domenica 10 Giugno 2018
I primi di febbraio, a Bologna, un mattino che pioveva ma non fortissimo, un mattino presto, alle sei del mattino, dovevo andare in stazione che avevo un treno per Pavia, dovevo andare al collegio Borromeo di Pavia a parlare di traduzione a degli studenti e, intanto che andavo in stazione in bicicletta, quel mattino alle sei, io ormai sono una decina d’anni che traduco dei romanzi dal russo, perché ho studiato russo, quand’ero giovane, e quel mattino alle sei, a Bologna, ho pensato che io, che prima di mettermi a studiare russo ho lavorato per un anno e mezzo in Algeria, sulle montagne del piccolo Atlante, e per un anno e un po’ a Baghdad, in mezzo alla guerra Iran – Iraq, mi è venuto da pensare che, per me, studiare russo è stata un’avventura più grande delle montagne del piccolo Atlante e della guerra Iran – iraq, è stata una cosa che ha cambiato il mio modo di camminare, di pensare, di muovermi, di dormire, di leggere, di parlare, di mangiare, di immaginare, di stare fermo, di ridere, di piangere, di sospirare, di disperarmi, di chiedere scusa, di arrabbiarmi, di concentrarmi e di portare pazienza e è una cosa che, se non l’avessi fatta, nella mia vita, chissà dove sarei andato a finire. E ho pensato che gliel’avrei detto, quel giorno lì, agli studenti che avrei incontrato a Pavia. Dopo poi gliel’ho detto, e dopo che gliel’ho detto mi è venuto da pensare a un libro di una scrittrice americana che si chiama Elif Batuman che ha scritto un libro che è stato pubblicato in Italia da Einaudi nel 2012, I posseduti (Storie di grandi romanzieri russi e dei loro lettori), e che è stato tradotto da Eva Kampmann. Secondo Elif Batuman La montagna magica (o Montagna incantata), di Thomas Mann, nonostante sia un libro molto complesso, pone una domanda semplicissima: «come fa una persona che di fatto non è affetta da tubercolosi a trascorrere sette anni in sanatorio? Da parte mia – scrive la Batuman, – mi pongo spesso una domanda simile: come fa una persona che in realtà non aspira a una carriera universitaria a passare sette anni in un sobborgo californiano a studiare la forma del romanzo russo?». I posseduti racconta questi sette anni ed è, in un certo senso, il racconto di un’inspiegabile ostinazione.
«Alcuni russi si mostrano scettici, – scrive la Batuman, – o addirittura si offendono quando uno straniero afferma di interessarsi di letteratura russa. Ricordo ancora l’agente addetto al controllo passaporti che timbrò il mio primo visto per motivi di studio. Mi suggerì che magari c’era qualche scrittore americano – Jack London, per esempio, – che avrei potuto studiare in America: – La lingua sarebbe più facile e lei non avrebbe bisogno di un visto”. E dopo mi è sembrato chesSarebbe bello fare un libro composto da racconti semplicissimi che raccontano le cose che sono successe agli stranieri posseduti dalla letteratura e dalla cultura russi, e i giri, e le avventure, e le guerre che hanno visto, e vissuto, e percorso in virtù di questa possessione. Ci si chiederà forse cosa c’entrano queste storie con Sardinia Post Magazine. Mi sembra che c’entrino per via del fatto che io, fatte le debite proporzioni, son sicuro di sbagliarmi, ma ho l’impressione che la regione italiana più russa sia la Sardegna, e credo che sarebbe bello fare un libro composto da racconti semplicissimi che raccontino le cose che sono successe ai non isolani posseduti dalla letteratura e dalla cultura, e dalla gastronomia, e dalla geografia sarda, e i giri, e le avventure, e le guerre, che hanno visto, e vissuto, e percorso in virtù di questa possessione, a cominciare, non so, da Gigi Riva, per esempio, o da Fabrizio De Andrè, ma non necessariamente gente famosa, no, un libro che, in parte, riprenda Vita di uomini non illustri, di Giuseppe Pontiggia, però vero, senza invenzioni. Sarebbero, il primo, un libro che forse direbbe, quasi senza volerlo, delle cose interessanti sulla Russia, il secondo, un libro che forse direbbe, quasi senza volerlo, delle cose interessanti sulla Sardegna.
[Questa cosa è uscita quattro mesi fa su Sardinia Post Magazine e mi sembra di non averla mai messa, qua, ma magari mi sbaglio]
sabato 9 Giugno 2018
L’ultima volta, su questa rubrica, ho raccontato che io, siccome ho studiato russo, penso che sarebbe bello fare un libro composto da racconti semplicissimi che raccontano le cose che sono successe agli stranieri posseduti dalla letteratura e dalla cultura russi, e i giri, e le avventure, e le guerre che hanno visto, e vissuto, e percorso in virtù di questa possessione, e, non ho studiato il sardo, però siccome un po’ son stato in Sardegna, penso che sarebbe bello fare un libro composto da racconti semplicissimi che raccontino le cose che sono successe ai non isolani posseduti dalla letteratura, e dalla cultura, e dalla gastronomia, e dalla geografia sarda, e i giri, e le avventure, e le guerre, che hanno visto, e vissuto, e percorso in virtù di questa possessione.
