La vergogna delle scarpe nuove
Una lettura integrale, del 2006, regia di Simone Cireddu: Clic
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Dopo poi comunque Seneghe è un paese, nei giorni del festival, che è pieno di cartelli con le scritte dei poeti, come quella cosa di Wisława Szymborska che dice «Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne» e appena sono arrivato, l’altroieri, a me è venuta in mente quella cosa che aveva scritto una volta Zavattini in una lettera che aveva scritto «Io sono un pessimista ma me ne dimentico sempre».
Ieri, a Seneghe, mi hanno detto «Stai invecchiando bene», che doveva essere un complimento ma io non ero tanto contento, quando me lo son sentito dire.
Venerdì 2 settembre,
a Seneghe,
nella piazza dei balli,
alle 21 (se non sbaglio)
leggo La Svizzera
(dura un’ora e venti)
Venerdì 2 settembre,
a Seneghe,
alle 10,
Repertorio dei matti della città di Cagliari
Le scuole elementari di scrittura emiliana all’estero per minorenni e per maggiorenni erano due, una con dei ragazzi tra gli undici e i tredici anni, al mattino, una con delle persone dai 13 ai 65 anni, la sera, per due giorni consecutivi, lunedì e martedì, a Seneghe. Il giorno prima di iniziarle, domenica sera, mi sono accorto che avevo preso su pochi libri, e ho pensato che non avrei saputo cosa leggere, e cosa dire, e che sarebbero andate male, ero preoccupato. Dopo, come succede di solito, siccome ero preoccupato sono andate bene. Quando sono tranquillo invece di solito vanno poi male. Lunedì notte, visto che quelle di lunedì erano andato bene, ero molto più rilassato, a pensare a quelle di martedì, ero abbastanza tranquillo che sarebbero andate bene. Solo che, essendo tranquillo, ho pensato che sarebbero andate male, e mi son preoccupato ancora. Solo che, essendo preoccupato, ho pensato che sarebbero andate bene, e mi sono tranquillizzato. Solo che, essendo tranquillo, ho pensato che sarebbero andate male e mi sono preoccupato.
E così via.
Una volta, circa cinquant’anni fa, a San Cesario sul Panaro, era una mattina freddissima di marzo di uno di quei periodi d’inverno spostati in avanti, che il freddo era arrivato tradi, però non voleva più andar via. Infatti dicono che è rimasto sottozero per un’altra quarantina di giorni. C’erano una quindicina di lavoranti che potavano le viti di un vigneto, posto a mezzo chilomentro da San Cesario, e tra questi c’era uno, detto Saponetta, che era tre o quattro giorni che non riusciva a andare in bagno. A un certo punto Sapoentta ha detto agli altri che doveva assolutamente correre a cagare, se no si cagava adosso, e quegli altri gli hanno detto di andare più in là, dopo la strada. Saponetta è andato, ha fatto, poi è tornato, e era tutto contento di esser riuscito a svuotarsi, poi ha detto che una cosa così non l’aveva mai fatta prima in vita sua né per grandezza e neanche per lunghezza. Allora qualcuno degl altri lavoranti che doveva pisciare andava a vedere e quando tornava gli diceva “Dio canta, Saponetta, ma che merda hai fatto” e così, chi prima e chi dopo, tutti quelli che erano lì a potare, prima di andare a casa, sono andati a vedersi la merda di Saponetta. E quando han finito di lavorare e sono tornati a casa l’han detto ai loro famigliari che l’han detto a degli altri e c’è stata un po’ di gente che di nascosto è andata a vedere e si è sparsa la voce della merda di Saponetta. E visto che è stato sottozero per altri quaranta giorni, la merda di Saponetta si coservava perché era come se l’avesero messa nel frizer e è partita la procesione. Dicono che in quei quaranta giorni, qualcuno di nascosto e qulcuno in compagnia, tutto San Cesario è andato a vedere la merda di Sapoentta. Poi finalmente è arrivato più caldo e la merda di Saponetta, come tutte le cose, si è decomposta e è sparita.
[Ugo Cornia, Le storie di mia zia (e di altri parenti), Milano, Feltrinelli 2008, pp. 68-69, cit. in La matematica è scolpita nel granito, bozze]
Ieri pomeriggio, dopo pranzo, mi ero fermato nella mia stanza per scrivere il diario di ieri, cinque cartelle, sono arrivato all’incontro di Loi in ritardo. Che è una cosa strana, pensarci. Quelli che devono scrivere i diari, son quelli che non hanno tempo, di vedere le cose. Allora che diari scrivono? Anche quando son lì a vedere le cose, si devon fermare continuamente nella loro visione per prendere nota. I diari li dovrebbero scrivere quelli che non li devono scrivere, che loro sì, che han del tempo dentro la testa per vedere le cose nella loro interezza. Ma poi, se li scrivessero, diventerebbero quelli che scrivono i diari che non hanno più tempo, dentro la testa, di vedere le cose nella loro interezza. E allora? Questa cosa mi ricorda una lettera del grande scrittore russo Daniil Charms, ma andiamo avanti.
