sabato 6 Aprile 2019
Nel De vulgari elquentia, Dante scrive che «la lingua volgare è quella che, senza bisogno di alcuna regola, si apprende imitando la nutrice. Abbiamo poi anche, – continua Dante, – oltre a questa, una seconda lingua che fu chiamata dai Romani “gramatica”. Questa seconda lingua è posseduta anche dai Greci e da altri popoli, ma non da tutti. Poche sono d’altronde le persone che giungono alla padronanza di essa, perché non si apprendono le sue regole e non ci si istruisce in essa se non col tempo e con l’assiduità dello studio. La più nobile di queste due lingue, – scrive Dante, – è il volgare, sia perché fu la prima a essere usata dal genere umano, sia perché tutto il mondo ne fruisce (pur nella diversità di pronuncia e di vocabolario che la dividono), sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale. Proprio di questa lingua più nobile è nostro intento trattare», conclude Dante (la traduzione dal latino è di Sergio Cecchin). Un mio amico, Giuseppe Faso, saputo che mi occupavo di questa cosa (in un libro sul Morgante di Pulci) mi ha raccontato che alcuni dantisti ritenevano questa una contraddizione e proponevano, fino all’ottocento, nelle edizioni a stampa del De vulgari eloquentia, di sostituire quel «più nobile», «Nobilior», in latino, con un «più mobile» («Mobilior»). Che è una cosa che a loro non sembrava contraddittoria e che invece a me sembra incredibile, devo dire.
venerdì 22 Gennaio 2016

Cominciamo dunque con l’asserire che saper discernere fra i vocaboli non è uno dei compiti più facili per la ragione: a quanto vediamo, se ne possono infatti trovare di parecchie specie. Alcuni vocaboli vengono sentiti come femminei, alcuni come virili; taluni di questi ultimi ci appaiono poi agresti, altri invece urbani. Infine, alcuni dei vocaboli che chiamiamo «urbani» ci sembrano pettinati e lisci, altri invece irsuti e ispidi. Sono appunto questi vocaboli «pettinati» e «irsuti» quelli cui diamo il nome di «grandiosi»; i vocaboli che nel suono presentano una ridondanza li definiamo invece «lisci» e «ispidi». Così avviene anche per le grandi imprese: alcune sono opere di magnanimità, altre invece di presunzione. Anche qui infatti una ragione che sa ben giudicare vedrà chiaramente che, quando si viola la ben determinata linea della virtù, anche quello che a un’osservazione superficiale pare un innalzamento, non risulta tale, ma è invece un rovinare lungo l’opposto pendio.
Considera dunque attentamente, o lettore, che bisogno ci sia del vaglio per separare la pula delle parole eccellenti. In considerazione del volgare illustre (quello che, come si è detto prima, deve essere usato dai poeti tragici volgari, cui noi rivolgiamo il nostro insegnamento) avrai cura infatti che nel tuo vaglio rimangano solo i vocaboli più nobili. Fra questi non potrai assolutamente annoverare né i vocaboli «infantili» (come mamma e babbo, mate e pate) causa della loro semplicità, né quelli «femminei» (come dolciada e piacevole) a causa della loro mollezza, né quelli «agresti» (come greggia e cetra) a causa della loro ruvidezza, né i vocaboli «urbani» «lisci» e «ispidi», come femina e corpo. Vedrai dunque che ti restano soltanto i vocaboli «urbani» «pettinati» e «irsuti», che sono i più nobili e costituiscono le membra del volgare illustre. Secondo la nostra definizione sono «pettinati» i vocaboli trisillabi (o vicinissimi ai trisillabi), senza aspirazione, senza accento acuto e circonflesso, senza le consonanti doppie z o x, senza liquide geminate, senza mute seguite da liquide: vocaboli che, quasi fossero levigati, lasciano in chi parla una certa soavità, come amore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securate, defesa.
[Dante, De Vulgari Eloquentia, Libro secondo, capitolo VII, in Opere minori di Dante Alighieri, Vol. II, Utet, Torino 1986, cura e note di Sergio Cecchin]