Adesso io il libro sulla Russia ho cominciato a farlo, si chiama La grande Russia portatile, uscirà in agosto, e è un libro che parla dei miei trent’anni di commerci con la Russia, e con la sua lingua, ho cominciata a studiarla nel 1988, e mi sembra, adesso io non so come verrà, ma mi sembra in astratto un libro sensato per una serie di motivi, tra i quali il fatto che su dei filobus di Leningrado io ho cullato la mia solitudine con una tenerezza alla quale solo in Russia, ho avuto accesso, e per via che gli incubi che ho fatto in Russia son stati più incubi che in qualsiasi altra parte del mondo in cui io abbia dormito, e per via che il bere, in Russia, per me è stato più bere di quel che è bere in Italia, così come una biblioteca, in Russia, come la biblioteca Lenin di Mosca, o la Biblioteca Pubblica di Pietroburgo, son state per me più biblioteche, delle biblioteche italiane.
Ecco, io credo che la Russia mi abbia fatto così effetto perché io non sono russo, e mi viene in mente una cosa che mi ha raccontato un appassionato di antropologia di Bologna che si chiama Jean Talon, che mi ha raccontato, che è una cosa che mi viene in mente spesso, quando penso allo straniamento, e io ci penso spessissimo, allo straniamento, e è l’esempio di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi al suo ritorno in patria e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha assolutamente idea di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli,
Ecco, adesso, io, la Sardegna non l’ho studiata come la Russia, per fare un libro del genere sulla Sardegna avrei bisogno di una ventina d’anni di studio come si deve, ma credo che i guinzagli sardi che entrerebbero in un libro del genere, se tra vent’anni dovessi mai trovare il coraggio di scriverlo, ci entrerebbe la prima volta che ho vista la Sardegna dall’aereo, la costa di Olbia, che mi ricordava la Scozia (non son mai stato, in Scozia), e gli orologi a muro delle stazioni delle corriere, quando ho fatto tutta la Sardegna per il lungo, e non ce n’era uno che non fosse fermo, ci entrerebbe il vento, come mai questo vento?, e la sera, a Seneghe, in provincia di Oristano, quando si aprivano le porte delle case, ed era come se il paese raddoppiasse, e un dolce, con il miele, che sembrava un disco volante, e le mani dei sardi quando accarezzano, che restano mani dure, sarde, che tenerezza, e mia figlia, che aveva sette anni, e che un mio amico aveva invitato, insieme a me, nella sua casa di Sarchittu, con una terrazza davanti al mare, e mia figlia, quando si svegliava, al mattino, che facevamo colazione in terrazza, nel silenzio del nostro masticare, lei d’un tratto diceva: «Ma che meraviglia, ma che posto bellissimo».
[Uscito due mesi fa su Sardinia Post Magazine]
martedì 7 Novembre 2017
Una cosa che mi è venuta da chiedermi, sulla Sardegna, è: «Ma i sardi, per come li conosco io, sono ottimisti o pessimisti?».
Ammesso che i sardi nel loro insieme siamo qualcosa di coerente, e io credo di sì.
Per il popolo che mi sembra di conoscere meglio tra tutti i popoli del mondo, il popolo russo, io una risposta ce l’avrei: i russi sono pessimisti. In Russia si dice che «Un ottimista è un pessimista male informato», che mi sembra che definisca bene l’orientamento.
In Emilia, che è un altro posto che conosco abbastanza bene, a Parma, in particolare, e nella mia famiglia, in particolare, all’inizio del secolo scorso erano c’era una miseria, nella famiglia di mia nonna, che mia nonna diceva «In casa nostra c’era una miseria che quando siam diventati poveri abbiam fatto una festa». Che anche qui, da questo aneddoto mi vien da trarre una conclusione: in Emilia, cioè, a Parma, cioè, nella mia famiglia, sono ottimisti.
O, perlomeno, erano ottimisti, perché io non lo so, cosa sono: io fino a poco tempo fa credevo di essere pessimista, o, perlomeno, mi piacevano degli scrittori pessimisti, come Thomas Bernhard, che, quando gli han dato il premio il Premio Nazionale Austriaco ha detto, nel suo discorso di ringraziamento, alla presenza di un ministro: «Lo stato è un’entità condannata al continuo fallimento, il popolo un’entità condannata all’incessante infamia e alla demenza. /…/ Non occorre che ci vergogniamo, però noi siamo davvero niente e non meritiamo nient’altro che il caos. A mio nome e a nome degli altri premiati ringrazio questa giuria, ed espressamente tutti i convenuti» (la traduzione è di Elisabetta Dell’Anna Ciancia). Bellissimo, secondo me, e non tanto ottimista, bisogna dire.
