Per il resto
Per il resto continuai a rigirarmi nella testa le parole dell’editore, e poiché il buono che potevo trovarci risultò sempre più esile, l’irritazione iniziale si mutò in rabbia. A scuola quella parola non piaceva, maestri e professori ci correggevano. No rabbia – ci rimproveravano – si dice ira, la rabbia ce l’hanno i cani. Ma la lingua napoletana che si parlava nel Vasto, al Pendino, al Mercato – i quartieri in cui ero cresciuto io e prima erano cresciuti mio padre, i nonni e i bisnonni, forse tutti i miei antenati – non conoscevano la parola ira, l’ira di Achille e di altri attivi dentro i libri, ma solo ‘a raggia. La gente di questa città, pensai, di questi quartieri e piazze e strade e vichi e banchine del porto piene di fatica e carichi e scarichi illegali, s’arraggiava, non s’adirava. S’arraggiava a casa, per strada, soprattutto quando vagava in cerca di soldi senza trovarne. E spesso bastava poco per azzannarsi con altri arraggiati. La raggia, sì, la raggia, altro che l’ira. Ti sei adirato? Vi siete adirati? Si sono adirati? Macché. Maestri e professori ci davano un vocabolario che era inservibile per quelle strade. Lì c’era una città di cani e l’ira non aveva niente a che fare col sangue agli occhi che mi veniva per vie come appunto quella che stavamo imboccando adesso e che portava su corso Garibaldi. Quando uscivo di scuola e non avevo voglia di tornare a casa perché ero furibondo contro compagni aguzzini, contro professori sadici, era la rabbia che mi rompeva il petto, gli occhi, la testa, e per calmarmi facevo il giro lungo, andavo fino a Porta Nolana, a volte imboccavo via San Cosmo, altre volte, col sangue che non si acquietava, andavo per il Lavinaio, andavo al Carmine, camminavo selvatico per spazi scempiati, raggiungevo il Porto. E guai se per strada qualcuno distrattamente mi urtava, bestemmiavo santi e madonne, ero non adirato ma arraggiato, e ridevo sfottente, poi sputavo, tiravo mazzate sperando di riceverne. Oggi nessuno che mi conosca lo direbbe, ma ero proprio così. Quanto sarebbe bello – mi dissi – tornare a Milano e dopo più di mezzo secolo risorgere come stato da adolescente, andare dritto filato in corso Genova, imboccare l’edificio dove ha sede la casa editrice, salire al terzo piano e senza preamboli sputare in faccia al piccolo scostumato signorino che ha criticato il mio lavoro: non solo quelle tavole, no, ma tutto il lavoro di una vita, senza rispetto.
[Domenico Starnone, Scherzetto, Torino, Einaudi 2016, p. 34-35]