo assedio.
Ancora non esistevano le stufette di ferro portatili, erano appena apparse, le forgiavano con le insegne di ferro.
Noi si riscaldava con tutto; brucai scaffali, il telaio d’una scultura e libri, senza numero e senza misura.
Borìs Èjchenbaum si procurò una stufa da trincea, sedeva davanti ad essa, rivedeva le riviste; vi strappava le cose più importanti, il resto lo bruciava. Non poteva bruciare i libri senza averli letti.
Io bruciavo tutto. Se avessi avuto mani e piedi di legno avrei bruciato anche loro in quell’anno.
Le piccole case di legno venivano divorate dalle grandi case di pietra. Comparvero rovine artificiali. Il gelo azzannava le pareti delle case, ghiacciandole sino alle tappezzerie; la gente dormiva vestita. Se ne stavano nelle camere con i cappotti abbottonati.

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, traduzione di Sergio Leone, Milano, Il Saggiatore 1968, p. 222]

Come si deve studiare secondo il babbo di Šklovskij

venerdì 1 Aprile 2016

Sklovskij, c'era una volta

Mio padre viveva vendendo le sue cose; in fretta e quasi con gioia distruggeva la vecchia casa.
Andò a insegnare ai corsi di artiglieria. Era contento dei suoi nuovi allievi, del nuovo tempo, del fatto che alla fine dell’anno gli allievi licenziandi lo reggevano sulla sedia con rispetto. Benché fosse già vecchio, insegnava bene. Gli volevano bene. Voglio rammentarmi le sue parole. Diceva che studiare è molto semplice, soltanto non ci si deve sforzare.
«L’importante è non sforzarsi».

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, traduzione di Sergio Leone, Milano, Il Saggiatore 1968, p. 56]

Non esiste una forza

domenica 22 Novembre 2015

Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie

Non esiste una forza che sia riuscita a strappare di dosso, a noi russi, la funesta inclinazione alle arti: non c’è riuscito il pidocchio portatore di tifo, né il fango gelatinoso di periferia che t’arriva alle caviglie, né la mancanza di cessi, né la guerra, né la rivoluzione, né i guanti consunti fino alle unghie.
Possiamo dire d’essere delle nature nobili.
Sto tornando a notte inoltrata dalla casa d’un amico. Nel cielo una nube come un lavabo di ferro col rubinetto rotto d’una casa di campagna: butta giù una pioggia maledetta, continua, ininterrotta.
I marciapiedi della Tverskaja sono neri, lucidi come il mio cilindro. Mi appresto a svoltare nel vicolo Kozickij. D’un tratto dall’altro lato della strada sento:
– Straniero, fermati!
Gli ingenui erano stati ingannati dal mio cilindro e dal cappotto di sartoria.
Cinque uomini si scostarono dal muro.
Mi fermo.
– Cittadino straniero, i suoi documenti!
Un cocchiere col suo vecchio cavallo arrancava sulle pozzanghere del selciato irregolare. Guardò dalla nostra parte, e via, frustando il suo bucefalo che partì a razzo: non era mica stupido. Nei pressi del caffè Lira, all’angolo del vicolo Gnezdnikovskij, un guardiano sonnecchia nella sua giacca rossa. Un attimo e già sgattaiola nella viuzza, e chi s’è visto s’è visto.
Non un’anima viva. Non un cane randagio. Non un pallido lampione. Chiedo:
– In base a quale diritto, compagni, volete i miei documenti? Avete il mandato?
– Il mandato?…
E un ragazzo col berretto da studente e il viso pallido e sciupato, come un cuscino non sprimacciato dopo la notte, agitò davanti al mio naso un revolver:
– Ecco il mandato, cittadino!
– Ma allora volete il cappotto, non i documenti!
– Grazie a Dio, l’ha capita…
E come per aiutarmi a togliermi i paramenti, il ragazzo dal viso sciupato si appostò dietro di me, come il portiere di un buon albergo.
Provai a scherzare. Ma non era il momento. Il cappotto me l’avevano appena confezionato. Di buon taglio, stoffa inglese di ottima qualità.
Il viso sciupato mi guardava malinconicamente.
E quando, scoraggiato al massimo, già mi stavo sfilando le maniche, in mio aiuto giunse puntualmente l’amore senza confini dei russi per l’arte.
Uno della cordiale compagnia, dopo avermi osservato, chiese:
– E come ti chiami, cittadino?
– Mariengof…
– Anatolij Mariengof…
Piacevolmente sorpreso dalle dimensioni della mia fama, ripetei con orgoglio:
– Anatolij Mariengof!
– L’autore di Magdalena?
In quell’istante fortunato e magico della mia vita non solo ero pronto a consegnare loro il cappotto di sartoria, ma ad aggiungervi spontaneamente pantaloni, scarpe di vernice, calzini di seta e fazzoletto.
Nonostante la pioggia! Nonostante non fosse molto dignitoso tornare a casa in mutande! Nonostante l’equilibrio spezzato del nostro bilancio! Nonostante! Mille volte nonostante! E tuttavia quanto è complesso, appetitoso, prelibato il lauto pasto per l’ambizione dell’ingordo Falstaff che abbiamo dentro di noi!
Occorre dire che i miei conoscenti notturni non toccarono il cappotto, il capo che aveva scoperto in me Mariengof si profuse in mille scuse, mi accompagnarono amabilmente fino a casa e, nel salutarli, strinsi loro forte le mani e li invitai alla Stalla di Pegaso ad ascoltare le mie nuove composizioni.

[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, pp. 31-32]