Un’altra cosa bellissima, secondo me, è un riassunto, un riassunto in versi dei Dolori del giovane Werther del poeta Ernesto Ragazzoni (nato nel 1870 vicino a Novara e morto a Torino nel 1920) e fa così: «Il giovane Werther amava Carlotta / e già della cosa fu grande sussurro. / Sapete in che modo si prese la cotta? / La vide una volta spartir pane e burro. / Ma aveva marito Carlotta, ed in fondo / un uomo era Werther dabbene e corretto; / e mai non avrebbe (per quanto c’è al mondo), / voluto a Carlotta mancar di rispetto. / Così, maledisse la porca sua stella; / strillò che bersaglio di guai era, e centro; / e un giorno si fece saltar le cervella, / con tutte le storie che c’erano dentro. / Lo vide Carlotta che caldo era ancora, / si terse una stilla dal bell’occhio azzurro; / e poi, vòlta a casa (da brava signora), / riprese a spalmare sul pane il suo burro». Ecco. Ma Ragazzoni era piemontese, e anche Goethe non era proprio sardo, quindi il problema del pessimismo o dell’ottimismo dei sardi direi che rimane. Mi è venuta in mente una cosa che ha scritto Samuel Beckett, in una sua raccolta che si chiama Pseudo Chamfort, che è una specie di raccolta di aforismi (Chamfort è un aforista francese del XVIII secolo) e il pezzo che mi è venuto in mente è questo: «La speranza non è che un ciarlatano che non smette di imbrogliarci; e, per me, io ho cominciato a star bene solo quando l’ho persa. Metterei volentieri sulla porta del paradiso il verso che Dante ha messo su quella dell’inferno: Lasciate ogni speranza ecc.», che è di un pessimismo esemplare, secondo me, e sarebbe bello se Beckett fosse sardo (ha anche un po’ la faccia, da sardo, le rughe, da sardo), ma non è sardo, purtroppo.
Allora mi tocca parlare dell’ultima volta che sono stato in Sardegna a un festival di letteratura (al Cabudanne de sos poetas di Seneghe del 2016), che avevo appena letto una lettera di Zavattini dove Zavattini diceva, presentandosi a Franco Maria Ricci: «Sono un pessimista, ma me ne dimentico sempre», e io avevo pensato che lì, a Seneghe, io stavo proprio così, che il mio pessimismo conviveva con un benessere stupefacente e, anche se Zavattini non è proprio sardo, è anche lui emiliano, mi vien da pensare che il suo pessimismo smemorato sia parente del «Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà» di Antonio Gramsci, che lui invece sardo lo è, un po’, credo.
[Uscito su Sardinia Post Magazine di ottobre]
sabato 2 Settembre 2017
Io, non è di questo che voglio parlare, ma agosto è un mese che mi piace perché gli altri, il mondo, se così si può dire, vanno in vacanza, io invece lavoro. Che io, da vent’anni, da quando ho trovato un lavoro che mi piace, io le vacanze, se posso evitare di farle, evito volentieri. Che adesso, non è di questo che voglio parlare, ma l’anno scorso un mio amico mi ha mandato una cartolina da Riccione che raccontava una sua breve vacanza e finiva così: «Era meglio stare a casa». E io avevo pensato di fare un concorso che avevo chiamato Era meglio stare a casa summer festival 2016 e avevo lasciato il mio indirizzo (Paolo Nori, via Porrettana, 156, 40033 – Casalecchio di Reno) e avevo chiesto a chi era andato in vacanza e non si era trovato bene di mandarmi una cartolina con un piccolo racconto della propria vacanza disastrosa, se era stata disastrosa, o insignificante, se era stata insignificante, o assurda, se era stata assurda. E avevo ricevuto una cinquantina di cartoline, tra le quali, da un posto a 56 chilometri da Seoul e a 205 chilometri da Pyeongyang, dove i treni della Corea del nord e quelli della Corea del sud si incontrano, una cartolina che c’era scritto: «Ogni turista firma un documento, in coreano, in piccolissimo in inglese: “…la visita all’area comporta l’ingresso in una zona ostile con possibili rischi, tra cui la morte, derivanti da azione belliche nemiche”. Non era meglio stare a casa?» (firmata Anna). Oppure, dalla Danimarca, questa: «Beato te che vai nella vera socialdemocrazia!» mi ha detto Bonetti al bar. 346 DKK (45 €) un panino con l’aringa. 65 DKK (5 €) il coperto e non c’era neanche la tovaglia. In bagno non ci sono andato perché ho finito i soldi.