Dell’incontro con Loi, nella percezione frammentata che ne ho avuto, mi sono segnato «L’e al dì di morti, alegher». Poi mi sono segnato che Tessa era amico di Toscanini. Toscanini ha colpito la mia immaginazione frammentata per via che è di Parma. Anch’io sono di Parma. Anche Alberto Bevilacqua, del resto.
Poi mi sono segnato che la segretaria di Tessa si chiamava Irma, come mia figlia. Poi mi sono segnato «Disi che quan ven not / l’ünica / en i grapòt».
Poi mi sono segnato che Franco Loi è uno che sta bene nei suoi vestiti, nei suoi gesti, nella sua voce. Mi sembra uno che sta bene nella sua vita, mi sono segnato.
Poi mi sono segnato «Ciapa / la porta / e pröva / la biciclèta növa».
Poi mi sono segnato «Tü truck / tu truck. Titirlìk, titirlèk. Titirlìk, titirlèk». Poi mi sono segnato «El Besamon». E poi ancora «Tü truck / tu truck. Titirlìk, titirlèk. Titirlìk, titirlèk».
E poi ho pensato che senza che gli spiegassero niente, a sentire Loi che leggeva Tessa, uno capiva che la poesia è fatta di suoni. E questa cosa mi ha fatto venire in mente una lettera che lo scrittore russo Daniil Charms scriveva al suo amico Nikandr Andreevič, nel 1933. Ma andiamo avanti. Facciamo solo una piccola pausa che devo andare in bagno.
[Dalle bozze di La matematica è scolpita nel granito]
Dopo, sempre quella notte, a un altro tavolino dello stesso bar, stavamo parlando con Diego Zucca dello scrittore francese Perec e dei suoi palindromi, che son quelle frasi che si leggono nello stesso modo da destra a sinistra e da sinistra a destra, per esempio Bob, è un nome palindromo, o Anna, Bob, boB, Anna, annA, e c’è della gente che di palindromi ne fa tantissimi e molto lunghi, io l’unico che son riuscito a fare è Onan è nano, che non è molto bello, poi ne ho fatto un altro che non è proprio un palindromo, è Bob ama Anna, che letto al contrario diventa Anna ama Bob, un po’ una cazzata, non son molto bravo, invece Diego Zucca è bravissimo a fare i palindromi e Perec era proprio una campione, ha fatto il palindromo più lungo del mondo, stavamo parlando di quello, con Diego Zucca, e Luciano Marrocu, che ha qualche anno più di me che ho qualche anno più di Diego, Luciano ci ha guardato ci ha detto «Ma voi, invece di far dei palindromi, perché non fate la rivoluzione?».
[Dalla bozza di La matematica è scolpita nel granito]
Renat Sette ha una gran bella faccia, Guarda che bella faccia, ho pensato, e dopo quando Tore l’ha presentato a un certo punto ha detto che fa il muratore Ah, ho pensato, è per quello. Avete visto la faccia di Ivano Ferrari, lui ieri mi ha chiamato Neri, io ho pensato Adesso lo chiamo Ferreri, ma poi ciò parlato ha una faccia troppo bella, per chiamarlo Ferreri, avete visto che bella faccia che ha, avete sentito quando parla come parla bene? Per forza, ha lavorato in un macello.
Non so, pensate a Veltroni. Io non mai stato comunista, ha scritto Veltroni. Si vede. Anche questa cosa potrebbe avere delle conseguenze. Questo mi ricorda un pezzetto del grande scrittore russo Daniil Charms. Andiamo avanti.
Dopo Renat Sette canta un canto religioso del dodicesimo secolo, e lì succede una cosa, che è difficile da spiegare, che in un attimo, tutti quelli che son lì, diventiamo improvvisamente una cosa sola.
Che è una cosa che è successa anche ieri con Cristina Donà. Ci son stati dei momenti, con Cristina Donà, che in questa piazza non c’era più nessuno. Flavio, non c’era. Paola, non c’era, Tore, non c’era, Marcello, non c’era, Alberto, non c’era, Luciano, non c’era, Elisa, non c’era, Lara, non c’era, Francesca, non c’era, Simone, non c’era, non c’era più neanche Cristina Donà, c’era una piazza di quattrocento persone che era come una bestia che respirava.
Questa è una cosa rarissima, che rarissimamente succede, anche con la poesia ne ha parlato ieri Antonella Anedda, quando ha raccontato della prima poesia di Aleksandr Blok che ha sentito per radio, che le ha aperto uno squarcio di cielo.
E questa cosa è successa anche a me, nel 1989, all’università di Parma, quando la mia professoressa di russo ha letto una poesia di Blok in lingua originale e improvvisamente qualcosa di azzurro ci ha avvolti e se ci penso, a diciassette anni di distanza, mi viene da piangere, come oggi con Renat Sette.
[Dalle bozze di La matematica è scolpita nel granito. Diari del Cabudanne de sos poetas 2006-2010, che dovrebbe uscire, a Seneghe, e forse anche dalle altre parti, il 28 novembre 2010]