Qualcosa
Il primo di luglio mi han telefonato mi han detto che una mia amica, che da quattro anni ha un tumore, sta molto male. Non riesce più a camminare, non muove le gambe, e fa fatica anche a muover le mani. Ha poco più, o poco meno, non lo so di preciso, di quarant’anni, e due bambini piccoli, una di cinque e uno di otto anni. Ha un tumore in bocca. “Di solito viene agli alcolizzati anziani”, mi ha detto quattro anni fa, quando mi ha raccontato quello che le stava succedendo, prima della prima operazione che le hanno fatto, gliene hanno fatte poi altre tre. Lei era praticamente astemia, aveva meno di quarant’anni.
Quando mi han detto così, il primo di luglio, ho scritto una mail alla mia amica, non le scrivevo da mesi, e poi ho pensato a un saggio di Daniele Giglioli, che era appena uscito per Quodlibet.
Il saggio si intitolava Senza trauma, e partiva dall’idea che “il tempo che stiamo vivendo possa essere definito come il tempo del trauma senza trauma; meglio ancora, del trauma dell’assenza di trauma”.
La mia amica ammalata di tumore, la cosa che le premeva di più, nel corso della sua malattia, era continuare a lavorare. Ha lavorato quasi sempre, prima da casa, poi in casa editrice, poi ancora da casa, poi ancora in casa editire, lavora in una casa editrice. Mi ha ricordato mio babbo, che è morto di tumore ai polmoni nel 1999, aveva quasi settantanni, e quando pensava a una possibile guarigione, la cosa che lo faceva star bene, era l’idea che sarebbe tornato su un cantiere, mio babbo lavorava sui cantieri.
Secondo Giglioli noi, oggi, non vivendo traumi, li immaginiamo dovunque. È “come se fossimo così traumatizzati dall’assenza di traumi reali da doverci constringere a inseguirli ansiosamente in ogni situazione immaginaria possibile. Immaginaria o perché fittizia, o perchè comunque accessibile soltanto in absentia, da lontano, non qui”.
A me piace moltissimo il modo in cui la mia amica ha parlato, in questi anni, del suo tumore. Era come se, con l’accanirsi della malattia, si accanisse anche lei, sempre di più, nella sua restistenza. Mi ha fatto venire in mente (e gliel’ho detto, una volta) quando nella Leningrado assediata dai nazisti c’è stata, il 5 marzo del 1942, la prima della settima sinfonia di Šostakovič. Come per dire: “Voi ci assediate? Voi pensate di ridurci alla fame? E noi ci mettiamo i nostri vestiti migliori, e andiamo nel nostro migliore teatro a sentire eseguire dai nostri migliori musicisti l’ultima sinfonia del nostro migliore compositore”. Continua a leggere »