Socmel la socialdemocrazia! E Bonetti. Ma non era meglio se stavo a casa? (firmata Matteo). E, dall’«Hotel “President” di Siderno (RC), una cartolina dove c’era scritto:
«Era meglio stare a casa ma io già lo sapevo. Muoversi ad agosto insieme a tutta la città è come stare fermi. Parte il treno e parte anche la stazione». (Firmata Mattia, questa ha vinto). Quest’anno il concorso è ripartito, con l’edizione Era meglio stare a casa Summer Festival 2017, e ho ricevuto una cartolina dal Giappone che diceva: «Eravamo al tempio, c’era pieno di ortensie, tutti facevano le foto alle ortensie. Ci viene incontro un signore del posto. “Siete stranieri? Che bello! Grazie che mi rispondete! Italiani? Ohhhh”, diceva in inglese. “Posso farvi una domanda? Davvero grazie, ma è vero, ho sentito in tv, che dopo che avete lavato le cose, voi in Italia, dopo, le stirate? Ah ah ah”. (firmata Anna e Matteo). Poi una, da Berlino, che dice: «Berlino, 7 luglio 2017. Porta in vacanza le tue figlie, e te ne pentirai.Non portare in vacanza le tue figlie, e te ne pentirai.
Porta o non portare in vacanza le tue figlie, te ne pentirai comunque.
Sia che tu porti in vacanza le tue figlie, sia che tu non lo faccia, lo rimpiangerai comunque» (G. B.). Per concludere, e per arrivare finalmente alla cosa della quale voglio parlare, vorrei aprire una sezione sarda dell’Era meglio stare a casa summer festival 2017, che valesse nei due sensi, cioè di qualcuno che raccontasse la sua vacanza sarda disastrosa, o insignificante, o assurda, oppure di qualcuno che raccontasse le vacanze disastrose o insignificanti o assurde alle quali ha assistito, da operatore turistico, magari: che andare in vacanza, con la famiglia, di solito succede che montiamo in macchina, cominciamo a litigare: è come se, in quell’occasione, la famiglia si trasformasse in una condanna, cosa che non succede soltanto quando si va in vacanza, succede anche, per esempio, quando si va all’Ikea. Ecco, mi piacerebbe che qualcuno mi raccontasse questa trasformazione di alcune zone della Sardegna in un’enorme Ikea; in premio c’è una copia introvabile di una rivista che si intitolava L’accalappiacani, il numero 2, uscito nel 2008, che contiene il Cd con il Pignagnoli ballabile, che spiegare cos’è sarebbe anche bello, se non fosse che è finito lo spazio.
[uscito su Sardinia post magazine]
martedì 27 Giugno 2017
Io, di solito, delle cose che scrivo, non ne so molto, e il fatto di non saperne molto, di solito, non è una cosa che mi impedisca di scriverne, mi piace parlare della mia ignoranza, è un tema che mi affascina, è una mia debolezza.
Questa volta, però, quando mi hanno detto che il tema di questo numero di Sardinia Post Magazine erano i festival letterari sardi, io mi son detto che, dei festival letterari sardi, non potevo dir niente, nemmeno indagare la mia ignoranza che sarebbe stata simile alla mia ignoranza sui festival letterari lombardi o veneti o campani, probabilmente.
Poi, qualche giorno fa, dal comune di Cervia mi hanno chiesto di scrivere qualche riga sul concetto di partecipazione, e a me è venuto da scriver così: «Mi succedeva tutti gli anni, a un festival di poesia, che c’era una piazza, centinaia di persone che, guidate dalla voce di qualcuno che era in piedi su un palco, cominciavano a respirare insieme, come se fossero un’unica bestia; e io, che ero lì con loro, non ero più io, ero una parte di quella bestia. Non so cos’era, aveva qualcosa, è difficile usare la parola magia, ma era una specie di magia. Mi succede ancora con mia figlia e sua mamma; son dei momenti, ce ne son tre o quattro al mese, chissà cosa succede, chissà cos’è che li scatena, ma noi, in quei momenti lì, non siamo più tre, siamo un’unica bestia, ed è una cosa, non so come dire, commovente».
Quel festival di poesia era in Sardegna, a Seneghe, si chiamava Cabudanne de sos poetos, che credo voglia dire Settembre dei poeti, e io ci sono andato per sei anni consecutivi e è stata una delle cose più sensate che ho fatto, nella mia cosiddetta carriera di persona che scrive dei libri.
Il che, comunque, mi vien da dire, resta un po’ poco, sui festival letterari sardi, per riempire tutta una rubrica.
Allora, d’accordo col direttore, ho pensato che non avrei parlato solo dei festival letterari sardi, ma anche di un corso, letterario e sardo, che faremo quest’autunno a Cagliari; sarà un corso di scrittura e di lettura, e la parte di lettura consiste nel leggere Guerra e pace (nella traduzione di Pietro Zveteremich – Garzanti) in sette settimane, 207 pagine a settimana, ventinove pagine al giorno, un’ora e mezza al giorno (sono pagine grandi): quarantanove giorni faccia a faccia con Guerra e pace, che è una cosa che ho già fatto a Bologna e a Milano e che in Sardegna sono convinto che sarà una cosa diversa, perché quello lì è un libro che, tutte le volte che l’ho letto, a me è sembrato un libro nuovo.
La penultima volta, mi stavo separando dalla mamma di mia figlia, mi sembrava che Guerra e pace parlasse della separazione tra me e la mamma di mia figlia, della fine di quella bestia di cui si diceva sopra, che invece poi non era mica finita si era sbagliato, Tolstoj (scherzo).
Il corso è organizzato dall’associazione Malik (laboratori@associazionemalik.it) e è dentro una rassegna letteraria che si intitola I libri aiutano a leggere il mondo, che è un titolo che a me sembra un po’ ottimista, ottimismo sardo, probabilmente.
Io non lo so se aiutano, o, perlomeno, non so se tutti aiutano, sono più pessimista, probabilmente, l’ultima volta che sono stato a quel festival di Seneghe io stavo così bene che mi è venuta in mente una frase di Zavattini che, presentandosi a Franco Maria Ricci scriveva: «Sono un pessimista, ma me ne dimentico sempre», e mi è sembrato di esser così anch’io.
Il corso su Guerra e pace, ad ogni modo, lo faccio lo stesso, anche se è dentro una rassegna con un titolo così ottimista, e credo che mi succederà ancora una cosa che è successa al protagonista della Certosa di Parma, Fabrizio Del Dongo, che, intanto che era alla battaglia di Waterloo, ogni tanto si chiedeva «Ma veramente io sono alla battaglia di Waterloo?».
E dopo che era stato alla battaglia di Waterloo, ogni tanto si chiedeva «Ma veramente io sono stato alla battaglia di Waterloo?»
Ecco. Io, tutte le volte che ricomincio a leggere Guerra e pace ogni tanto mi chiedo «Ma veramente io sto leggendo Guerra e pace?». Questo a proposito dei festival letterari sardi.
[uscito su Sardinia post magazine]
domenica 30 Aprile 2017
Se devo pensare a un posto che sia il contrario della Sardegna, mi vengono in mente gli Stati Uniti, cioè il Mississippi, che è l’unico posto dove son stato, negli Stati Uniti, nel 2002, dodici giorni per una rivista di viaggi che mi avevan mandato là a scriver qualcosa che avesse a che fare col blues, a andare in giro a chiedere alla gente cosa pensavan del blues.
Ecco, quel viaggio lì, devo dire, è un po’ fallito, e quello è un motivo per cui io, a quel viaggio lì, sono affezionato, che i fallimenti, per me, son quasi sempre delle esperienze memorabili, e lì in Mississippi, quasi tutta la gente a cui chiedevo mi rispondevano che loro il blues non l’ascoltavano che ascoltavan della musica tutta diversa e io alla fine ero quasi contento, quando mi dicevan così, e quando mi chiedevano da dove venivo io mi ricordo non gli dicevo «From Italy», che dirgli «From Italy» secondo me non avrebbe voluto dir quasi niente, gli dicevo «From Parma», e la maggior parte di loro non aveva idea, di dove fosse questa Parma.
«Parma Mississippi?», mi aveva chiesto un vecchio nero che suonava la chitarra, «Parma Italy! – gli aveva detto un suo amico, – Across the Ocean!», e lui aveva fatto una faccia come se fosse stranissimo, per lui, che ci fossero dei posti «Across the Ocean».
Io, anche a lui, gli avevo poi detto una cosa che dicevo a tutti, in Mississippi, quando mi dicevano che non sapevano dov’era Parma, che io di solito allora gli chiedevo «You know parmesan cheese?», e loro mi dicevano «Yes», «Ecco, – gli dicevo io, – quella lì».
Ma la cosa che mi aveva colpito di più, nel Mississippi, era stato il modo in cui mi parlavano i bianchi, che mi parlavano in un modo, grandi sorrisi e grandi «How do you do?» che però mi sembrava che volessero dire «Stai lontano da me non mi toccare», e io, cercando di sorridere anch’io mi ricordo che io rispondevo «Fine, and you, how do you do?», cercando di fare capire che in realtà volevo dire «Non ho nessuna intenzione di toccarti né di starti vicino non so neanche chi sei».
Mi ero proprio divertito, quei dodici giorni nel Mississippi, invece in Sardegna, tra i posti che conosco la Sardegna è forse il posto che meno di tutti la gente, quando ti incontra, ti sorride e ti dice un «How do you do?» che però ti sembra che voglia dire «Stai lontano da me non mi toccare»; ecco, no, i sardi, da un lato, se ci entri in confidenza, mi sembra della gente toccabile, diversamente dagli americani del Mississippi che ho conosciuto io; dall’altro, i sardi mi sembra sia anche della gente che con loro, quando ti chiedono come stai, difficilmente te la puoi cavare con «Fine, and you, how do you do?». A loro gli devi spiegare per bene, ti devi impegnare, e le tue spiegazioni son spesso seguite da un silenzio che è un silenzio particolare, un silenzio sardo, carico di minaccia, che io non lo so mai, in Sardegna, se quello che ho detto va bene o non va bene, per i canoni sardi, e poi dopo i sardi, un’ultima cosa, o forse due: per loro, si sa, quelli che abitano a Parma abitano generalmente «In continente», però loro, i sardi, diversamente dai vecchi bluesmen del Mississippi, loro lo sanno benissimo dov’è Parma, non c’è bisogno di tirar fuori il parmesan cheese, con loro, e loro, la maggior parte di loro, la cosa che hai fatto tu con il Mississipi, che l’hai fatta una volta, loro con il continente l’hanno fatta decine di volte, centinaia di volte, e quella cosa che ti è successa quando sei arrivato a Parma dopo che sei tornato dal Mississippi, che il Parmigiano-Reggiano ti sei messo a guardarlo in un modo un po’ diverso, che non era solo più il Parmigiano-Reggiano, era anche il parmesan cheese, a loro, ai sardi, a buona parte di loro, per lo meno, con il continente a loro gli è successo decine, centinaia di volte, solo che non era parmesan cheese era pecorino cheese, forse. Quindi tieni conto che sei in un posto che sei con della gente che, primo, il posto dove sei nato c’è il caso che lo conoscon benissimo, secondo, conoscon benissimo il posto dove son nati loro ti conviene stare attento a quello che dici, secondo me.
[Uscito su Sardinia post magazine]
sabato 25 Marzo 2017
Io, che sono nato a Parma, in Emilia, e abito a Bologna, in Emilia, il giorno prima del giorno in cui scrivo questa nota sono andato a presentare un libro a Morciano di Romagna, in provincia di Rimini, e la prima cosa che ho detto, nella presentazione, ho detto che ero contento di essere in Romagna e che, appena avevo visto intorno a me la Romagna, mi era venuto in mente quando anni prima, a Roma, un tecnico della Rai con il quale avevo parlato di un libro che si chiama La banda del formaggio, quando aveva sentito che il protagonista era di Parma, e che anch’io ero di Parma, alla fine, prima di salutarci, mi aveva detto che lui c’era stato, dalle mie parti, in Romagna, e che si stava bene, e io, quella volta lì, a Morciano di Romagna, avevo detto che noi, emiliani e romagnoli, da lontano sembriamo uguali invece siamo diversi, secondo me.
Figuriamoci quanto sono diversi emiliani e sardi.
Da qualche anno sto facendo, in diverse città d’Italia, il repertorio dei matti di quelle città, che è un lavoro che ha comportato la scoperta, del tutto imprevista, del fatto che il modo di essere matti a Torino, per dire, è molto diverso dal modo di essere matti a Parma, per dire.
A Torino, i matti di Torino si comportano quasi tutti come se fossero in interni anche quando sono in esterni, e il matto più torinese di tutti, tra quelli che sono andati a finire nel libro, a me sembra sia questo qua:
«Uno telefonava ai vicini per dire che dalla sua finestra vedeva un quadro storto e per favore di drizzarlo, se no non riusciva a dormire».
Il matto più parmigiano tra i matti di Parma, invece, secondo me è questo qua:
«Uno era un direttore d’orchestra, nato vicino al parco ducale. Era uno che, per dire, quando venne nominato senatore a vita rispose al presidente della repubblica con un telegramma con scritto “no, grazie”. Raggiunta la fama, si era trasferito in America, e i teatri facevano a gara per averlo; i musicisti un po’ meno, dato che era solito rivolgersi loro dicendo: “Look at me, teste di cazzo”».
Che ha quella cattiveria così parmigiana che a me piace tanto.
Il matto più andriese dei matti di Andria, secondo un sondaggio fatti dai redattori del Repertorio, è questo qua:
«Una volta stavano restaurando il Palazzo Ducale e uno, approfittando delle impalcature montate, decise di rubare qualcosa di prezioso. Rubò un balcone».
E a Livorno, per dire, i matti di Livorno secondo me sono un po’ il contrario dei matti di Torino, si comportano sempre come se fossero in esterni anche se sono in interni, e il matto più livornese dei matti di Livorno, per me, è questo qua:
«C’era uno che quando ascoltava la radio diceva: “Ma queste cantanti di oggi: Emma Marrone, Malika Ayane, Alessandra Amoroso. Ma quanto c’avranno, vent’anni? E stanno sempre lì a cantare di depressione, oddio mi hai lasciato, mi voglio ammazzare, senza di te come farò. Io Boia! Dovrebbero parlare di trombare, come mi va di chiavare, mi devi pipare ancora di più. Ecco di che dovrebbe cantare una che c’ha vent’anni. Sanno una sega loro della vita di merda, sanno”».
Che c’è quella cattiveria, lì, livornese, così bella e così cattiva.
E poi vengono i matti di Cagliari, e con loro i problemi.
Perché a me, come devo avere anche già detto, i sardi piacciono molto, e una cosa che mi piace molto, dei sardi, è che sono quasi più permalosi di me, allora conoscendomi, e sapendo come son permaloso, io dire qualcosa, dei sardi, non è semplicissimo, però visto che me l’han chiesto, e visto che io ho accettato, bisogna provare.
Allora io, che non sono uno che se ne intende neanche tantissimo, mi rendo conto, ma i matti più sardi tra i matti che ci sono nel repertorio dei matti della città di Cagliari a me sembrano questi due qui:
«C’erano due, marito e moglie. Non avevano figli e non avevano amici. Passavano la settimana a lavorare, ma la domenica mattina indossavano il vestito bello, mettevano musica degli anni Quaranta sul giradischi e ballavano insieme nel salotto di casa».
[Uscito sul numero di febbraio marzo di Sardinia post magazine]
venerdì 2 Settembre 2016
Chi, come me, non è sardo, credo resti colpito dal modo in cui i sardi son sardi anche fuori della Sardegna, dove praticamente in ogni città c’è un circolo di sardi che coltivano la sardità, se si dice così (e, ho controllato sul dizionario, si dice così, ma esiste anche «Sarditudine», sul modello di «Negritudine», dice il dizionario). Questa cosa, però, mi son detto, forse riesco a capirla anch’io che sono di Parma e che, quando ero piccolo, ero abituato a considerare vere solo le cose che succedevano a Parma e ero accerchiato, senza accorgermene, da una parmigianità (o, sul modello di negritduine, parmigianitudine) che poi, quando 17 anni fa mi son trasferito a Bologna, ho scoperto che non era, come credevo, un attributi dell’umanità intera (o, sul modello di negritudine, dell’intera umanitudine).
Che io, mi rendo conto che era una cosa che può sembrare ridicola, ma io, a Bologna, a novanta chilometri da Parma, sono quindici anni che mi sento in esilio, che è un esilio, come tutti gli esili, probabilmente, prevalentemente linguistico, cioè ci sono delle parole, delle espressioni, non so, salviettone, che vuol dire salvietta grande, asciugamano grande, telo mare, ecco io quando ero piccolo finché ho abitato a Parma ero convinto che salviettone fosse una parola che in Italia la capivan dovunque, quando mi son trasferito a Bologna che ho capito che a Bologna salviettone era una parola che non la capiva nessuno, cos’era, ci son rimasto malissimo, e qualche mese fa, quando in un liceo bolognese mi han presentato come uno scrittore bolognese io ho ringraziato ma io, ho detto, mi dispiaceva, ero di Parma, e essere uno di Parma a Bologna, per me, avevo detto, era come essere il protagonista di quella canzone di Sting, An englishman in New York, mi era scappato di dire. E l’esilio linguistico vale anche al contrario: quando uno va dal bottegaio, a Bologna, e gli chiede, per dire, due etti di prosciutto di Parma, il bottegaio, dopo che ti ha tagliato i due etti di prosciutto di Parma, ti chiede «Altro?», e tu, se non vuoi altro, devi rispondergli «Altro», e se invece gli rispondi «Nient’altro», il bottegaio capisce che non sei di Bologna, sei di Parma ma non solo di Parma, c’era un ragazzo toscano che mi ha raccontato che per Natale doveva tornare in Toscana e era andato a comparare una punta di parmigiano e il formaggiaio gliel’aveva data e poi gli aveva chiesto «Altro?», e gliel’aveva chiesto con un tono così categorico, come se non dubitasse affatto che quel ragazzo toscano avrebbe voluto qualcos’altro, e quel ragazzo di Livorno, che non voleva nient’altro, aveva detto «Sì, me ne dia un’altra», e aveva preso un’altra punta di parmigiano della quale non aveva nessun bisogno.
Ecco io, dopo, poco tempo fa, tipo quattro mesi fa, mi è successo che sono andato dal bottegaio, ho preso due etti di prosciutto di Parma e il bottegaio mi ha chiesto «Altro?», e io, me lo ricordo perfettamente, gli ho risposto «Altro», e dentro di me, stupefatto, mi sono detto «Ecco, dopo diciassette anni ti sei ambientato», ma questo mio avvicinamento alla cultura americana, se così si può dire, non è una naturalizzazione, io il salviettone continuerò a chiamarlo per sempre salviettone e io, che in politica credo di essere libertario e contro i confini, nella vita quotidiana continuo a perpetrare, nei miei comportamenti e nei miei pensieri, la condizione dei primi dell’ottocento quando Parma era la capitale di uno stato indipendente che con lo stato Pontificio, dove si trovava Bologna, non ci confinava neanche, e credo che mi ricorderò sempre una cosa che ha detto il direttore di questo giornale la prima volta che l’ho sentito parlare, lui che, sardo, aveva vissuto a Roma tanti anni ma a Roma, se doveva andare, aveva detto, non so, da Roma a Civitavecchia, lui nella sua testa si diceva che era come andare da Cagliari a Oristano e che lui, nella sua vita, tutti i chilometri che aveva fatto erano chilometri sardi che a me era sembrata una cosa che, nonostante l’estraneità data dalla mia parmigianità (o parmigianitudine) mi era sembrata di capirla così bene.
[Uscito su Sardinia post magazine]
martedì 12 Luglio 2016
La Sardegna per me, per degli anni, è stata un adesivo. Un adesivo con una scritta blu su fondo giallo che a un certo punto avevo cominciato a vedere sul retro delle macchine e che voleva dire, nella mia testa, che quella macchina lì era stata in vacanza in Sardegna. Che delle volte, invece, a guardarci bene, poi mi accorgevo che era stata in Corsica. E pensavo, per degli anni, nella mia testa, che quella macchina lì era dei ricchi. La Sardegna, per me, per degli anni, è stato il posto dei ricchi. Che io, con i miei genitori, al mare, andavamo a Bellaria e Igea Marina. Prendevamo in affitto una casa al confine tra Bellaria e Igea marina; non era la Sardegna, e neanche la Corsica. Dopo poi, mi sono iscritto all’università, la Sardegna per me è diventato un ragazzo che aveva una barba dura, da sardo, e veniva a lavorare dove studiavo io, traduceva e scriveva, e parlavamo tutti i giorni, lui diceva che somigliavo a Lenin, forse per via del fatto che avevo il pizzetto e studiavo russo, lui traduceva dal francese e scriveva di Bakunìn, con l’accento sulla i, come lo pronunciavano in Francia e in Sardegna. Poi ho cominciato a scrivere anch’io e la prima volta che ci sono andato, in Sardegna, ci sono andato per presentare un libro in cinque librerie, a Alghero, Sassari, Nuoro, Oristano e Cagliari. Era il 2003, e mi ricorderò sempre tre o quattro cose, di quel viaggio: le coste della Sardegna la prima volta che le ho viste, dall’aereo, che mi erano sembrate simili alle coste della Scozia (non ero mai stato, in Scozia); il libraio di Alghero che mi era venuto a prendere a Olbia e che mi aveva chiesto, nel viaggio in macchina, cosa pensavo di Lucarelli, poi cosa pensavo di Carlotto, poi cosa pensavo di Machiavelli, poi cosa pensavo di Scerbanenco, poi cosa pensavo di Carofiglio, poi cosa pensavo di Camilleri e poi alla fine, quand’eravamo arrivati in libreria, mi aveva presentato come un giallista bolognese, io che abitavo a Bologna ma non ero di Bologna e che di gialli non ne scrivevo; era comprensibile, l’errore di quel libraio, perché quello era un periodo che, se c’era uno scrittore, era un giallista, e se c’era un giallista, era bolognese; a Sassari, un professore che a cena aveva parlato di Dickens e che aveva detto che Dickens è crudele, che se ti vuol far ridere, ti fa ridere, e se ti vuol far piangere, ti fa piangere; e a Oristano, i librai che mi avevano ospitato, mi avevano fatto un dolce con il miele che sembrava un disco volante, com’era fatto, e era buonissimo. Ecco. Da quella volta lì, sono andato tante volte, poi, in Sardegna, e continuo ad andarci, e una cosa che mi piace dei sardi, del loro carattere, è che sono quasi permalosi come me, e allora ho l’impressione che mi capiscano, forse, e un po’ di capirli, anche, forse. E l’ultima volta che ci son stato, in Sardegna, ci son stato per curare una cosa che si chiama Repertorio dei matti della città di Cagliari, e tra i matti che hanno scritto gli scrittori sardi che hanno scritto il Repertorio ce n’è uno che dice così: «Uno se ne era andato in continente, e partendo, dalla nave che lasciava Cagliari, si era detto: “Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarai libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini”. Se ne era andato in continente a tradurre libri, a scrivere libri. Scriveva di antiche leggende sarde, di giudici banditi, di minatori e cani e addii. Era diventato un traduttore e uno scrittore, uno scrittore sardo dicevano in continente, e una volta era venuto in Sardegna ed era morto. Ma era morto in mare, mica scrivendo. Era morto in mare ma in un vecchio sogno “arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: “Lo attraverso?” e rispondeva: “No. È troppo largo.” Quel ragazzo con la barba dura, da sardo, che diceva che somigliavo a Lenin.
[Uscito su Sardinia Post Magazine]